Visualizzazione post con etichetta Il Pavone Bianco. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Il Pavone Bianco. Mostra tutti i post

sabato 30 novembre 2013

Il giorno perfetto



Se vuoi vedere le valli,
sali in vetta a una montagna; 
se vuoi vedere la vetta di una montagna,
sali su una nuvola;
se invece aspiri a comprendere la nuvola, 
chiudi gli occhi e pensa.
Kahlil Gibran

Racconto di Cristina Del Frate e Carla Pavone 
Foto di copertina di Francesco De Masi

mercoledì 11 luglio 2012

domenica 8 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Epilogo


Il sole era alto nel cielo. La spiaggia era rimasta quasi desolata dopo la notte dei festeggiamenti del Capodanno. La musica aveva lasciato posto al ritmico infrangersi delle onde sulla battigia, il buio della notte si era arreso ai colori accecanti del giorno.

Viola era seduta sulla duna più alta, sola, con le gambe attaccate al petto e le braccia che le tiravano ancora di più verso sé. Era chiusa nel suo dolore di sempre, in compagnia dei rimorsi che le corrodevano la coscienza ancor più che in passato, dopo che Didi le aveva rinfacciato di non averle mai confessato nulla di ciò che sapeva. Aveva pianto da quando lei se n’era andata. Non aveva avuto il coraggio di fermarla, stretta nella sua colpa che la inchiodava a terra e più in giù, nel profondo del suo cuore. Aveva le labbra ferite per i morsi, il vento ed il sale che quasi la stavano corrodendo come una roccia erosa dal mare, ma restava lì, con lo sguardo perso nel vuoto e l’animo che vagava tra il presente ed il passato.

Aveva deciso di confessare tutto a Didi. Lei l’avrebbe capita. L’aspettava lì, nel punto più alto da dove l’avrebbe vista tornare.

Lizge la vide e si fece coraggio. Viola la vide arrivare da lontano. Era la seconda volta che saliva sulla duna. Lizge non aveva idea di cosa fosse accaduto tra le due amiche, ma la feriva vedere Viola così disperata. La prima volta che l’aveva raggiunta, aveva cercato di consolarla, di riportarla giù per mangiare qualcosa e riposare. Viola si preparava a ripeterle, con calma, che finchè Didi non fosse tornata, lei non si sarebbe mossa.

«Viola, devi venire giù con me.» le disse Lizge appena le fu accanto.
«Lizge, sei un angelo, ma io non posso muovermi, finchè Didi non torna. Devo parlarle, devo aspettarla qui.»
«Viola, devi venire giù con me, mi spiace.» Lizge abbracciò Viola forte e continuò: «Didi non tornerà...»
«Perchè? Se n’è andata? Non l’ho vista, Dio mio! Non mi sarò mica addormentata senza accorgermene e non l’ho vista?» le disse Viola, mentre i suoi occhi iniziavano a riempirsi di terrore ed il suo cervello si metteva in allarme, certo che qualcosa di più grave fosse successo a Didi.
«Didi... Didi è morta. Mi spiace.»

venerdì 6 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Capitolo 5


Il pomeriggio del giorno seguente Viola aveva lasciato Didi e Lizge per andare a Pedra Furada. Aveva camminato a lungo ed era arrivata, stanca ma contenta di poter vedere una delle più belle e spettacolari rocce sulla Terra. Non aveva molto tempo se voleva tornare indietro per le undici, in tempo per i festeggiamenti del Capodanno.

Viola camminava stretta nel suo vestito aderente di lino bianco. I capelli raccolti in alto si intrecciavano con alcuni bianchi fiori di palma, le gambe leggermente abbronzate fuoriuscivano da uno spacco laterale profondo che le arrivava fino ai fianchi, ed i piedi scalzi rabbrividivano al contatto mentre l’acqua del mare, fredda, le si attorcigliava alle caviglie. Guardava verso la roccia più bella che avesse mai visto e rimpianse che non fosse luglio, quando, al momento del tramonto, Didi le aveva raccontato che il sole attraversa l’arco di quella pietra con i suoi raggi, regalando agli spettatori sulla battigia uno spettacolo di fuoco.

Decise di tuffarsi, ma esitò al pensiero di non avere nulla per cambiarsi. Aveva freddo, ma la voglia dell’abbraccio materno di quell’acqua era irresistibile in lei. Non c’era nessuno, perchè perfino i turisti erano andati via, attirati dai preparativi per la notte di Capodanno. Quando era passata dal villaggio aveva sentito addosso alla sua pelle l’eccitazione della gente, soprattutto quella dei bambini, che si stavano preparando al battesimo con la dea Iemanjà, alla quale avrebbero offerto il loro primo dono pieno di speranza e che non vedevano l’ora di perdere il respiro in quei minuti in cui non sapevano se la corrente avrebbe trascinato al largo i loro doni, come promesssa di felicità, o li avrebbe riportati verso la riva, come presagio di sventura. Quando era arrivata al mare, ne aveva visti altri provare a cavalcare le onde, di seguito, tutti tesi a non scivolare, perchè quella sera non avrebbero potuto sbagliare nemmeno una delle sette onde sulle quali ci si aspettava che volassero. E inevitabilmente aveva pensato alla sua prima volta con Didi, a Copacabana, a quel momento in cui al quinto salto, mano nella mano, erano scivolate l’una sull’altra, a quella sensazione di sconfitta, al presagio che si era infilato nei loro cuori, nero e melmoso, oscurando la felicità di quel primo Capodanno insieme.

mercoledì 4 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Capitolo 3


«E se andassimo a pattinare lungo l’Avenida?»

Didi interruppe bruscamente quel silenzio che si faceva sempre più pesante. Provava su di sé il peso del dolore di Viola, sentiva l’oppressione al petto come se quell’amgoscia fosse sua e voleva cercare di spezzare quella lama infilzata nei loro cuori, in qualche modo, in qualunque modo. Voleva che Viola reagisse a quello stato inerte che l’attanagliava fin dalla sera in cui aveva ucciso quell’uomo. Didi era conscia di doverla spingere a parlare, ma nonostante la conoscesse da una vita, in quel momento si sentiva impotente di fronte a qualcosa che non conosceva e che immaginava essere qualcosa di orribile, al punto di averla spinta ad uccidere.

«Non ne ho voglia, Didi... ma tu vai... io ti aspetto qui.» le rispose Viola.
«Dài, come quando eravamo piccole... su, non mi fare andare da sola, non sarebbe la stessa cosa... ti prego...»

Viola guardò Didi con uno sguardo vuoto e Didi percepì che quel richiamo alla loro comune infanzia non era stata una buona idea. Eppure aveva smosso qualcosa dentro Viola e Didi intuì che quella poteva essere la chiave giusta per entrare in quel muto e solitario mondo nel quale Viola si ostinava a rinchiudersi.

«Ho visto la pubblicità di un negozio, giù in reception. Affitta roller per l’intera giornata ad un prezzo davvero stracciato. Passiamo qualche ora lungo l’Avenida. La giornata è bella... non vale la pena star qui dentro a pensare e ripensare a ciò che è successo. Vieni... andiamoci a cambiare...»

Didi la prese per mano e Viola docilmente la seguì, come una bambina che segue sua madre, certa che non le potrebbe fare mai del male. Uscirono poco dopo dalla stanza, si fermarono presso la reception per prendere nota dell’indirizzo del negozio e si incamminarono lungo l’Avenida Atlantica. Si fermarono qualche incrocio più avanti verso sud, affittarono i pattini in un piccolo negozio senza insegna, attraversarono l’Avenida e si portarono sulla zona ciclabile.

Fu Viola a partire per prima, con lo sguardo che viaggiava intrepido e sicuro sulla strada di fronte a sé, e la coda dell’occhio che sbirciava a tratti la spiaggia bianchissima, resa quasi diafana dal sole ed il mare che faceva capolino poco più in là. Ad ogni passo, Viola sentiva tutta la sua rabbia sfogarsi sulla gamba che appoggiava per terra e quando questa si alzava lo slancio sprizzava fuori di lei tutto ciò che di negativo le opprimesse l’anima. Il vento le sferzava il viso accalorato sempre di più dallo sforzo.

Didi quasi faticava a tenere il suo ritmo, e temendo di perdere terreno, era concentrata ad investire tutte le sue forze in ogni singolo movimento. Seguiva Viola chinata in avanti, con le mani sulle rotule, fissando senza tregua l’amica che di fronte a lei procedeva veloce, evitando ciclisti e pedoni, nella sua sicura andatura.

lunedì 2 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Capitolo 1


Viola si fermò a guardare l’uomo steso sul suo letto. Guardò il sangue che gli fluiva fuori dal viso e dal petto attraverso i vestiti laceri, riversandosi sulle lenzuola bianche di cotone. Si sentì infastidita più per le lenzuola che per averlo ucciso, mentre un senso di calma la pervadeva, come se secoli di odio e vendetta covati nel buio della sua coscienza avessero trovato finalmente pace in quella sentenza di morte.

Andò in bagno e si fece una doccia. Indossò una tuta vecchia, pensando che “dopo” l’avrebbe dovuta buttare, e uscì di casa. Salì le scale e bussò al campanello dell’appartamento situato proprio sopra il suo.

«Didi sono io, Viola. Per favore apri, è importante!» urlò dietro la porta, dopo aver scampanellato più volte e bussato con la mano contro il legno marcio e traballante, immaginando che l’amica fosse impegnata con un cliente. «Didi, apri, per favore, lo so che ci sei...»

La porta si aprì, ma la catena era fissata e Viola vide la spalla nuda della donna fare capolino.

«Che vuoi? Non posso adesso...» le sussurrò Didi.
«Molla tutto, per favore, ho bisogno di te giù, e subito...»
«Viola ne ho uno qui che mi paga un sacco di soldi. Ne ho per mezz’ora, non di più. Mi servono quei soldi, devo pagare il biglietto per tornare a casa a Natale...»
«Va bene, ma fai presto, mi raccomando. Non so quanto tempo posso aspettare...»
«Ma non eri anche tu con un cliente?»
«Appunto, “ero”. Sbrigati... a dopo!» disse Viola, allontanandosi e iniziando a scendere la rampa di scale per tornare al suo appartamento.
«Hai già finito o è successo qualcosa? Ehi Viola?» bisbigliò sottovoce Didi.
Poi chiuse la porta e tornò al suo cliente.

Viola rientrò nel suo appartamento. Si sedette sulla sedia davanti al letto e tornò a guardare l’uomo. Non riusciva a capacitarsi di esserci riuscita, ma qualcosa dentro di lei ribolliva ancora. Non poteva ancora archiviare nella sua memoria quel ricordo, ma presto se ne sarebbe liberata e con lui avrebbe finalmente potuto smettere con quella “vita”.

lunedì 5 marzo 2012

L'amore proibito - Capitolo 8


My Lay non era lontana. Erano passati circa due mesi da quel giorno, e Liliana aveva ancora sottomano la cronaca che aveva stilato. Ricordava ogni parola che aveva scritto, ogni fitta che aveva provato raccontando di quella infame strage. Era stata male, aveva vomitato, aveva pensato di andare via dal Vietnam e tornare a casa, ma alla fine aveva prevalso il senso del dovere che la portava a raccontare quello che sentiva, quello che vedeva, quello che accadeva, perchè tutto il mondo potesse essere conscio di quello scempio.
Il giornalismo era cambiato rispetto a quando era arrivata in Vietnam. Quella maledetta guerra l’aveva cambiato. Quando era arrivata negli altopiani centrali del Vietnam del Sud, le veniva chiesto soltanto di raccontare storie degli eroi americani, delle loro vite e delle loro imprese. Era partita da Milano nell’estate del 1965, quando gli Stati Uniti avevano deciso di acconsentire all’invio di ingenti truppe nel Vietnam del Sud, su richiesta del generale Westmoreland. Erano poche, allora, le voci che stonavano nel coro di laudi verso gli eroi della bandiera a cinquanta stelle, quelle voci tacciate di “comunismo”, solo perchè raccontavano delle morti civili invece che delle imprese americane.

Nel 1968 il conflitto aveva assunto un risvolto drammatico che non era più possibile celare dietro la “guerra giusta”, la morte era entrata in troppe case americane per fingere che quell’impresa fosse un successo. Liliana sapeva del profondo dissenso civile che stava pian piano esplodendo nelle piazze e nelle università. Quello che succedeva in America lo sapeva dai suoi colleghi reporter. Quello che succedeva in Italia lo sapeva dalle parole di Virginia.

Si erano scritte sempre. Le lettere non venivano consegnate con regolarità: a volte ne riceveva una al giorno, altre volte non ne riceveva per mesi e poi in un giorno solo le lasciavano un cartone pieno di buste. Succedeva soprattutto quando cambiava campo e risultava difficile rintracciarla. Le teneva chiuse tutte in una piccola cassapanca che teneva nella sua tenda: aveva quasi più lettere che vestiti, ma non se ne curava. Quelle lettere erano il suo cibo. Nei momenti più difficili le leggeva una dietro l’altra, si perdeva dietro i racconti di vita reale che Virginia così dettagliatamente le faceva. Seguiva giorno dopo giorno la vita di Liliana, la piccola Liliana, alla quale si era affezionata già dopo poche settimane che l’aveva conosciuta attraverso i racconti di sua madre. Dal suo canto, Liliana raccontava a Virginia il dolore, le atrocità alle quali assisteva, le storie terribili che ascoltava al campo, quelle che non sapevi se fossero frutto di fantasia o no e quelle che sapevi con certezza che erano realtà, perchè venivano dalla bocca di un uomo, che non aveva più nulla di umano dopo essere sopravvissuto alla tortura.

sabato 3 marzo 2012

L'amore proibito - Capitolo 6


Il pendolo del soggiorno smise di emettere il suo noioso ticchettio, gli uccellini uscirono dalla loro casetta e iniziarono a pigolare per dodici volte. Liliana si distrasse dai suoi pensieri remoti nel tempo e si guardò in giro. Scrutò la sala intorno a sé, concentrandosi su alcuni pezzi del suo passato: il suo primo articolo su un libro di Idiers, composto nel 1947, a soli ventun anni, per il Nuovo Corriere della Sera, posto tra due vetri oramai opachi ed impolverati, retti da una cornice color noce; un piccolo regalo della segretaria di direzione che la seguiva in quegli anni; una serie di quadernetti neri con le pagine oramai ingiallite che la seguivano fedeli sempre, ovunque andasse; infine, qualche boccetta dell’inchiostro che fermava sulla carta i suoi pensieri.
Si alzò dalla poltrona di velluto azzurro e aprì la credenza dove si trovava “quel” quadernino. Lo prese e lo sfogliò velocemente, quasi volesse sincerarsi di non aver sbagliato, e cercò le pagine di quel maggio della sua adolescenza. Non aveva sbagliato, e come avrebbe potuto? Era il libricino più consumato fra tutti gli altri, quello sul quale aveva pianto mille volte, quello che aveva stretto a sé molte notti, non solo quando la sua fanciullezza poteva permetterle certe debolezze, ma anche dopo, quando  la natura aveva imposto una certa dignità ai suoi sentimenti.

Si recò in cucina, prese dell’uva, ripose gli acini in una ciotola e tornò in soggiorno. Sul tavolinetto affianco la poltrona appoggiò la ciotola di porcellana blu con gli acini, si sedette, chiuse un attimo gli occhi e poi li riaprì. Aprì il libretto a quel giorno di maggio e iniziò a leggere, spiluccando un acino alla volta.

Una lacrima le scendeva di tanto in tanto sul viso, che si corrugava ora di rabbia, ora di angoscia, ora di tormento, man mano che le sue stesse parole le rammentavano quei forti sentimenti che aveva provato. No, non aveva dimenticato nulla: nè la speranza che l’aveva accompagnata in quel viaggio in tram, nè la profonda delusione dello scoprire che aveva perso Virginia per sempre, nè quel sentimento di felicità che le aveva dato guardare quell’albero, un albero enorme, gigantesco, di fronte al quale aveva pensato che qualcosa di così grande non può morire. E proprio perdendosi tra le sue fronde, incespicando nei rami e tra le foglie rosso scuro, aveva percepito in sé la certezza che un giorno avrebbe rivisto Virginia.

giovedì 1 marzo 2012

L'amore proibito - Capitolo 4


Liliana si svegliò di soprassalto, sentendo la madre girare frettolosamente per casa. Andava dalla sua camera al tinello. Sentiva che frugava nel suo armadio e poi con passi svelti usciva. Tornava, frugava ancora e poi usciva.

Rimase con gli occhi chiusi per almeno un quarto d’ora, cercando di convincersi che non stava accadendo davvero, ma quando aprì gli occhi constatò che il suo armadio era stato svuotato. Sollevò di scatto le coperte e corse nel tinello, dove un paio di valigie si presentarono ai suoi occhi, pronte per essere portate via, da qualche parte, lontano da Milano.
«Io non voglio andare via! Io voglio restare qui...» disse, scoppiando a piangere.

Sua madre la guardò immobile, incerta se rimproverarla o se stringerla al petto come faceva quando era piccola e piangeva inconsolabile per qualche capriccio o qualche piccola ferita. Non si erano mai separate da quando era nata: quella sarebbe stata la prima volta, ma era l’unica cosa giusta da fare in quella maledetta guerra... Liliana non doveva rimanere a Milano, non doveva vedere la morte e la distruzione, doveva starne fuori e non immagazzinare ricordi che l’avrebbero ferita anche a decine di anni di distanza. La guardò serena, le si avvicinò e l’abbracciò piangendo: «Piccola mia, credimi, non lo farei se non fosse necessario. Io e tuo padre dobbiamo restare qui, non possiamo venire con te. Andrai dallo zio Eustachio. Starai bene con loro, fidati. Ci sono Giorgia, Nella... sono le tue cugine, non starai male, piccola... e poi appena potremo, verremo a riprenderti. Non puoi stare qui adesso, è pericoloso... Non puoi... Non voglio...»

Liliana le urlò contro: «E non conta quello che voglio io, mamma?» e scoppiò a piangere ancora più forte, mentre sua madre la traeva al petto e le accarezzava i capelli. Rimasero abbracciate, strette l’una all’altra, singhiozzando e gettandosi addosso il dolore di quella inconcepibile separazione. Poi la madre si staccò da Liliana e le disse: «Ora vai a vestirti, lo zio arriverà tra poco.»

martedì 28 febbraio 2012

L'amore proibito - Capitolo 2


Liliana si specchiò negli occhi di Virginia e scambiò in quello sguardo tutto quello che provava nel cuore. La paura, per un attacco inatteso, improvviso, che aveva gettato le loro giovani vite nel cuore di una guerra dalla quale si erano sentite estranee fino al momento in cui i Lancaster avevano iniziato a gettar giù i loro pacchetti infiocchettati di nastro funebre. Il terrore, per i rumori che giungevano assordanti da sopra le loro teste e che lasciavano ben poco all’immaginazione. La disperazione, che leggevano negli occhi degli adulti e che non lasciava loro scampo. La speranza, i sogni, i desideri, esplosi con le bombe che fuori stavano distruggendo il loro passato, il loro presente ed il loro futuro. E percepì in lei un dolore intenso, forte, che non riusciva a riscontrare in sé e che voleva scoprire.

Liliana guardava gli occhi di Virginia e si chiedeva come potessero due semplici globi esprimere quello che tremava nel cuore. Si chiedeva se anche i suoi occhi stessero trasmettendo quelle sensazioni, se anche Virginia stesse percependo dentro di sé quello che lei provava.

Fu Virginia che distolse per prima lo sguardo, rendendosi conto che la ragazza di fronte a sé stava tremando. Pensò che fosse per l’umidità che le stava penetrando nella pelle attraverso i pochi indumenti che aveva indosso: quella giornata era stata mite e lei non viveva da quelle parti, non l’aveva mai vista. Sicuramente non aveva avuto il tempo di tornare a casa, arraffare un cappotto o qualcosa di caldo per proteggersi nel rifugio. E aveva paura, una fottuta paura come lei. Aveva bisogno di affetto, lì da sola, senza i suoi cari. Probabilmente si stava chiedendo dove fossero i suoi genitori, si stava preoccupando all’idea che anche loro potessero essere in pensiero per lei, non avendola vista nel rifugio.

martedì 10 gennaio 2012

Era Clarissa


Capita così per caso, che esci dall’ufficio in un freddo pomeriggio d’inverno e vedi una donna che esce da una farmacia. In testa ti ossessiona l’idea di come sia fatta la sua vita, la immagini e ti inventi una piccola storia... questa.


Eccola che esce dal negozio. E’ lei, Matilde, con il suo cappotto bianco abbottonato fin sotto il collo. Con la sua sciarpa di cashmere annodata alla moda. Il suo cappello bianco con la tesa larga. I suoi capelli neri che le scendono lungo le spalle e si intrecciano sulla schiena in finti boccoli da parrucchiere. Perfetto il trucco, gli occhi  marcati da un filo di eyeliner e un accenno di mascara che le allunga le ciglia, un po’ come quelle della pubblicità, il rossetto appena accennato sulla labbra morbide. E’ uscita da una farmacia, una mano allungata sul guinzaglio che trattiene uno sgorbio piccolo e peloso di cane da salotto dell’alta società, che abbaia, ovviamente, e la borsa ampia di Prada. Si regge su scarpe decollété con il tacco alto a spillo, almeno dodici centimetri.

Il suo fisico è magro e asciutto, immagino frutto di ore di palestra il pomeriggio. La palestra privata, ovviamente. Quella che si è fatta in mansarda, nel suo appartamento in pieno centro a Milano, in via Montenapoleone, lasciatole dai genitori in eredità qualche anno fa, quando sono morti.

La guardo e vedo me, il suo opposto. Quasi mi vergogno del confronto, ma so che non devo. Ho dovuto combattere fin da piccola contro tutti e tutto. Appena nata ho dovuto lottare per sopravvivere, perchè mi avevano abbandonato nell’ospedale dove avevo visto la luce. Potevate tenerla spenta quella luce, ho pensato spesso, invece di illuminare il mio mondo di merda. Ho dovuto combattere ogni giorno per la merenda, per i giochi, per un cappotto, per un libro, per una carezza o un bacio. La mattina mi svegliavo rattrappita in un letto per il freddo, mi lavavo con l’acqua ghiaccia d’inverno e indossavo la stessa felpa e lo stesso pantalone per giorni interi, finchè non ce li cambiavano perchè si accorgevano che erano troppo lerci. Tutto questo è servito a farmi forte e dura e quando al compimento dei miei diciotto anni sono stata spedita in una casa famiglia, perchè l’orfanatrofio non poteva più ospitarmi, essendo maggiorenne, ero pronta a combattere ancora, per altri obiettivi: un lavoro ed un piccolo gruzzolo di soldi al mese che mi consentisse di sopravvivere in modo dignitoso, senza ridurmi alla prostituzione, come avevo visto accadere a molte delle ragazze con le quali avevo passato la mia infanzia. Non chiedevo altro. Ce l’ho fatta: sono riuscita a studiare e a laurearmi nonostante tutto mi fosse contro, rinunciando a tutto quello che le ragazze della mie età avevano.

lunedì 9 gennaio 2012

Il cappello di paglia


Ero a Cuba, Trinidad, quella sera. Con Fabiana e Manuel. Ero un po’ giù di corda, nonostante Cuba sia il posto peggiore per essere giù di corda, visto che tutto trascina dietro l’allegria. Eravamo in una locanda sulla spiaggia, faceva caldo, quel caldo che solo una tempesta tropicale porta con sé. Avevo comprato un cappello di paglia per mio padre. Lo indossai, assecondando Fabiana e Manuel che cercavano a loro modo di tirarmi su il morale. Quando mi voltai verso Fabiana, che sedeva alla mia sinistra, Manuel mi scattò quella foto. Non so se fu perchè mi colse alla sprovvista - Manuel non era quello che può essere definito un bravo fotografo, perciò credo più al caso che alla bravura -  ma in quella foto colse l’essenza della mia anima. Fu credo per quel motivo che decisi, tempo dopo, di caricare proprio quella foto sul mio profilo di Facebook.
All’epoca non sapevo, non potevo sapere, che quella foto mi avrebbe cambiato la vita.
Vicky

***

Era una delle solite serate di merda, in cui tutto il marciume che avevo dentro veniva fuori. Rabbia, delusione, angosce, paure. Tutto mi saltava dritto nello stomaco e veniva su, ad attanagliare cuore e cervello, a mordermi dietro il collo, a prendermi per il bavero e sbattermi contro un muro. Quello che ero stato si rivoltava contro di me, mettendomi di fronte alla triste realtà della mia vita e chiedendomene il conto, da pagare con il sangue.

Sentivo talmente tanta rabbia dentro che dovevo trovare un modo per sfogarla. Afferrai la bottiglia che avevo davanti e ne trangugiai un sorso, gustando il calore dell’alcool che scendeva giù nel mio ventre, ad infiammarne le membra. Crollai sul divano, ridendo di me, di quello che ero diventato con gli anni. Da buon padre di famiglia e marito tutto sommato esemplare, mi ero trasformato nel fantasma di me stesso, vinto dalle delusioni, sprofondato nell’assoluto scetticismo verso la vita. “Che capiti quello che deve capitare. Chi se ne frega, anche se muoio”. L’avevo pensato spesso negli ultimi tempi, e soltanto il pensiero dei miei figli mi aveva trattenuto dal saltare giù da un balcone: quella sarebbe stata la vigliaccata più grande che avrei potuto fare e loro, no, loro non se la meritavano.

Bevvi ancora, con il riso che si trasformava amaro sulla mia bocca. Mi passava davanti agli occhi la mia vita, come fossi in punto di morte. Mi sembrava di avere un peso sul cuore, una melma nera che mi trascinava giù all’inferno. Mi vedevo sul pavimento imbrattato dell’odio e della rabbia che nel tempo si era cumulata in me. Sentivo sospirarmi nel cuore e nelle orecchie tutta la paura che negli anni avevo provato. Guardavo con orrore il mio corpo imputridire e nell’illusione di sollevarmi da quell’incubo, la mia bocca continuava ad attingere al fiele dell’alcool, nel cui puzzo oramai ero immerso in modo indecente.

Mi ero abbruttito. Avevo perso la speranza che le cose si potessero risollevare. Mi dicevo “Non amerai più. Non sei capace di amare. Non vivrai più una vita normale”. Non avevo nemmeno una coscienza che mi rispondesse con un filo di voce. Quella coscienza era stata sotterrata a lungo dopo che me ne ero andato di casa, l’avevo persa nei letti che avevo cavalcato, nelle porcate che avevo fatto, nel tentativo di succhiare un po’ di amore dalla vita. E con la coscienza, avevo perso anche la dignità di vivere.

L'uomo della pipa



dal Diario della Regina degli Elfi, la donna con il cappello di paglia

Era la foto di mio padre. Un padre che avevo conosciuto poco, che avevo amato per quello che era riuscito a darmi di sé e che avevo odiato per quello che si era portato nella tomba in un lontano passato che facevo fatica a ricordare. Di lui conservavo oramai solo qualche sbiadito ricordo, posto in fondo al cuore, il più in fondo possibile perchè non facesse male. Sapevo che lui era la parte felice di me, quella che pensavo fosse stata persa per sempre. In quella foto ritrovavo i suoi occhi che brillavano di felicità, il suo sorriso aperto. Una foto di altri tempi che mi ricordava Rodolfo Valentino, lui stretto dentro un accappatoio, un asciugamano tra i capelli e una pipa in bocca.

L’avevo scelta come foto del mio profilo su Facebook. Tra tante altre, era quella che contrastava di più con l’uomo che sentivo di essere, un uomo che aveva rinunciato a cercare quella stessa felicità che mio padre, da un altro tempo e da un altro spazio, sfacciatamente mi ricordava.

Gabriel.

***

Era un sabato di fine novembre. Ero stata in giro tutto il pomeriggio con alcune amiche e stavo rientrando a casa: avevamo girato come matte per tutto il giorno lungo il centro a caccia di regali. Verso sera ci eravamo presentate puntuali a O'Connell Street per il Big Switch On, la cerimonia che a Dublino segna l’inizio delle celebrazioni natalizie. Adoravo esserci ogni anno, da quando l’avevo scoperta. Era come una piccola magia nella mia vita ed ogni anno rimanevo incantata e sospesa con l’animo di una bambina che segue affascinata quei giochi di luce, le stelline che cadono dal cielo lungo i muri delle case, la faccia del pupazzo di neve che si forma pian piano in un enorme sorriso, la palla dell’albero che si schianta contro la parete della casa dove viene proiettata, le finestre che si illuminano di mille colori e i ballerini che danzano dietro di esse, accompagnati dalla musica “All I want for Christmas is you, baby”, i fuochi di artificio spiaccicati contro le pareti, i regali che piovono dall’alto  riempiendo i tre piani di casa, il fuoco che brucia nel camino e l’atmosfera di Natale che ti penetra dentro e  ti riscalda l’anima, perchè a Natale bisogna essere per forza felici.

Avevamo poi fatto tappa a Temple Bar, a sentire la Drogheda Brass Band e le sue tipiche canzoni natalizie, avevamo girato per i mercatini natalizi ed infine avevamo mangiato qualcosa in un pub della zona, per sentirci una volta tanto un po’ più Dubliners e vivere fino in fondo la città dove vivevamo.

domenica 20 novembre 2011

Il segreto di Peter Pan - Epilogo - Ritorno al Mondo-Che-C'è


Epilogo – Ritorno al Mondo-Che-C’è

Non so quanto tempo trascorsi all’Isola-Che-Non-C’è, ma ad un certo punto, nonostante i Bimbi Sperduti fossero dei dolcissimi bambini come quelli “reali” e nonostante Peter fosse pieno di attenzioni verso di me, dentro di me iniziai a sentire una profonda nostalgia per il mondo reale.
Così una mattina mi avvicinai a Peter, dopo che aveva aiutato un Bimbo Sperduto che si era fatto male, e gli chiesi di parlargli.
-        Voglio tornare indietro, Peter.
-        Di già? – mi guardò lui un po’ deluso.
-        Sì...
-        Ti mancano i tuoi bambini?
-        Sì. Ma non è solo questo...
-        E cos’altro?
-        Vedi, tutto questo non è... non è “reale”. Mi manca... beh, mi manca la realtà.
-        La realtà?
-        Sì. Mi manca svegliarmi tutti i giorni sapendo che non è detto che le cose vadano sempre per il verso giusto. Mi mancano le sfide con me stessa, per dimostrare che sono capace di affrontare le difficoltà. Mi mancano le mie piccole cose di tutti  i giorni, la gente che si affanna, la gente che ride, la gente che piange...
-        La gente che piange... ti manca? – mi guardava sempre più perplesso Peter.
-        Sì, Peter. C’è anche tristezza nel mondo e questo non si può ignorare giocando sempre.
-        E’ vero... – mi disse e abbassò lo sguardo – Scriverai quella storia per noi?
-        Non lo so. Peter, portami a casa, ti prego...

sabato 19 novembre 2011

Il segreto di Peter Pan - Capitolo 3 - L'Isola-Che-Non-C'è


Capitolo 3 – L’Isola-Che-Non-C’è


Guardai in basso e subito lo stomaco mi volò in bocca. La mia camera era al quinto piano dell’albergo e sotto di me avevo... il vuoto.
-        Peter... – sussurrai.
-        Non aver paura... – disse e mi prese per mano, puntando l’altra verso il cielo. Mi ritrovai nel giro di qualche secondo ben sopra il palazzo dell’albergo, con una splendida vista sul quartiere di Bloomsbury.
-        Devo prima farti vedere una cosa... poi andiamo, ok?
-        Eh? – fu l’unica cosa che riuscii a dire, con gli occhi incollati al suolo, dove la città sembrava estendersi senza confini, piena di piccoli punti luminosi che scorrevano su lunghi viali illuminati.

Non era vero. Non poteva essere vero... Eppure era Londra, ed io ci stavo volando sopra.
-        Peter guarda! Il British Museum... quella cupola verdognola è il British Museum e là... guarda là, quella è l’università... l’ho vista sulla piantina mentre venivo a Londra... e quello deve essere Regent’s Park... l’Inner Circle... avevo pensato di andarci... Oh mio Dio, ma quanto alto stiamo volando?
-        Hai visto che bello? Non hai più paura, eh?
-        No... non credo... e quel parco?
-        Hyde Park...
-        Già... ma dove mi stai portando?
-        Volevo farti vedere una cosa...
-        Sì, ma cosa?
-        Sei curiosa eh? Siamo arrivati... – disse iniziando la discesa verso il prato.
-        Hyde Park? Volevi portarmi qui, Peter?
-        Più o meno...

venerdì 18 novembre 2011

Il segreto di Peter Pan - Capitolo 2 - Peter Pan?


Capitolo 2 – Peter Pan?


La camera dell'albergo era piccola, ma sufficiente per me sola. Avevo disfatto le valigie e mi ero immersa in una doccia bollente per scacciare via la stanchezza di una domenica passata a preparare cibi pronti per la famiglia, da consumare in mia assenza.

L'acqua era scivolata dolce sul mio corpo all'inizio. Poi con la pressione di un dito sul soffione aveva incominciato a picchiare duro sulla pelle, sgocciolando nel tubo di scarico le tensioni e la solitudine.

Mi ero asciugata, incremata e mi ero infine stesa nel letto sotto un caldo e soffice piumone, a fare un po' di zapping tra le televisioni inglesi. Niente di nuovo, notavo, rispetto a quelle italiane: politica, economia, Il Grande Fratello.

Ero appena approdata sulla versione di King Kong in lingua originale, quando un insistente picchiettio sul vetro mi costrinse a scuotermi dal torpore per alzarmi a controllare cosa fosse.

Scostai prima le tende pesanti di cotone grigio e poi quelle leggere bianche e feci un balzo all'indietro con il cuore che iniziava a battere forte, quando vidi due occhietti piccoli e vivaci guardarmi dall'altro lato del vetro. Cercai di non farmi prendere dal panico e misi a fuoco quello che contornava i vispi globi, saldamente puntati contro di me.

giovedì 17 novembre 2011

Il segreto di Peter Pan - Capitolo 1 - Quello strano punto verde sul viola del tramonto


Sono una persona normale, con un lavoro normale, una famiglia normale.

Eppure non è vero che la normalità appiattisce i sogni. Basta saper cogliere nella normalità lo straordinario, quando accade.

Capitolo 1 – Quello strano punto verde sul viola del tramonto

L’aereo si apprestava al decollo, fermo sulla pista con i motori roboanti.

Il mio naso era schiacciato contro il finestrino. E’ incredibile quanto fascino abbia per me l’aereo, ogni volta che lo prendo. L’idea che basti abbassare una piccola leva per volare mi tiene attaccata a quel piccolo pezzo di vetro posto tra me ed il cielo, per inquadrare nella mia memoria l’istante in cui qualche non precisato comandante abbassa la cloche (o la alza?) e si impenna verso il cielo.

Domenica scorsa ero in aereo. L’aereo viaggiava già tra le nuvole ed io non riuscivo a staccare gli occhi dal paesaggio che si figurava fuori. Un mare tempestoso di nuvole, in movimento con le sue onde fatte di piccole gocce d’acqua e a partire da un punto lontano nell’orizzonte i sette colori dell’arcobaleno partivano verso il blu dell’universo, uno dopo l’altro, come la citazione di un dizionario che spiega cosa sia davvero un arcobaleno: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. E poi il blu profondo della notte. Non avevo mai visto tramonto più bello di quello e la mia mente si fondeva nei vari colori, associando un pensiero a ciascuno di essi.

«Rosso». La passione. Quanti amori vissuti, quanti amori sognati, quanti amori persi.
«Arancione». La cartella della scuola elementare. Quella rettangolare con il bordo arrotondato verso il manico, le cinghie dietro per portarla a spalla.
«Giallo». La luce. Le mattine d’estate che si colorano presto di una immensa luminosità che regala calore e gioia. Le passeggiate in pineta, con i raggi che iniziano a riscaldarti la pelle per poi bruciarti a mezzogiorno.
«Verde». I prati. I prati inglesi, con le immense distese sulle quali correre a perdifiato finchè non ce la fai più.
«Azzurro». Il cielo sopra il mare, il cielo sopra le montagne innevate. L’acqua perfetta che ti scivola sulla pelle regalandoti un brivido intenso.
«Indaco». Il mondo oltre i cinque sensi. L’essenza del pensiero, della immaginazione, della fantasia. Il voler volare senza paura di cadere.
«Viola». L’inizio dei colori. La fine dei colori. Tutto ciò che si trasforma, cresce, ti avvolge e ti trascina via.
«Verde»? Cosa ci fa un punto verde sul viola?
Cercai di aprire gli occhi per vedere meglio quel piccolo punto verde che sfrecciava sullo sfondo dell’arcobaleno? “Un momento, sto sognando?”

lunedì 7 novembre 2011

Notte sui Navigli - Capitolo 5


Ludovica ci pensò un attimo, non tanto perchè non le piacesse la proposta, ma perchè le era balenata un’idea in testa. Quindi chiese a Elettra:
-         Ci stai a seguire le mie indicazioni, senza chiedere nulla?
-         Mah... non saprei... – rise Elettra. – Dài, va bene... guidami tu...

Ludovica si orientò un attimo e poi iniziò ad indicare a Elettra la strada.
Elettra accese la radio e inserì un CD, abbassando un po’ il volume.
-         Che ne pensi di quei due, Lu?
-         Non so – disse Ludovica – Molto affascinanti, entrambi. Ma non saprei davvero come collocarli nella nostra vita, se non nella sfera lavorativa.
-         Dici?

Ludovica fece un attimo di pausa, quasi per raccogliere le parole giuste per esprimere il suo pensiero. Parlare le costava fatica, ma sentiva che sarebbe valsa la pena di fare quello sforzo.
-         Lo so... io stavo quasi baciando Manuel, e tu eri presissima da Stefano. Mi sono accorta di quanto ci siate rimasti male quando vi ho chiamato... Eppure dobbiamo stare con i piedi per terra. Storie fini a se stesse non portano a nulla. Puoi andarci a letto, goderti quelle ore di puro sesso, ma poi cosa ti resta dentro? Non siamo più da sole come quando avevamo quindici o vent’anni... Abbiamo vissuto una serata da adolescenti, ma non lo siamo più... prima o poi dovremo rendercene conto...
-         Vero...
-         C’è da dire che a “loro” basta...
-         “Loro” chi? Manuel e Stefano? E “Cosa basta”? Oh, sei ancora brilla? – chiese curiosa Elettra, sorridendo.
-         No, era un “loro” generico... – disse Ludovica e spiegò - gli uomini ed il loro rapporto con il sesso...

sabato 5 novembre 2011

Notte sui navigli - Capitolo 3


I quattro rimasero a chiacchierare e brindare per circa un’ora. Dopo il primo giro di champagne Ludovica sentiva che dentro le nasceva una strana voglia di giocare e scherzare. Non era abituata a bere. Già la birra aveva lavorato pesantemente al suo corpo ed alle sue emozioni. Ora lo champagne stava completando l’opera, regalandole una leggerezza inusuale per lei, abituata a restare sempre un po’ in disparte, ad osservare il mondo e commentarlo dentro di sé.

Dopo il terzo giro di champagne, Manuel propose di uscire a prendere una boccata d’aria, anche se in quella calda serata d’estate forse avrebbero potuto prendere un po’ d’aria solo nel locale, di quella fresca che buttava dai ventilatori sul soffitto sopra di loro.

-         Ottima idea! – lo appoggiò Ludovica. – E’ una vita che non faccio un giro sui Navigli! E poi dopo i seni di Madame de Pompadour ci meritiamo tutti di respirare un po’, no? – disse facendo l’occhiolino a Elettra.

Manuel la guardò con un sorriso tra rimprovero e complicità. Poi aspettò che le due donne si fossero avviate verso l’uscita, per scambiare qualche battuta con Stefano.

-         Se il sole si vede dal mattino, e se queste due scrivono come parlano, o addirittura meglio, siamo a cavallo... socio!
-         Manu, sinceramente la scenografia è l’ultima cosa alla quale sto pensando in questo momento... ma le hai viste?? Oh, scusa, dimenticavo... non hai occhi che per tua moglie!
-         Ma smettila. Ricorda la prima regola: mai confondere lavoro e sesso... chiaro?
-         Sì, capo. Obbedisco... mattina lavoro e sera sesso...

Manuel scoppiò a ridere e si avviò verso l’uscita.

giovedì 3 novembre 2011

Notte sui navigli - Capitolo 1


Ludovica guardò Elettra, aspettando che finisse il sorso di birra.
Scrutò il suo viso, ripensando a quanto da poco in fondo fosse nata la loro amicizia, nonostante si conoscessero da una decina d’anni.

Capita, pensava Ludovica, che “conosci” qualcuno perchè i figli frequentano la stessa scuola, ti vedi quasi tutti i giorni davanti ai cancelli, tifi alle stesse partite di calcio, passi i pomeriggi ad aspettarli alle feste di compleanno. Ma in fondo, non sai davvero chi c’è dentro quel corpo che conosci e frequenti e a volte non ti interessa nemmeno. Ludovica era convinta che le vere amicizie sono quelle che nascono giorno dopo giorno: quando senti che la persona che sta di fronte a te “vale la pena” di essere “vissuta” o quando inizi ad accumulare, in modo a volte inconsapevole, alcuni “stralci di vita” che diventano importanti emozioni e ricordi per entrambi. Fino ad allora, rifletteva, era rimasta chiusa in se stessa, senza lasciare che nessuno varcasse quella soglia della sua anima, dove preferiva restare da sola, in silenzio.

Elettra era stata un’eccezione per lei: le lunghe chiacchierate ai bordi della piscina e le emozioni legate alla scrittura avevano spianato lentamente una strada, a sprazzi di piccole confessioni e veloci occhiate d’intesa e Ludovica si era alla fine convinta che valesse davvero la pena incamminarsi lungo quel sentiero. Così aveva proposto quel “viaggio insolito” sui Navigli, insolito per loro che erano abituate a trascorrere le serate sui divani di casa, mentre i figli dormivano (da piccoli) o fingevano di farlo (ora che erano più grandi) ed i mariti erano via da casa per lavoro.

I due bicchieri erano appena stati riempiti per la seconda volta e la spuma ancora scoppiettava, dissolvendo le bianche bollicine. Ludovica si accese una sigaretta ed aspirò il fumo dritto in gola. Il locale che avevano scelto per la loro serata da single era uno dei pochi che aveva investito nell’impianto di aerazione, per consentire ai clienti fumatori di farsi un doppio giro di bionde: quelle da bere e quelle da fumare.
-  Allora, che ne pensi? – Ludovica ripetette la domanda a Elettra, aspettando con ansia la risposta.
-     Mi sembra un po’ azzardato, Ludo... – rispose titubante Elettra.
-    Ma perchè? – insistette Ludovica – In fondo il blog nè lo scrive, nè lo guarda quasi più nessuno. Siamo rimaste io e te, prendiamone atto...  Secondo me vale la pena di puntare a qualcosa di più grande... no? Credo sia il momento...
-     Sì, ma addirittura un libro con la nostra storia...
-   Guarda... sedici capitoli se ne vanno con le storie dei blogger. Chi sono, cosa fanno, perchè scrivono... due a testa e siamo a posto. Possiamo anche inventarceli i blogger, mica dobbiamo per forza aderire alla realtà, se questo è il tuo timore... Poi il viaggio e siamo già oltre la metà.
-     Quale viaggio? No, no... ripetimi la storia... mi sono distratta...
-   Ah... capisco da cosa sei distratta... – le sorrise Ludovica, guardando alla sua sinistra.