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sabato 1 ottobre 2011

Cinque pezzi meno facili – Sliding Doors – L’isola magica – Epilogo MakaylaReed

Martino stava uscendo dalla sua camera, diretto alla cucina, quando la voce di Roberto lo colpì alle spalle.
- Credi sia possibile innamorarsi in meno di due settimane? – Martino si limitò ad alzare un sopracciglio e Roberto ebbe la sua risposta.
Proprio a lui lo chiedeva, a Martino, che se non correva dietro a due o tre gonnelle diverse alla sera non riusciva a chiudere occhio. Roberto gli fece cenno di lasciar perdere con una mano e Martino continuò a strascicare i piedi in direzione della cucina.
Roberto sospirò passandosi le mani sul volto. Che cosa stava succedendo? Da quando in qua lui si scioglieva così davanti al sorriso di una ragazza? E soprattutto, perché si stava complicando la vita, proprio quando si era ripromesso di non pensare a nulla in vacanza?
Gran belle domande, ma di risposte nemmeno una. Lasciò cadere la testa all’indietro, colpendo lo stipite della porta e continuando a ripetere quel gesto, sperando che le idee si svegliassero e che il suo cervello iniziasse a sputar fuori soluzioni e idee geniali. E invece niente.
Si sentì estremamente stupido quando Martino comparve di nuovo davanti a lui e lo guardò con un enorme punto di domanda sulla testa mentre prendeva a testate lo stipite, quindi smise e se ne andò a sua volta in cucina. Si riempì un bicchiere d’acqua, il più grande che trovò in cucina, ne bevve un sorso e decise che non era quello che voleva. Così aprì il frigorifero e trovò le birre dove sapeva che Marcelo le teneva e ne prese una ripetendosi “Ha detto di fare come fossimo a casa nostra, non faccio nulla di male”.
Come richiamato da qualche strana energia, Martino si materializzò in cucina esclamando:
- Ecco dove le teneva, l’infame! Oh, ho guardato dappertutto, mica le ho viste! –
- Magari dovresti aprire meglio gli occhi, o levarti quel ciuffo assurdo dalla fronte. –
Martino gli piantò un pugno su una spalla e si prese la birra di Roberto, con la scusa che lui sapeva dove trovarne altre. Roberto ne prese un’altra dal frigorifero, poi si sedette assieme a Martino nella cucina, facendo calare un silenzio innaturale.
Il silenzio durò qualche minuto, nessuno parlava, bevevano e basta. Poi Martino si decise a prendere un lungo sorso dalla bottiglia e spostò lo sguardo sull’amico.
- Senti un po’ … Ma Silvia? –
- Cazzo c’entra lei adesso, si può sapere? – abbaiò Roberto, colpito alla sprovvista dalle parole dell’amico. Martino alzò le sopracciglia e poi incrociò le braccia sul petto, aspettando il momento in cui l’amico avrebbe ceduto e cominciato a sfogarsi, raccontandogli tutto.
Roberto bevve a sua volta, poi cedette sotto lo sguardo dell’improvvisato psicologo.
- Non s’è fatta sentire, io non mi son fatto sentire. Fine della storia. –
- Wow. –
- Già, wow. – Roberto bevve di nuovo, cercando di affogare il fiume di parole che premeva sulla sua gola, spingeva per uscire dal suo petto.
- Beh dai, è figa ‘sta Mariciel, no? –
- Si è una bella ragazza. –
- Oh si, un gran pezzo di … -
- Marti, ti dispiacerebbe evitare di sbavare sulla mia ragazza? –
- Ah è la tua ragazza? – Touché. Roberto spostò lo sguardo altrove.
- Ma che ne so io, io non ci capisco più niente di ‘sta storia. E prima Silvia che mi incasina la vita, e poi io che voglio solo divertirmi, e poi questa che mi capita tra capo e collo e mi manda all’aria tutti i miei viaggi mentali su notti di sesso sfrenato, alcool e quant’altro … -
- Non sei noioso come pensavo allora! –
- TI DISPIACE lasciarmi parlare PER CINQUE MALEDETTISSIMI MINUTI? –
- Santo cielo, che isterico oh. – Roberto sbuffò e appena si fu accertato che Martino l’avrebbe lasciato parlare, riprese la parola.
- E invece no, mi sono lasciato ammaliare da quegli occhioni, da quel corpo così perfetto, da quel … Ma che ne so da cosa, da tutto. E ora me ne sto qui a farmi paranoie da ragazzina su cosa succederà una volta che saremo ripartiti. –
- Che vuoi che succeda? Torniamo in Italia, ci spariamo un anno di stress e poi l’anno prossimo torniamo e vediamo di evitare casini come questi. – Roberto annuì alle parole di Martino.
Calò di nuovo il silenzio, i due ragazzi bevevano immersi nei loro pensieri.
Silenzio che fu rotto dal rumore delle scarpe di Mariciel che entrava in cucina.
Rivolse ai due ragazzi uno dei suoi splendidi sorrisi e Roberto stavolta non lo guardò come il sorriso di un angelo dalla pelle abbronzata. Si concentrò semplicemente sul movimento delle labbra che si aprivano scoprendo i denti. Sui muscoli del volto che si contraevano.
Era solo un sorriso. Il sorriso di una bellissima ragazza spagnola, ma dopotutto era un sorriso, come era un sorriso quello di Silvia. O di qualsiasi altra ragazza.
Mariciel iniziò a preoccuparsi quando non vide un sorriso dipinto sul volto di Roberto. Il suo sorriso crollò lasciando il posto a un sorrisetto quasi imbarazzato, mentre gli occhi chiedevano cosa stesse succedendo.

Roberto scosse la testa, fingendo che fosse tutto a posto, che fosse stato solo un momento in cui era pensieroso.
.- Beh Roby, domani partiamo e io non ho intenzione di andarmene senza avere almeno un ricordo decente della Spagna. E con decente intendo senza sbirri che irrompono sul più bello.-
Salutò entrambi e uscì alla ricerca della sorella di Marcelo, Laura. Roberto tornò a fissare Mariciel, poi si alzò e le andò incontro.
Quando la raggiunse cominciò a baciarla, ma non sulle labbra, direttamente sul collo.
Desiderava tremendamente il suo corpo. Voleva solo svuotare la mente.
Strinse il corpo di lei al suo e alzandola di peso, la portò nella sua stanza da letto.
*
Sdraiati uno accanto all’altra, i due ragazzi non si parlavano. Mariciel abbracciava quasi per abitudine il petto di Roberto e lui, sempre per abitudine, accarezzava distrattamente i suoi capelli. Mariciel si mise a sedere, fissando le sue stesse mani che giocavano con un angolo del lenzuolo.
- Mañana tienes que regresar a Milano. – Roberto annuì senza guardarla.
- Y yo iré a Barcelona. – Annuì di nuovo.
- Yo te quiero, Roby … - Sussurrò la ragazza. Roberto si voltò a guardarla.
- Come puedes quierer una persona en dos semanas? – Gli occhi di Mariciel si riempirono di lacrime, si alzò di scatto dal letto e corse verso la porta.
- Donde vas? – chiese Roberto sorpreso da quella reazione inaspettata.
Mariciel si girò, il volto rigato di lacrime e con una mano già sulla porta gli gridò:
- Se dice querer! QUERER no quierer! Y no, yo no lo sé “como puedo”! – La sua voce si interruppe nell’esatto momento in cui la porta sbatté alle sue spalle. Roberto le corse dietro, maledicendosi e maledicendo le sue stupide domande. La fermò appena prima che potesse chiudersi nella sua stanza.
- Mariciel, aspetta … - lei si divincolò dalle sue braccia e lo guardò con gli occhi pieni di rabbia.
- Y yo qué soy por ti? Una aventura? Una muñeca? Qué? – Roberto voleva dirle qualcosa di sincero, ma nemmeno lui sapeva che cosa provava in quel momento.
- Tu me gustas … Entiendes? Tu eres muy bonita, muy … Simpatica. Ma yo no sé se te quiero.-
Lei annuì mentre le lacrime ricominciavano a scorrere sulle sue guance.
.- Yo no me acosto con los que no quiero. – disse infine lapidaria, con un sussurro, prima di chiudersi nella sua stanza. Roberto non era nemmeno sicuro di quello che gli aveva detto. Ma di sicuro non era qualcosa di carino.
***
Il giorno seguente in aeroporto davanti alla macchina, Roberto e Mariciel si parlavano a stento, mentre Martino e Laura si stavano “salutando” da dieci minuti buoni ormai.
Mariciel si voltò verso Roberto, guardandolo con l’ultimo briciolo di speranza che non accennava a morire. Sarebbe andato tutto bene se lei non avesse parlato. Sarebbe andato tutto bene se non le fossero scappate quelle semplici parole. E adesso invece quello che scappava era lui, Roberto.
Martino si decise a staccarsi da Laura e salire in macchina. Roberto guardò finalmente Mariciel negli occhi per qualche secondo, poi si avvicinò e la abbracciò. Mariciel lo strinse a sua volta con le braccia tremanti, non osando e non volendo stringere più del dovuto. Ma poi cedette e le sue braccia strinsero forte il collo di Roberto.
- Llamame, ok? Escribeme, de vez en cuando. – lo liberò dall’abbraccio guardandolo negli occhi. Desiderava solo che Roberto la stringesse, la baciasse e cancellasse tutti quegli orribili sentimenti che la laceravano dalla sera prima. Ma quel bacio sfiorò solo la sua guancia.
Roberto poi salì in macchina e partì. Poco dopo, passò il suo cellulare a Martino.
.- Fai una cosa, cancellami dalla rubrica “Mari Cadaqués.” –
.- Ma …-
.- Fallo e basta Marti. Cancella quel numero e basta. –
Martino obbedì, stranamente senza ulteriori proteste o domande, e Roberto fece partire il cd degli Who a tutto volume mentre entravano in autostrada.

giovedì 29 settembre 2011

Cinque pezzi meno facili – Sliding Doors – L’isola magica – Capitolo 9

Roberto sospirò sdraiato sul letto nella stanza d’albergo.
Aveva abbandonato il suo amico così, poche ore prima, come se nemmeno lo conoscesse, come se non gli importasse di lui. Probabilmente quell’urlo gli era venuto così strozzato per colpa dell’alcol, per colpa della percezione alterata della realtà. Martino non capiva cosa era successo, era solo spaventato tutto qui. Ed era ora che si arrangiasse, no? Poteva benissimo prendersi le sue responsabilità, quel cretino. Si voltò su un fianco e lo sguardo gli cadde sulla valigia sfatta di Martino, sommersa di vestiti provati e ributtati sopra. Quella valigia era come lui. Un disastro. Ma bastava sistemare un paio di cose, ripiegare i vestiti e tutto sarebbe tornato perfetto. Peccato che Martino di sistemare le cose se ne sbatteva altamente.
Viveva nel suo felice mondo chimico e nessuno poteva fare o dire qualcosa a riguardo. Viveva il momento, se ne fregava delle conseguenze.
E puntualmente toccava a lui pensare alle conseguenze. Ma stavolta no, stavolta l’avrebbe lasciato solo, l’avrebbe lasciato al suo destino e soprattutto nelle mani di suo padre. Si girò nuovamente nel letto, sdraiandosi di nuovo sulla schiena e fissando il soffitto.
Doveva essere la loro vacanza. Doveva essere una vacanza senza problemi, senza preoccupazioni, senza tutto quello schifo che si sorbivano tutto l’anno.
Eppure era iniziata male e sembrava finire ancora peggio.
Non erano mai stati insieme e per quel poco che l’avevano fatto avevano litigato.
Che idea geniale avevano avuto.
E l’indomani doveva uscire con Mariciel. Di nuovo loro due, di nuovo soli.
Per quanto l’idea gli piacesse, Roberto non riusciva a smettere di pensare al padre di Martino. Sapeva già cosa sarebbe successo.
Suo padre sarebbe arrivato a grandi falcate, con lo sguardo che lanciava maledizioni e la sua fida valigetta da grande avvocato. Si sarebbe fermato davanti al figlio, senza aprire bocca e non appena Martino avesse osato dire una sillaba, gli avrebbe rifilato uno di quegli scapaccioni che fanno male solo a guardarli. Assisteva a quella scena da anni, eppure ancora lo terrorizzava.
Si augurava di non provocare mai l’ira di quell’uomo, neppure per sbaglio.
Pensò di nuovo a Mariciel, poi pensò a Silvia.
Il pensiero gli attraversò la mente come un fulmine, lasciandolo scosso nel profondo. Silvia l’aveva proprio rimossa dalla sua mente. Iniziò a chiedersi come stesse, cosa stesse facendo, cosa pensasse, se pensasse ancora a lui.
Prese il cellulare e controllò se ci fossero chiamate perse o messaggi non letti.
Nulla. Niente da fare. Lo spense e lo riaccese, nella vana speranza che la linea facesse arrivare qualcosa. Ma niente. Lanciò il telefono sul letto di Martino, abbastanza lontano perché non gli venisse voglia di alzarsi e prenderlo e magari scrivere a Silvia o fare qualche cavolata del genere. Sospirò di nuovo e si decise ad alzarsi dal letto, per andare a farsi un’altra doccia. Nel tragitto pensò di fermarsi e prendere il telefono, lo prese in mano e pochi secondi dopo lo ributtò tra i vestiti dell’amico. Niente Silvia. Basta Silvia.

*

Nemmeno Mariciel riusciva a dormire. Pensava a quell’italiano praticamente sconosciuto, che però le faceva battere il cuore come una ragazzina innamorata. Era successo tutto così in fretta quel giorno.
Nemmeno il tempo di ricordare il suo nome e già lo stava baciando, senza rimorsi. Sorrise guardando la bellissima notte fuori dalla finestra.
Poche ore e si sarebbe fatto giorno, poche ore e sarebbero stati di nuovo assieme. Voleva mostrargli un sacco di cose, fargli vedere centinaia di posti, voleva passare con lui più tempo che poteva a fare tutte le cose che amava.
Sentirlo parlare quel suo pessimo spagnolo e guardarlo mentre faceva quei gesti strani che sottolineavano le sue parole.
Le venne poi in mente quell’amico strano di Roberto, Martino. L’avevano lasciato tutto solo, conciato malissimo e con la promessa che suo padre sarebbe arrivato il giorno seguente, cosa che non doveva piacere molto a Martino, visto la disperazione con cui aveva cercato di richiamare l’attenzione di Roberto. Ma dopotutto si sa che a nessuno piace finire nei guai e vedersi arrivare i genitori a dover risolvere la situazione, no? Eppure vedere Roberto reagire così l’aveva lasciata un po’ perplessa, non se l’aspettava ecco.
Sospirò fermandosi a riflettere. Forse tutta quella storia stava correndo un po’ troppo. Forse, come sempre le succedeva, si lasciava incantare da belle parole e risate e si dimenticava che una persona non è fatta solo di quello. Che una persona può fingere le risate, può inventarsi le belle parole. Un’angoscia improvvisa le prese il petto. Cosa stava facendo?
Sospirò di nuovo, più volte, cercando di dissipare il blocco che opprimeva il suo petto. Sorrise a sé stessa. Sarebbe andato tutto bene. Sarebbe stata un’avventura, comunque fosse finita. Mancavano poche ore all’alba, e quella giornata l’avrebbe passata con Roberto. Sdraiata nel letto provò a mantenere il sorriso, ma si accorse di non riuscirci.

lunedì 26 settembre 2011

Cinque pezzi meno facili – Sliding Doors – L’isola magica – Capitolo 5

Mariciel sorrise guardando Roberto spingere via senza alcuna gentilezza il suo amico dallo sguardo perso. Non capiva cosa si stessero dicendo, ma a giudicare dal tono e dal sorriso di Roberto di sicuro stavano scherzando tra di loro.
Poi lui tornò a guardarla, le disse che era un suo amico e subito dopo nei suoi occhi tornò quella strana luce che avevano acquistato pochi secondi prima di baciarla. Mariciel arrossì leggermente, colta da un improvviso imbarazzo.
Insomma, nemmeno lo conosceva e già si stavano baciando.
Roberto notò quel leggero imbarazzo che dipingeva un’espressione tenera e buffa sul volto della ragazza e si affrettò a guardare in basso, portandosi una mano alla nuca senza alcuna ragione particolare. Mariciel incrociò le braccia, guardando qualcosa, qualsiasi cosa, alla sua sinistra.
Rimasero così qualche secondo, pensando all’accaduto, pensando a quello che sarebbe potuto succedere. Poi si guardarono e dissero qualcosa insieme.
E insieme si invitarono a parlare per primo. E via, altro minuto di profondo imbarazzo. Mariciel alzò lo sguardo e decise di aspettare che parlasse lui. O che facesse qualcosa. Robertò tornò a fissarla negli occhi, poi a fissare le sue labbra. Poi scese ancora, ma pochi secondi dopo si disse che era scortese, così, con grande sforzo, tornò a guardarla negli occhi.
Mariciel sembrava invitarlo a dire qualcosa e così lui aprì bocca, ma non trovando nulla di meglio da dire le chiese:
- Quanti anni… Ehm, años credo… Quanti años tieni?- sapeva che si usava tener e non avere, ma la sua conoscenza si fermava li. Mariciel gli sorrise, si voltò verso le sue cose e cominciando a raccoglierle gli rispose.
- Veinte, y tu?-
- Veinte cuatro! – Mariciel si tratteneva dal sorridere ogni volta che Roberto cercava di parlare spagnolo. Era divertente vedere come si sforzasse di farsi capire, usando un italiano misto a spagnolo, il tutto condito da gesti ampi che arrivavano dove non arrivava la sua fantasia linguistica. E forse non era esattamente gentile parlare spagnolo apposta per vedere la faccia di lui contrarsi in una smorfia di semi disperazione che però non faceva crollare il suo sorriso. Ma era così carino … Arrivava sempre più gente, il rumore e il continuo via vai cominciavano a disturbare Mariciel, che decise di spostarsi in un posto più tranquillo, lontano dal Museo.
Fece un cenno con la testa a Roberto, dopo aver raccolto tutte le sue cose e si incamminò. Roberto le corse subito vicino, prese delicatamente la tela e la portò per lei.
Non si parlarono nel tragitto, rimasero in silenzio, ascoltando il brusio farsi sempre più lontano, finché non trovarono un angolo tranquillo, riparato dal sole. Mariciel appoggiò la sua roba a terra e riprese la tela dalle mani di Roberto, ringraziandolo.
- Por qué estas aquì? Para estudiar, trabajar, de vacaciones…? – gli chiese rimettendosi a sedere e mescolando del colore. Roberto sgranò gli occhi alle sue spalle, lasciandosi prendere dal panico per qualche secondo.
- Ehm… Vacanze, entiende? –
- Vacaciones, si. – annuì lei sorridendo.
- Y por qué nunca estas con tu amigo? Siempre lo dejas solo, pobrecito … -
- Mi amigo … Beve mucho! Ieri, ayer! No es … No es ok!- Mariciel non si trattenne più e scoppiò a ridere. Stava giocando con quel povero ragazzo, lo stava facendo ammattire eppure lui non cedeva, rimaneva li con lei a usare un terribile spagnolo pur di parlarle. Si voltò di nuovo verso di lui e gli sorrise.
- Yo tengo que terminar esto. - disse indicando il quadro.
- Puedes estar aqui, o dar un paseo, como quieras. – Lo fissò sempre sorridendo, poteva percepire il frenetico lavoro del suo cervello per cercare una traduzione plausibile a quello che aveva appena sentito. Lui le sorrise e si sedette accanto a lei. Mariciel gli sorrise, prese del colore e tornò a concentrarsi sulla tela.
- Pero yo no hablo. Yo pinto sin hablar. – Roberto annuì e dentro la sua testa sentì un coro di voci che intonavano l’alleluja. Per un po’ si sarebbe risparmiato delle epiche figuracce.
Mariciel cominciò a dipingere e Roberto vedeva la sua assoluta concentrazione riflettersi sul suo corpo. La schiena era tesa verso la tela, come se la ragazza fosse attirata da essa. Il pennello veniva mosso con gesti veloci e poi lentissimi, sicuri e precisi. Gli occhi non vedevano altro che il disegno, le sopracciglia disegnavano un’espressione assorta e pensierosa, mentre le labbra sembravano muoversi senza che lei se ne accorgesse, si schiudevano, si stringevano, venivano morse dai denti perfetti. Ogni tanto si fermava, tornava con la schiena dritta e osservava il quadro con la testa piegata di lato, cosa che faceva sorridere Roberto ogni volta.
Roberto non sapeva nemmeno che cosa stesse dipingendo, lui fissava solo lei.
Continuava a correre con lo sguardo di suoi occhi ai suoi piedi e poi dai piedi fino agli occhi e in più di un’occasione si soffermò ad immaginare cosa indossasse di solito, che tipo di scarpe preferisse, che sport praticasse, quali fossero i suoi libri preferiti. Il tutto osservandone il corpo.
Era fatto così, era convinto che l’aspetto fisico potesse rivelare tutte quelle caratteristiche di una persona.
Aveva fatto gli stessi ragionamenti anche con Silvia, ma non aveva azzeccato nulla di lei.
“Si, ma perché ora sto pensando a Silvia?” si chiese arrabbiandosi con sé stesso e scacciando via quel pensiero, rimpiazzandolo con la fantastica visione di Mariciel che si legava i capelli in una coda alta, lasciando ancora più scoperto il bellissimo collo.
Il pomeriggio finì insieme al quadro di Mariciel. Lei lo guardò un’ultima volta con la testa inclinata e poi si voltò verso Roberto.
- Te gusta? – Roberto finalmente guardò il quadro.
- Si, mucho! – disse annuendo convinto e il viso di lei si illuminò mentre un sorriso orgoglioso si apriva. Roberto la aiutò a sistemare le sue cose, poi quasi senza rendersene conto si incamminò con lei verso la sua abitazione, chiacchierando, più o meno, di Dalì e di arte in generale.
Quando arrivarono, Mariciel guardò Roberto mordendosi un labbro. Non le piaceva prendere l’iniziativa, ma sapeva che doveva farlo.
- Conozco un restaurante muy, muy bonito. Te gustarìa comer conmigo esta noche? – Roberto sorrise e annuì. Stranamente, aveva capito tutto.
Lei sorrise di rimando e gli spiegò dove si trovava il posto e di dettero appuntamento per le 22.00. Roberto pensò a Martino, che sarebbe rimasto solo anche quella sera. Poi si ricordò del fumo, dell’alcol e del vomito nella camera.
Beh, si sarebbe arrangiato per quella sera.

martedì 13 settembre 2011

Cinque pezzi meno facili - Cap. 6

Liliana ballava, si sentiva libera come non si era mai sentita. Ballava e basta, ballava e non pensava ad altro. Ballava vicino a quel ragazzo così giovane, così carino, che le aveva offerto da bere e poi trascinata a ballare. Di solito si vergognava, accennava qualche mossa, ma niente di esagerato. Insomma, all’alba dei suoi 37 anni non poteva mica mettersi in ridicolo. Eppure quella sera aveva completamente dimenticato di essere una 37enne. Si sentiva ancora giovane, bella, desiderata e proprio per questo giocava con quel ragazzo, lo stuzzicava, si lasciava avvicinare e poi lo scostava con un sorriso.
Martino stava a quel gioco, era talmente preso da non sentire il bisogno di drink o di altro, era stregato dal suo sorriso, era ubriaco del suo profumo dolce ed esotico.
Aveva quasi quarant’anni, ok, ma lo attraeva come fosse una ragazzina.
La guardava ballare, stretta in un abito bianco aderente che metteva in risalto il suo fisico da atleta. Faceva ciclismo, nuoto ed era abbronzata per le ore passate a fare free climbing. Era stata sposata per pochi mesi, poi aveva beccato il marito impegnato con una ragazza di nemmeno vent’anni sul divano appena comprato e aveva spedito fuori casa lui, lei e il divano. Si era buttata sullo sport, cosa che l’ex marito aveva sempre disprezzato poiché “una ragazza non deve essere muscolosa, deve avere forme femminili”. E proprio quelle forme troppo femminili Liliana le aveva ripudiate. Ora il suo corpo era sensuale, bello da vedere, ma privo di quelle curve morbide che voleva il suo ex.
E tutte queste cose le aveva raccontate nel tempo di una sigaretta a Martino, prima del drink e prima dei balli.
Martino era stregato, la desiderava fortemente. Desiderava averla talmente vicino da attaccarsi il suo profumo addosso. Si fece più vicino, stringendola dai fianchi e stranamente non trovò resistenza, né venne allontanato col solito sorriso. Anzi, venne guidato da lei che ora muoveva i fianchi sinuosamente e a Martino ricordò un serpente. Bella e probabilmente letale. Ebbe un brivido e un sorriso sghembo e malizioso si dipinse sulla sua faccia, pensando a come la serata prospettasse un finale degno di nota. Le braccia di lei si attorcigliarono attorno al suo collo, Martino la guardò sorridendo, poi la sua attenzione si posò su due figure fin troppo note.
Una dalla pelle scura, con il volto incorniciato da fittissimi ricci neri e il corpo da favola stretto in un abito dorato.
L’altra dalla pelle chiara, i capelli lisci e biondo scuro, con un abito meno appariscente verde.
Giselle e Silvia.
Rispettivamente ex avventura di una notte, scaricata poco gentilmente con un sms la mattina dopo, ed ex fidanzata del migliore amico.
A proposito. Dove diamine era finito Roberto? Erano arrivati insieme e poi si erano persi subito di vista.
- Ehi, tutto a posto? – chiese Liliana, riportando l’attenzione di Martino sulle sue labbra lucide.
Martino annuì distrattamente, poi si allontanò con Liliana, la fece aspettare un momento e sparì digitando freneticamente il numero di cellulare dell’amico scomparso. Che ovviamente non si degnava di rispondere.
- Accidenti a te, dove sei? Rispondi. Dai, rispondi. – Martino dialogava con il telefono che continuava a squillare a vuoto, quando sentì qualcosa di molto freddo e molto bagnato colargli dalla testa alla schiena.
- Ma tu guarda chi c’è qui. Ti ricordi di me o devo citarti il tuo sms?- la voce arrabbiata era la stessa che aveva sentito la sera dopo quel sms a Giselle. Quella che l’aveva insultato tutta la notte sotto casa.
Si girò lentamente, chiuse la telefonata e sorrise alle due figure che lo guardavano in cagnesco.
- Ma che fortuna! Proprio le due bellissime ragazze che NON cercavo stasera.
Che ci fate qui tutte sole? Mamma lo sa che siete in giro a quest’ora? – Silvia si limitò a sbuffare, mentre Giselle fece per saltargli al collo, inviperita e non ancora guarita da quella profonda ferita nell’orgoglio. Silvia la calmò e la portò via e Martino sapeva che cercava disperatamente Roberto. Fece un verso scettico, poi mandò un messaggio all’amico, informandolo dell’incontro e avvisandolo della forte probabilità di essere irreperibile nelle prossime ore.
Tornò da Liliana, che stava chiacchierando con la sua amica “infradito”. Gli chiese con gli occhi il perché di quelle chiazze di bagnato che aveva addosso e Martino fece segno di lasciar perdere. “Infradito” li guardò per un momento, rivolse un sorriso furbo a Liliana poi si allontanò di nuovo, lasciandoli di nuovo soli e liberi di continuare il loro gioco di seduzione.

Silvia si ritrovò a piangere nei bagni. Si era allontanata con un sorriso da Giselle e aveva lasciato scorrere le lacrime nell’esatto momento in cui le aveva voltato le spalle. Perché Roberto non era con Martino? Erano partiti insieme, eppure c’era solo lui. Forse Roberto non voleva uscire. Forse stava troppo male per lei per andare a caccia di bellezze straniere o turiste in vena di follie.
Si, era per forza così. Altrimenti non l’avrebbe mai chiamata.
- Ma che sto dicendo? – si chiese Silvia sentendo quelle debolissime speranze sbriciolarsi dentro di lei. Era ovvio che non poteva essere così, era ovvio che erano stupide illusioni di una ragazza cresciuta tra le bugie delle favole.
Un paio di ragazze entrate nel bagno la guardarono un momento, poi ricominciarono a parlare e ridere tra loro. Silvia si asciugò gli occhi, levando le strisciate di trucco colato. Si sciacquò il viso e guardò il suo riflesso nello specchio; era giovane, carina e intelligente e si stava lasciando andare per un idiota. Tirò il volto in un sorriso, ma la smorfia che ne venne fuori era oscena e questo la fece stranamente ridere. Rise e poi si guardò allo specchio. Quello era il sorriso che le serviva. Diede solo una passata di mascara agli occhi, poi uscì dal bagno e si diresse verso Giselle che ballava con dei ragazzi.
- Ehi, Silvia! Ti devo presentare due ragazzi! Carlos e Jorge! Chicos, mi amiga!-
Fece le presentazioni indicando l’amica ai ragazzi, senza preoccuparsi troppo del suo spagnolo. Silvia sorrise a entrambi e si mise più vicina a Jorge per ballare, cercando di chiudere la mente, svuotarla e non pensare a nulla di serio.
Ballava Silvia, ballava Liliana, ballava Giselle, ballava “infradito” e insieme a loro ballavano Jorge, Martino, Carlos. Le donne diventavano serpenti sinuosi e probabilmente letali, erano farfalle che si posavano per un momento per farsi ammirare e poi volavano via, lontane. Era una fusione di sensualità, di bellezze naturali, di pensieri leggeri come la brezza che soffiava sulla spiaggia di notte.
La stessa brezza che muoveva i capelli di Roberto e di Mariciel, vicini e silenziosi, a osservare il cielo.
Passavano le ore e i due non sembravano sentire la stanchezza. Stavano semplicemente vicini ad ascoltare la brezza, le onde, i loro respiri. Non avevano nulla da dirsi, o forse non volevano dire nulla. Chissà cosa passava loro per la testa. Chissà a cosa, a chi pensavano. Chissà se avevano pensieri.
Il cielo iniziava a cambiare, a schiarirsi. Il cielo si apriva e colorava le nuvole, dipingeva di oro tutto quello che il sole incontrava e prometteva una giornata calda e bellissima. Mariciel si voltò verso Roberto con un sorriso, sfiorò delicatamente le sue labbra con un bacio, poi si alzò e senza parlare camminò verso la città. Roberto non fece nulla né per fermarla, né chiese dove stesse andando. Sapeva che l’avrebbe ritrovata nello stesso posto, alla stessa ora.
Guardò l’ora sul suo cellulare e vide la chiamata di Martino. Poi vide il messaggio e il cielo non gli sembrò più così luminoso. Il cielo ora era fastidiosamente bello. Non doveva essere bello mentre Silvia rovinava tutto.

venerdì 29 luglio 2011

La pecora nera - Epilogo

Irma prese la busta con mani tremanti senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Edgardo. Cosa avrebbe trovato, una volta aperta la busta? Lui la invitò ad aprirla con lo sguardo e lei lo fece con gesti lenti. Tirò la lettera fuori dalla busta e cominciò a leggere lentamente, come sapendo che sarebbe stata spaventata dalle parole che vi avrebbe trovato. Lesse una volta, lesse una seconda. Poi lesse il mittente, sgranò gli occhi e rilesse un’altra volta, stavolta saltando con lo sguardo da una parola all’altra, senza vederle davvero. Poi inspirò a fondo e tornò a guardare Edgardo.
- Chi è mai questo Piero, Edgardo? – L’uomo scosse la testa. Non lo sapeva davvero.
- Sono anni che faccio ricerche, ma non mi hanno portato a nulla. – Irma sospirò.
- Sono parole forti quelle che ho letto in quella lettera. Sono parole che non sono state scritte a cuor leggero, tutt’altro. Sono parole sofferte.- Irma annuì gravemente.
- Hai mai provato a cercare il nome della donna? – Edgardo arrossì.
No, non ci aveva mai pensato. L’ultimo dei suoi problemi era sempre stato quel nome femminile, Rebecca Calamandrei. Si arrabbiò con sé stesso per non averci mai pensato, ancora rosso in viso si avvicinò al computer e, con non poche difficoltà, riuscì a ricercare quel nome sul motore di ricerca. I primi risultati erano deludenti, solo pagine di social network, qualche impresa con lo stesso nome, pagine che non c’entravano nulla.
Non si scoraggiò e tentò la sorte cercando in altre due o tre pagine di risultati. Poi cercò sulle immagini, e una in particolare attirò la sua attenzione. Una crocerossina, una foto in bianco e nero che ritraeva una giovane donna sorridente. Cliccò sull’immagine e venne reindirizzato ad una pagina dedicata ai conflitti della prima e seconda guerra mondiale, che riportava un articolo pubblicato pochi anni prima.
Nell’articolo l’autore sosteneva di aver raccolto le testimonianze dei sopravvissuti, di chi aveva vissuto quelle esperienze. E proprio un articolo era dedicato a Rebecca. L’intervista era datata 6 marzo 2006 e Rebecca parlava della sua esperienza come crocerossina, cominciata a soli 17 anni nel lontano 1936. La donna parlava della vita in missione, degli orrori, delle paure, di tutta quella terribile vita che aveva vissuto. Un pezzo dell’intervista colpì Edgardo: la donna parlava di uno stupro, dopo il quale era rimasta incinta e dal quale aveva avuto un bambino. Il bambino le era stato portato via, lei accusata di tradimento dal marito, che poi era partito e non si era più fatto vedere.
“Mio marito, Piero, partì non appena gli rivelai il nome dell’alto grado che mi aveva violata. Mi picchiò quella notte. Poi partì alla ricerca di quel Maresciallo.”.
Piero, ecco quel nome. Irma si portò le mani al petto, stringendo la piccola croce dorata che aveva al collo. I due cominciarono poi a parlare concitati, a fare supposizioni, a porsi domande che non trovavano risposta. Improvvisamente, Edgardo non parlò più. Iniziò a respirare faticosamente e i suoi occhi non videro più nulla. Le sue orecchie percepirono la voce di Irma che chiamava aiuto. Poi tutto si dissolse.

Quando riaprì gli occhi, Edgardo vide un soffitto bianco e dei cavi penzolare sopra la sua testa. Era in ospedale, non riusciva a muoversi e respirava grazie a una macchina. Sentiva solo il suo volto, le sue spalle, le sue braccia. Nulla di più. Mosse gli occhi a destra e a sinistra, ma la vista era ancora annebbiata.
Le sue orecchie percepivano rumori ovattati. Rumore di passi.
Un volto entrò nel suo campo visivo. Era un medico, o almeno così sembrava.
- Lei è fortunato, mio caro signore. Non avevo mai avuto a che fare con sopravvissuti del Sarin. E sinceramente mi chiedo dove diamine lei abbia avuto la fortuna di imbattersi in un gas dell’epoca dei conflitti della Seconda Guerra Mondiale.- Se lo chiedeva anche Edgardo. Ma più di tutto si chiedeva dove fosse Irma. Sussurrò il nome con voce roca al dottore, che si sistemò gli occhiali sul naso, poi li tolse per pulirli e poi li rimise al loro posto.
- La signorina Irma è ricoverata. È entrata in coma e sinceramente non mi sento di dire che supererà la notte. Intossicazione da Sarin.-
A Edgardo si riempirono gli occhi di lacrime, che poi cominciarono a scorrere sulle guance. La povera Irma era stata vittima di un attacco che doveva essere rivolto solo e solamente a lui. Non poteva morire per causa sua, non la povera Irma. Il dottore si schiarì la voce e parlò di nuovo prima di andarsene.
Edgardo non aveva capito, ma capì quando entrò nel suo campo visivo Andrea.
L’uomo lo guardò sprezzante.
- C’è chi uccide con iprina e c’è chi ci prova con Saprin. Chi uccide con l’iprina fa migliaia di vittime, chi con il Saprin nemmeno una. La vita è ingiusta.- Edgardo non poteva credere alle sue parole. Aveva gli occhi sgranati e l’accelerare del suo battito cardiaco era segnalato dal rumore delle macchine.
Andrea si avvicinò di più al volto di Edgardo.
- Mio nonno è stato ucciso da quel cane di Graziani. E per difendere l’onore di sua moglie. Mio nonno era un eroe.-
Andrea era discendente di Rebecca. Andrea lo odiava perché i loro passati si erano incontrati e scontrati violentemente. Il nonno di Andrea era andato a caccia di Graziani e quando l’aveva trovato aveva provato la sua vendetta, ma invano. Era morto per difendere l’onore della giovane moglie. Questo era quello che diceva Andrea. Ma Edgardo aveva un’altra storia da raccontare.
Con la voce ancora roca e la gola dolorante aprì la bocca per parlare.
Lo sguardo di Andrea era quello di un uomo pieno d’odio.
- Nella mia stanza. Una lettera con una busta avorio. Inviata dal Maresciallo Graziani. Leggila. Torna se sono vivo. Torna e riportala.-
Andrea non capì quelle parole, ma si allontanò a grandi passi, diretto verso la casa di riposo, pensò Edgardo. Ma Andrea ci era stato quella mattina.

Quella mattina.

Irruppe nella stanza di Edgardo e cercò come una furia quella lettera. La trovò e la lesse velocemente. Era indirizzata alla famiglia Calamandrei, il cognome del nonno materno che Andrea aveva adottato anni prima. Lesse una prima volta, ma non ci credette. Così lesse di nuovo.
Il Maresciallo si presentava. Parlava delle sue origini, della sua posizione sociale, del suo ruolo nell’esercito. Raccontava dell’esperienza nei luoghi maledetti della storia. E in quegli stessi luoghi collegava Rebecca, la crocerossina che aveva sposato. Era in quel punto che la lettura diventava difficoltosa per Andrea. Il Maresciallo aveva sposato Rebecca, allegava tanto di documento, e il figlio nato in quella relazione era legittimo.
E Rebecca aveva confessato tutto al funerale del marito a un ufficiale che lavorava per il Maresciallo. Aveva confessato di essere stata la promessa sposa di Piero in Italia. Di aver accettato, accecata dall’illusione di potere e ricchezza, il matrimonio con il Maresciallo, celebrato in terra straniera. E poi l’arrivo del promesso marito e la scoperta della relazione tra Rebecca e il Maresciallo. Cosa fare se non inventare una storia che fosse credibile per quel tempo anche a distanza di anni? Era stato semplicissimo, era bastato accusare l’attuale marito, il Maresciallo, di violenza per scatenargli contro l’ira del promesso sposo, e non solo. E come se nulla fosse, una volta tornata in patria aveva potuto sposare il suo promesso sposo.
Subito dopo il matrimonio con Rebecca era partito alla ricerca del Maresciallo, ma l’aveva trovato solo anni dopo, fallendo nella sua vendetta. Aveva avuto una figlia nel frattempo, la madre di Andrea, che non vide mai.
Aveva lasciato la moglie incinta per vendicare una violenza mai accaduta e Rebecca non aveva fatto nulla per fermare il marito che andava incontro a morte certa.
Ad Andrea girava la testa.
Il Maresciallo aveva accettato che la versione di Rebecca diventasse la versione ufficiale. Aveva accettato che si spargesse la voce della violenza, che fosse resa ufficiale la sua crudeltà mai esistita, per salvare quella donna tanto amata, che dimostrò di non amarlo affatto come invece giurava.
Si dispiaceva per quella morte ingiusta e lasciava tutti i suoi averi, anche se pochi, alla famiglia Calamandrei, come gesto di perdono.
Andrea lasciò cadere la lettera a terra.
La pecora nera era sua madre, in quella storia.
Il Maresciallo era la pecora nera della Storia, ma sua madre era la pecora nera in quella storia. E quella storia era quella con cui avrebbe dovuto convivere fino alla fine dei suoi giorni. Il Maresciallo era ricordato per il male che aveva fatto, sua madre per quello che non aveva subito, che fingeva di aver subito.
La sua esistenza, colma di odio e desiderosa di vendetta era basata sul nulla.
Pieno di vergogna, di rabbia, di tutti i sentimenti peggiori che l’animo umano può provare aveva bagnato la busta col gas in forma liquida, avendo prime preso ogni precauzione possibile con la calma tipica di chi è mosso da follia e odio e l’aveva rimessa al suo posto.
Andrea sapeva la verità, probabilmente la sapeva anche Edgardo. Ma era meglio che fosse lui l’unico a custodirla.
Il Maresciallo doveva continuare ad essere odiato. E con lui la sua discendenza.
Uscì dalla piccola stanza e si allontanò, attendendo di udire il suono dell’ambulanza.

Edgardo era uscito dall’ospedale due settimane dopo. Irma un mese dopo.
Insieme erano tornati alla casa di riposo, entrambi privati di qualche capacità di movimento. Entrambi segnati da quella storia, colpiti dalla lettera che sapeva troppo e che per fortuna non esisteva più.
Edgardo non parlò mai più di quella storia. Aveva acceso il computer e cancellato quella storia ancora priva di nomi certi a cui stava lavorando. Parlava di un personaggio sanguinolento e controverso e raccontava quella vita sconosciuta che lo rendeva più umano.
Non gli importava più di ricordare quella storia che solo lui sapeva.
Edgardo aveva smesso di credere nella redenzione delle persone.

giovedì 21 luglio 2011

La pecora nera - Incipit

Sto fissando il cursore lampeggiante da mezzora ormai.
Il foglio rimane immacolato, non compare nulla. Solo il cursore sporca la pagina immacolata.
A volte compaiono parole, piccole frasi, ma durano pochi secondi e subito dopo spariscono, cancellate da una mano arrabbiata e scoraggiata. Non so fare più nemmeno questo. Non so più nemmeno scrivere qualcosa di utile, qualcosa di bello o qualcosa di almeno leggibile.
Dov’è finito l’entusiasmo di un tempo? Dov’è finita la passione? L’energia di cui vibravano le parole che velocemente iniziavano a riempire lo schermo? Andata, sparita. Non è rimasto più nulla di tutto quello che un tempo dava un altro colore alle giornate. Fuori dalla finestra il tempo è triste, anche il panorama cittadino si rifiuta di offrire uno spunto.
Vedo il cielo grigiastro, con momenti alternati di sole e nuvole, ma tutto rimane stinto e senza vita.
Il canto di un passerotto su un tetto vicino si fonde con il passare delle auto e il vociare nella via sotto la mia finestra. Un filo d’aria arriva e mi lascia un brivido sulla pelle. Fa quasi freddo, nonostante il giorno dell’inizio dell’estate si stia avvicinando sempre di più. Molto più probabilmente sono io che sento più freddo di quanto in realtà non sia. Meglio chiudere la finestra in ogni caso.
Lentamente mi alzo e con passi faticosi e pesanti mi avvicino alla finestra e la chiudo. Mi soffermo un momento a guardare fuori, a osservare quel panorama che conosco fin troppo bene, che vedo da troppo tempo. Sospiro e torno lentamente alla scrivania piena di libri e occupata dal piccolo computer portatile, che ancora non so se odiare od amare.
Odiare, perché tutti questi aggeggi tecnologici che ti promettono magie e miracoli, in realtà stanno rendendo tutto troppo facile, troppo moderno e troppo distante dalla realtà.
Amare, perché per il sottoscritto è una grande comodità, un valido aiuto.
Certo, preferisco e preferirò sempre vedere inchiostro vero su carta vera, piuttosto che una cosa finta e fin troppo perfetta dietro uno schermo, ma in fondo devo ammettere che senza questo piccolo aiutante sarei morto già da un pezzo. O almeno, la mia mente sarebbe morta. La mia passione e i miei ricordi, la mia arte e le mie capacità, la mia saggezza acquisita con anni di studio personale. E la vita qui, in questa piccola stanza dalle pareti verde pallido, con fiori freschi cambiati ogni due giorni e l’inconfondibile odore di ospizio sarebbe stata solo un susseguirsi di giorni bui e tristi. Guarda un po’, sono riuscito a riempire quasi una pagina. Ma rimango comunque un povero vecchio che vive di ricordi e rimpianti, chiuso qui, in un edificio che di verde ha solo le pareti delle stanze e pieno di persone come me.
Mi hanno detto, le infermiere e i parenti, che se passassi più tempo nella sala comune troverei moltissimi spunti per i miei scritti, ma io di storie del passato di vecchie persone ne ho abbastanza, mi basta la mia. E non voglio essere ricordato come uno scrittore di biografie, voglio poter scrivere di nuovo cose importanti come una volta. Come prima del maledetto Parkinson.

martedì 21 giugno 2011

Roxen - Cap. 7

Lanciò un'imprecazione e corse verso la porta aperta. Uscì di fretta, inseguendo un'ombra, l'ombra di una persona che l'aveva appena derubato.

Si ritrovò in strada, fissando prima da una e poi dall’altra parte, ma nessuna delle decine di persone che affollavano la via era quella che serviva a lui. Si passò le mani tra i capelli lanciando altre tre o quattro maledizioni e tornò in casa sua.

Ok, aveva trovato quel passaporto. Il nome gli era familiare, ma al momento non diceva niente di utile.

Sapeva che era fondamentale per quel lavoro, sapeva che la donna, la proprietaria di quel documento era in qualche modo la chiave… Ma non riusciva proprio a ricordare il perché.

Tornato in casa si lasciò cadere sul divano e con la testa tra le mani cominciò a pensare e ripensare. Roxen…

Stefano, in una macchina dai vetri oscurati, stringeva il passaporto e respirava ansimando.

- Non ho più l’età per certe follie da film. – disse al ragazzo seduto al posto del conducente. L’altro annuì, continuando a fissare la strada. Stefano finalmente ricominciò a respirare normalmente e si mise a studiare il documento, confrontandolo con un altro.

- Un ottimo lavoro, non c’è che dire. Mi complimento con te, Javier. E io che nemmeno volevo portarti qui in Italia. Ah! Ci vorrebbero più sudamericani esperti di contraffazione, credimi. –

“Certo, così sarebbe ancora più facile scaricare su di noi tutte le vostre colpe.” Pensò Javier mettendo in moto e allontanandosi da quella via.

- Ancora poche ore e finalmente Roxen smetterà di esistere. Ed eccola rimpiazzata da Rosa Bartoli. Nessuna traccia di Roxen, nessuna traccia di me. Giusto Javi? –

- Si signore. – “E non chiamarmi mai più Javi, se non vuoi che ti stampi la faccia nel vetro, idiota.”

Javier guidava un po’ più veloce del consentito, muovendosi agilmente tra le strade siccome era talmente abituato a quella strada da poterla fare bendato.

Roxen. Perché proprio Roxen? Tra tutte le persone che poteva scegliere, Stefano aveva scelto di far sparire lei.

Voleva eliminarla dalle carte, fare in modo che lei non fosse mai esistita, che non avesse mai lavorato per lui. Nascondeva qualcosa, Stefano, qualcosa che non veniva a galla nemmeno nei numerosi momenti in cui l’alcol prendeva il sopravvento sulla sua ragione. E Javier sapeva che erano davvero numerosi.

Ma ora, guidando per le strade piene di gente, poteva pensare solo a Roxen e al rischio che aveva corso nel lasciarle quel biglietto in ospedale, nella stessa stanza dove poco dopo sarebbe entrato Stefano.

Ripensò anche al loro incontro. O meglio, a quando lui aveva incontrato lei in ufficio. Lei gli aveva rivolto il suo solito, gentile, fantastico sorriso, aveva scambiato con lui qualche parola in spagnolo e poi era stata trascinata via da Stefano, lasciando Javier solo con la borsa di lei. E darle quella piccola meraviglia tecnologica era stato l’inizio della silenziosa custodia su Roxen. Javier sapeva che lei era l’obiettivo. Non sapeva il perché, ma era determinato ad impedire che le accadesse qualsiasi cosa.

- Javi, che ne dici se allunghiamo un po’ il giro? Magari se passiamo prima dall’ufficio riesco a iniziare a sistemare queste noiose faccende riguardo la cara Roxen. – Javier sentì un brivido.

- Scusi se mi permetto, ma cosa sta succedendo alla signorina Burlington? Perché è così determinato a farla sparire, da un giorno all’altro? –

Stefano piegò la testa all’indietro e rise fragorosamente.

- Davvero credi di poterci capire qualcosa? Suvvia, Javi, a malapena capisci la nostra lingua, non vorrai farmi perdere tempo a spiegarti cose del genere? Lascia stare, Javi, davvero. –

Javier strinse le mani sul volante e accelerò di scatto. Stefano sussultò e dopo qualche minuto di silenzio, borbottò appena.

- È meglio che certi collegamenti tra Roxen e il sottoscritto non vengano alla luce. –

Arrivarono all’ufficio e scesero assieme dall’auto, cominciarono a percorrere la strada verso l’edificio in silenzio, finchè Stefano con un sorriso iniziò a parlare.

- Dimmi, non è che ti interessa quella ragazza? Oh si, ti interessa. Beh sai che ti dico? Poco prima della sostituzione dell’identità me la prenderò e me la spasserò un pochino. Ovviamente tu potrai approfittarne, in fondo sei stato utile… - Javier non riuscì a fermarsi. Prima che la sua mente finisse di analizzare la frase, il suo pugno si era già abbattuto sulla mascella di Stefano.

Il capo era ora a terra, lo fissava ad occhi spalancati.

- Sei tu! Sei tu il bastardo che ho visto sparire con il chip che conteneva i documenti! La stai aiutando, venduto! Stai aiutando quella pu… - il calcio di Javier si abbatté nuovamente sulla mascella di Stefano. Il ragazzo cominciò poi a correre e comporre un numero nello stesso momento. Dall’altra parte, dopo qualche squillo, una voce conosciuta rispose.

- Roxen, ti devo parlare. Esci subito da quell’ospedale e raggiungimi a casa tua. Non c’è tempo. Non c’è più tempo, Roxen!-

venerdì 27 maggio 2011

L'appuntamento - Cap. 5

Immobile davanti alle macerie, Ascanio non riusciva a pensare ad altro che alla sua Sabrina.
Quelle macerie sembravano uno strano e terribile segno del destino.
Era sempre stato particolarmente superstizioso, tanto da aver quasi gioito alla notizia che il gatto nero di Sabrina fosse scomparso, e quel ponte, quel simbolo di unione crollato lo metteva in agitazione come non mai. Ammetteva che era una cosa stupida, che un vecchio ponte decide di crollare nello stesso giorno e nell’esatto punto dove doveva incontrare la donna che non vedeva e che aspettava da vent’anni era solo una coincidenza. Una stranissima coincidenza.
-Forse non è destino.- disse a sé stesso rassegnato. Aspettò ancora qualche minuto, sperando di vederla arrivare di corsa, attirata dallo stesso rumore, ma non vide altro che cielo e macerie per i minuti successivi.
Tornò a passi lenti verso l’auto e ripartì alla volta della città.
Guidava lentamente, non sentiva nemmeno gli insulti che gli rivolgevano gli altri automobilisti, o forse semplicemente non gli importava. “Non è destino” si ripeteva.
Era meglio credere che fosse stato il destino a non volerli più insieme piuttosto che pensare che fosse successo per una precisa scelta di Sabrina. Lei non poteva non essersi presentata di proposito, c’era una promessa tra loro due. Si, decisamente era colpa del destino.
Raggiunse finalmente il centro città, sempre guidando pigramente e senza voglia.
Senza pensarci raggiunse il piccolo bar dove la loro compagnia si ritrovava tutti i pomeriggi, estate o inverno, freddo o caldo, bello o brutto tempo. Loro erano sempre li, sempre tutti insieme. E se uno non poteva venire, non andavano nemmeno gli altri. Mancava qualcosa se mancava qualcuno del gruppo. O almeno fu così finché lui e Sabrina non diventarono una coppia. Allora sì, ci si trovava al bar, ma puntualmente i due sentivano l’estremo bisogno di staccarsi per un po’, di rimanere soli. E allora raggiungevano a piedi, tagliando per le viuzze strette del paese, il castello e li i loro pomeriggi correvano in un batter d’occhio.
Ascanio scese dall’auto ed entrò nel piccolo bar affollato. C’era caldo li dentro, c’era sempre caldo. Il che può far comodo in inverno, ma già da maggio lo rende poco sopportabile. Eppure la gente faceva la fila per i cappuccini e i croissant, rigorosamente da ordinare insieme. Erano ottimi davvero, Ascanio lo sapeva bene visto che Sabrina li adorava, ma non riusciva a finirli e quindi era costretto a mangiare la sua porzione più quello di lei.
Si riscosse dai suoi pensieri quando il proprietario lo salutò e gli chiese se aveva già scelto cosa ordinare. “Il solito, grazie”, che poi era quello che dicevano tutti.
Il barista tornò poco dopo e si appoggiò al bancone guardando Ascanio da sopra gli occhiali.
-Dì un po’, hai incrociato Ennio di recente?- Ascanio negò con la testa.
-Ha fatto i soldi caro mio, eh si. Ha una gran bella macchina, uguale alla tua. E non vorrei sbagliarmi, ma io non mi sbaglio mai… Comunque, secondo me ha fatto qualcosa al viso. Sarà la barba, un po’ come la tua, ma ha un naso piuttosto diverso da quello da pugile che mi ricordavo. Sai, quel naso schiacciato che gli creava quella voce irritante…- il vecchio barista continuava a parlare, mentre i pensieri di Ascanio si erano fermati al “Ha fatto i soldi”.
Che cosa aveva fatto Ennio della sua vita? Non erano rimasti in contatto e in 20 anni non si erano più incontrati.
“Buffa la vita. Torni per incontrare la donna che ami e rischi di incrociare l’uomo che la ama”. Pensava sorseggiando il cappuccino.
Si voltò verso la sua auto parcheggiata li fuori. Ora anche Ennio aveva una Ferrari.
“E la sta parcheggiando accanto alla mia!”

martedì 3 maggio 2011

Le due parti dell'altalena - Cap. 6

La signorina Smith, la signorina ormai priva di nome, ormai conosciuta solo grazie alla sua triste ed inquietante storia, sedeva nella sua stanza, fissando qualcosa. Qualcosa che per qualsiasi persona sarebbe risultato un punto a caso nel muro, ma lei vedeva chiaramente i suoi pensieri scorrere, come un grottesco spettacolo di marionette. Rimase immobile per un’eternità, ma che lei percepì come pochi secondi. E in quei pochi secondi la sua mente tornava lucida, tornava a vedere la luce. La ragione usciva dalla nebbia e le imponeva di ascoltare, di respirare piano, di amplificare tutti i suoi sensi. Rimase immobile, ascoltando il battito cardiaco rimbombarle nella testa. Poi si alzò, cercò sotto il suo letto per qualche secondo e poi le sue mani riemersero impolverate stringendo del materiale per scrivere.

“Sono tornata a ragionare. Per quanto? Troppo poco, come sempre. Quanto ricordo di questa giornata? Troppo poco, come sempre. E come sempre mi torna alla mente solamente il rosso. Tanto rosso. Rosso sangue. E l’odore del sangue. Sensazioni che mi porto addosso da una vita. Ormai il colore rosso mi nausea. Ormai il solo pensiero del sangue mi fa girare la testa. Vorrei potere ricordare il perché. Vorrei potermi spiegare queste sensazioni così reali create da un sogno. Da quell’orribile sogno. A volte ci penso, e piango. Poi devo smettere, perché non sono più una bambina. Era solo un sogno. Me lo ripeto spesso, me lo ripetono tutti qui dentro. Ma può essere un sogno così reale e soprattutto avere un ricordo così vivido? È colpa delle medicine ne sono convinta.”

Rimase a fissare la pagina, rileggendo, ricontrollando, cercando di impararla a memoria. Viveva a pezzi, ricordava solo frammenti della sua esistenza. Frammenti dai bordi irregolari, frammenti singoli, che non potevano completare un’immagine chiara e completa. Anche uno specchio rotto e riparato nel peggiore dei modi avrebbe mostrato un’immagine più chiara di quella che lei intuiva dai pezzetti che aveva a disposizione.
Mentre i suoi pensieri si intrecciavano, una goccia di sangue cadde sul bordo della pagina. La ragazza inclinò la testa, incuriosita e perplessa, chiedendosi da dove fosse giunta quella perla rossa. Chiuse il quaderno e lo ripose, avvertendo un strano prurito al collo. Si toccò col palmo della mano che si tinse di rosso.
Rosso.
Rosso sangue.
Come aveva fatto a ferirsi? Raggiunse la stanza da bagno e con dell’acqua si risciacquò il sangue che le sporcava il collo e tamponò le ferite con un asciugamano pulito. Aveva bisogno di chiarezza.
Uscì dalla sua stanza e si avviò verso l’ufficio di Garreth. Camminava lentamente lungo i corridoi dai pavimenti gelidi e mentre camminava le risuonava nella testa una bizzarra melodia che riusciva a seguire solo canticchiando. Non ne conosceva le parole. O forse le conosceva, ma le aveva dimenticate. Era facile dimenticare in un posto come quello. Poi qualche parola.

Cosa faremo di questa ragazza?
Combineremo un bel matrimonio:
la daremo in sposa al…

Di chi sarebbe stata sposa quella ragazza di cui canticchiava? E chi era? Beh, poteva essere chiunque, non aveva importanza il nome. Ma con chi si sarebbe sposata si. Insomma, qualsiasi ragazza che si rispetti è interessata in questioni matrimoniali no?

La daremo in sposa al… demonio?

No, non diciamo sciocchezze! Chi mai darebbe la propria figlia in sposa al demonio?
- Che pensieri ridicoli che hai a volte, Kate. – sussurrò a se stessa scuotendo il capo. E mentre continuava a pensare a chi sarebbe stato lo sposo, arrivò.
Lo studio di Garreth aveva la porta semi aperta, la luce era accesa e dall’interno proveniva uno strano suono. Lo stesso suono che facevano le sue medicine quando le tiravano fuori dal loro contenitore per poi offrirgliele.
Kate entrò, rassicurata da quei rumori familiari.
Garreth era seduto sulla scrivania, passando da una mano all’altra il contenitore dei medicinali. Sottovoce canticchiava la sua stessa melodia.
Kate si immobilizzò e Garreth alzò lo sguardo. Le sorrise.
- Ci hai messo tanto stasera, Kate. –

lunedì 28 marzo 2011

Le bianche nuvole di Kabul - Capitolo 2

E la vita ricominciò a strisciare lentamente, seguendo il monotono ticchettare di un orologio che scandiva secondi lunghi quanto ore.
Partisti, ma per Milano e io rimasi sola, sola in mezzo alla follia, sola in balia di quel mondo inspiegabile e di me stessa. E rimanere sola con me stessa era la cosa che faceva più paura.
Era difficile accettare una realtà come quella che avevamo vissuto insieme, ma era ancora più difficile andare avanti in quella realtà senza la tua guida, il tuo consiglio, la tua presenza. Cosa rimaneva di te? Ricordi, solo ricordi. E il cuore di ambra che mi regalasti.
Lo strinsi con una mano per un momento, poi tolsi il ciondolo e rimasi a guardarlo alla luce del sole. I suoi riflessi dai toni caldi creavano giochi di luce sulle mie mani e sulle mie braccia. I colori che emanava ricordavano quelli della terra, del calore, dei tuoi occhi.
Sospirai e scossi la testa. A cosa servivano ora tutti quei ricordi? Quelle sciocche nostalgie da ragazzina innamorata? Ero una donna ormai, e tutto quello che era successo non sarebbe tornato. Alzai di nuovo lo sguardo e cercai di distrarmi concentrandomi sulle persone che vedevo passare all’interno del cimitero.
Donne anziane, un signore che camminava lento portando una rosa bianca, una donna più giovane che teneva per mano una bella bambina dai lunghi capelli rossi. Sorrisi a quella vista. Come erano buffi quei capelli rossi. Perché erano buffi? Non riuscii a spiegarmelo, ma continuai a sorridere.
Le seguii un momento con lo sguardo. La donna aveva la mia età, anno più anno meno. La bambina era attorno ai dieci anni. Stringeva qualcosa in mano, ma non riuscivo a vedere cosa fosse. Uscirono dalla mia vista e io portai il mio sguardo al cielo. Le nuvole viaggiavano leggere ed impercettibili. Proprio come quando… Oh, insomma. Era ora di smetterla con la nostalgia e i sospiri. Non ci avevo pensato durante quegli anni, perché proprio ora?
Mi alzai dalla panchina e iniziai a camminare lentamente attraverso il cimitero, osservando nomi e volti, immaginandomi le loro storie, il loro carattere. C’erano foto che mi facevano sorridere. Sorridevo di rimando a quei sorrisi tanto naturali e spontanei. Sistemai un vaso di fiori rovesciato e mi incamminai verso l’uscita.
Vidi di nuovo la donna e la bambina, mentre si avvicinavano all’uscita. I capelli della piccola ondeggiavano sulle sue spalle e quando un ciuffo le andò davanti agli occhi lo spostò con un gesto familiare. Un gesto familiare. I capelli rossi. Anche lui aveva i capelli tendenti al rosso. Un dubbio iniziò a farsi largo nella mia testa.
E se…
No. Impossibile.
Lui viveva con la famiglia a Milano. Cosa ci farebbe quella bambina qui a Roma?
Troppe coincidenze, troppe sciocchezze partorite da una mente che ha voglia di sognare. Però…
Ero rimasta con dubbi per dieci anni, un altro non lo avrei sopportato. Un momento.
La bambina ha circa dieci anni!
No, basta. La devo smettere di correre così con l’immaginazione. Non ha senso, non ha il minimo senso.
E proprio perché non aveva senso iniziai a seguire quelle due figure.

giovedì 3 marzo 2011

Corrispondenze - Capitolo 3

“Perché la nonna? Cosa ha fatto di male la nonna? Niente ovviamente, ma perché sto mettendo in questa situazione anche lei? Non basta il dolore di quella piccola?”

I pensieri di Alexander correvano insieme al treno, correvano, si fermavano, continuavano a correre, gli saltavano addosso e poi scappavano lontano. La sua mente era decisamente altrove.

E si lasciava coinvolgere forse troppo dai suoi racconti. Insomma era solo la sua immaginazione, eppure sentiva che doveva stare con quella bambina, doveva guidarla. Aveva il potere, poteva tirare una riga sopra quei poliziotti e sostituirli con la figura confortante del nonno.

Ma non ci riusciva, non poteva farlo. I poliziotti erano li per un motivo e dovevano rimanerci.

Improvvisamente incrociò il suo stesso sguardo riflesso nel vetro del finestrino e sussultò.

Non si aspettava di trovare due occhi davanti a sé, nemmeno i suoi. Si voltò lentamente, stupito dall’improvviso silenzio. Le ragazze dormivano, tutto il treno probabilmente dormiva. E lui, all’una di notte era probabilmente l’unico sveglio a rimuginare. Non riusciva a staccare la mente, i suoi pensieri in un modo o nell’altro tornavano sempre a quella piccola figura dai grandi occhi spaventati. Fece per riaprire il suo libricino, ma una voce lo bloccò.

- Non dormi mai tu? - si voltò verso la voce e trovò Elen che lo fissava sorridendo, appoggiata sui gomiti.

- Scusa, ora spengo la luce e ti lascio dormire in pace. - rispose lui a voce bassa, staccando gli occhi da quelli della ragazza. Lei ridacchiò e si mise a sedere a gambe incrociate.

- Figurati, non è un problema. Il problema sarà resistere con ore di sonno arretrato. - lui annuì e mise da parte il suo libretto.

- Se posso chiedere… Cos’hai da scrivere tutto il tempo? - chiese con tono divertito.

- Idee, pensieri. Nulla di speciale. - “Si, idee, pensieri, ma anche emozioni, sentimenti, che diventano le emozioni e i sentimenti dei miei personaggi. Sono tutti autoritratti, ma con volti e storie diverse. Io sono i miei personaggi, sono loro. Ma questo non ho il coraggio di ammetterlo ad alta voce. E mi sento stupido anche a pensare da solo.”

- Scrittore? - chiese lei sorridendo.

- Ci provo. - rispose Alexander portando di nuovo lo sguardo fuori dal finestrino.

- E che scrivi di bello? - “Ma quante domande…” sbuffò involontariamente.

- Ok, torno a dormire. - rispose rapidamente lei, rimettendosi sdraiata.

- No, scusa. È per la storia che sto cercando di scrivere. -

- Bloccato a un punto morto? -

- No. È come… è come se stessi cercando qualcosa, senza sapere cosa. È come se volessi parlare di qualcosa che continua a sfuggirmi. -

- E tu corrigli dietro. -

Corrigli dietro.


I due poliziotti improvvisamente si alzano di scatto e si avvicinano alla nonna.

- Nonna! - la piccola si mette in mezzo, cercando di fare qualcosa contro quei due uomini che sembrano intenzionati a fare del male alla sua nonna.

- Levati dai piedi. - è la dura risposta di uno dei due, accompagnata da una spinta che la manda contro lo stipite della porta. Gli occhi si riempiono di lacrime e la piccola si accuccia per terra, mentre la nonna tra urla e proteste viene trascinata fuori casa dai due. Il silenzio cala quando i tre escono dalla casa, in strada.


“Corri Emma, corri.”


La piccola si asciuga gli occhi e si rimette in piedi. Raggiunge l’ingresso con gambe tremanti e dopo essersi accertata di non essere vista dai due poliziotti comincia a correre lungo la strada.

-La bambina! Maledizione la bambina!- uno dei due si accorge della sua fuga e si mette a correre dietro a lei. Emma corre più veloce di quanto non abbia mai fatto.

Deve avvisare qualcuno, deve parlare con chi può aiutarla. E scappare a quel poliziotto che ansima dietro di lei urlando imprecazioni e insulti agli ebrei.

Perché questo odio? Perché?

Emma svolta in una strada laterale, continuando a correre più velocemente possibile e ormai è talmente affaticata da non vedere più dove va. Improvvisamente viene afferrata dalla vita e immobilizzata. L’hanno presa? È il poliziotto?

-Non urlare, fidati di me.- Una voce sussurra vicina al suo orecchio, ma l’unica cosa di cui si preoccupa ora è di ricominciare a respirare regolarmente. E poi di avvisare qualcuno.

Si abbandona tra le braccia di quella persona sconosciuta. Sente una porta chiudersi. Poi salgono le scale. Un’altra porta si apre e poi si richiude.

-Tranquilla piccola, e fidati di me.-

martedì 15 febbraio 2011

Brillantina - Cap 2

Capitolo 2

-Cosa… Cosa ci fai qui?- chiesi balbettando come una tredicenne timida.
Lui sorrise e allargò le braccia.
- A te che sembra? Non ho forse l’aspetto del perfetto insegnante di ginnastica? –
- Beh, si, cavolo! – risposi prima che il mio cervello potesse registrare l’informazione.

sabato 15 gennaio 2011

La verdad nace en la sombra de la mentira - Epilogo

La porta si richiuse e il buio calò. L’unica luce entrava dalle fessure formate dalle travi che coprivano la finestra. Appena i miei occhi si abituarono all’oscurità, distinsi un corpo sul pavimento. Cautamente mi avvicinai. Il corpo non si muoveva. Mi avvicinai ulteriormente, appoggiai una mano sulla spalla dell’uomo steso a terra e il suo urlo mi fece cadere a terra. L’uomo si alzò improvvisamente e si girò nella mia direzione. Era bendato, il volto era pieno di lividi e deformato dalle tumefazioni, i suoi abiti sporchi di sangue e bagnati.
Hernan De la Roca. Come è conciato? Cosa sta succedendo?
-Hernan?- chiesi con la voce tremante. Lui si voltò nella mia direzione, allungando le braccia verso di me.
Perché non si toglie la benda? Mi domandai guardandolo brancolare e rantolare come una bestia ferita.
-Non mi avete torturato abbastanza? Non siete soddisfatti? Eh? Rispondete, maledizione!- gridava con voce roca, fendendo lo spazio davanti a sé con le braccia.
-Sono Catalina…- lui smise di muoversi e si immobilizzò.
-La prego mi aiuti. Non so dove mi trovo. Hanno le armi. Hanno preso la droga. È tagliata male, è difettosa. È letale… Oh, Sabrina…- le sue parole confuse si trasformarono in pianto e cadde sulle ginocchia, battendo i pugni sul pavimento.
Non trovavo il collegamento. Marcos aveva spodestato De la Roca? Avevano trovato la coca tagliata male? E perché mai l’aveva bendato e rinchiuso qui? E perché non si levava quella benda?
-Hernan, cosa sta succedendo?- lui rantolò qualche parola che non compresi, stringendosi il volto tra le mani, poi inspirò a fondo e alzò il volto verso di me. Fu allora che lo vidi. Si era levato la benda e i suoi occhi… i suoi occhi non c’erano più. Il mio stomaco si contrasse in un conato, che riuscii a controllare per miracolo e appena smisi di respirare a scatti mi rivolsi di nuovo a lui.
-Chi le ha fatto questo, Hernan?-
-Mio figlio… E quegli altri… Doveva essere un piano perfetto. Avremmo venduto la coca in Italia e sarebbe stato tutto più facile. C’era quella ragazza, quella nuova. Non c’erano rischi.- Non sapeva che quella ragazza era in quella stanza con lui.
-Chi è suo figlio Hernan?-
-Marcos. Si chiama Marcos.- il mio cuore cessò di battere. O almeno così mi sembrò. Marcos, il figlio di De la Roca.
-Conosceva Sabrina Almodez?-
-Oh, Sabrina. La povera Sabrina. Sedotta e abbandonata. Diede un figlio a Marcos, ma Marcos dubitava di essere i padre effettivo, era convinto che Sabrina lo tradisse. Così vendette il bambino e uccise Sabrina. Diceva che era marcia come suo padre. Vuole uccidere Almodez! Vuole eliminare l’unica persona che può testimoniare contro di lui.-
-Anche lei può testimoniare!- le mie parole gli suscitarono una risata nervosa.
-Noi non usciremo mai da questa stanza, signorina.- le sue parole mi fecero sudare freddo. Annaspai come un pesce fuor d’acqua per un momento, rimettendo a posto i pezzi di quel puzzle folle e contorto.
-Perché hanno scelto quella ragazza? Quella nuova?-
-Era il collegamento più facile, la via più breve per arrivare ad Almodez.-
-Una pedina…-
-Si, era solo una pedina. L’ho voluta nella mia spedizione per salvarla. Volevo mandarla in Italia ed evitare che finisse nel piano perverso di Marcos.-
Hernan De la Roca voleva salvarmi. Marcos voleva usarmi per arrivare ad Almodez e quando aveva saputo delle intenzioni di suo padre, aveva deciso di imbottirmi di esplosivo, per eliminarmi definitivamente nel caso fossi sopravvissuta alla sparatoria. Era folle. Ma aveva senso adesso.
-Dobbiamo andarcene di qui Hernan. Ora.-
-E’ inutile, chica. Ci ammazzeranno. Ti tortureranno come hanno fatto con me, poi ti sgozzeranno come un maiale. E lo stesso toccherà a me.- deglutii e mi avvicinai a lui.
-Io sono Catalina Guilmar. Lei mi conosce come Eva, ma il mio nome è Catalina Guilmar. E il mio compito, ora, è quello di portarla via di qua, vivo.- la sua bocca si aprì in una espressione sorpresa, poi le sue mani strinsero le mie.
-Sei salva.-
-Si, signore.-
-Ho pregato tanto perché ti salvassi.-
-Lei crede, Hernan?-
-Dio è qualcosa di più forte persino delle pistole e della droga. Gli uomini possono ritenere sbagliato che io venda droghe e uccida persone. Ma io devo rendere conto solo a Dio, non agli uomini.- annuii alle sue parole. Finché aveva la fede, credeva in qualcosa. E se credeva ancora in qualcosa nonostante tutto quello che era successo voleva dire che credeva di potersi salvare. E riponeva tutta la sua fiducia in me.
L’avevo conosciuto con l’intento di distruggerlo e ora dovevo salvare quell’uomo che era rimasto vittima del suo gioco.
Mi avvicinai alla finestra e guardai attraverso le fessure. Dava su un enorme campo, in lontananza si vedeva una strada trafficata e rumorosa. Poi guardai attraverso la serratura della porta. C’era solo un uomo, di spalle, che guardava la televisione, il resto della stanza era vuoto. Mi voltai verso Hernan.
-Ha armi?- lui si tastò le tasche, poi passò alla gamba e trovò quello che cercava. Un coltello a serramanico, abbastanza lungo da farmi paura. Lo impugnai e gli raccomandai di tacere. Usando il coltello e le conoscenze acquisite da Marcos riuscii ad aprire la serratura. Coprii lo scatto battendo sulla porta e urlando:
-Aprite, per favore, lasciatemi andare!- sentii l’energumeno avvicinarsi e appena la sua mano batté un colpo sulla porta intimandomi il silenzio, la spalancai e gli saltai addosso, conficcando il coltello nella sua gola. Cadde a terra rantolando, con gli occhi strabuzzati. Presi la sua pistola, caduta a terra e lo finii con un colpo in testa. Rimase immobile, con gli occhi spalancati, mentre un silenzio innaturale cadeva nella stanza e una pozza di sangue di allargava sotto la sua testa. Non avevo molto tempo. Recuperai Hernan e lo guidai il più velocemente possibile giù dalle scale, stringendo la pistola con la sinistra, mentre Hernan si sorreggeva al mio braccio rotto. Scendemmo in strada e ci dirigemmo verso il campo, iniziando ad attraversarlo insieme, sorreggendoci a vicenda su gambe doloranti e malferme. Eravamo quasi a metà, iniziavo già a distinguere le insegne del motel che si trovava all’ingresso della zona sud della città, quando la voce di Marcos mi arrivò alle orecchie. Mi voltai di scatto e lo vidi correre verso di me insieme agli altri due che mi avevano portato nell’edificio, tutti e tre brandendo le pistole e puntandole contro di noi.
-Stia a terra!- spinsi a terra Hernan e mi chinai per evitare i colpi.
-Vogliono me, lasci che mi prendano!-
-No, io la porto fuori da questa storia vivo!- risposi sparando tre colpi nella loro direzione e colpendone due. Diego al petto e Andreas al braccio destro. Si accasciarono entrambi a terra e rimase solo la figura di Marcos a correre verso di me. Il suo volto era contratto in un sorriso folle, mentre sparava colpi nella mia direzione. Un proiettile mi colpì al braccio rotto e mi lasciai cadere a terra, immobilizzandomi. Marcos rallentò la corsa, iniziando a muovere passi veloci e pesanti nella mia direzione.
-Fine della corsa, Cat. Pensavi di scappare così facilmente? No… Dio, voi donne, quanto siete stu…- non finì mai quella frase.
Il mio proiettile lo colpì in fronte, congelandogli sul volto un’espressione quasi stupita. Rimase immobile un secondo poi il suo corpo ormai senza vita cadde a terra, con gli occhi vuoti che fissavano il cielo stellato di quella notte maledetta. Mi cadde la pistola dalle mani tremanti e mi inginocchiai davanti a lui, fissandolo.
Era finita. Ero salva.
-Siamo salvi, Hernan.- sussurrai.
-Siamo salvi!- esclamai sorridendo, ma quando mi voltai verso Hernan vidi il suo corpo giacere immobile, solo il suo petto si muoveva leggermente. Mi avvicinai urlando il suo nome e strinsi la sua mano.
-Mi hai salvato chica.- sussurrò. Aveva un foro nel petto, un proiettile l’aveva colpito. Stringeva tra le mani il cellulare dell’uomo che avevo ucciso nell’edificio.
-Stanno arrivando i soccorsi.- sussurrò chiudendo gli occhi.
-Hai salvato me, e altre vite chica. Grazie.- il suo petto fu scosso da dei colpi di tosse, poi rimase immobile.
Mentre le lacrime scorrevano sul mio volto sentii avvicinarsi le sirene delle ambulanze e della polizia. Singhiozzavo aggrappata al corpo di quell’uomo, quando una mano mi si posò sulla spalla.
-Catalina, è finita. È tutto finito ora.-

venerdì 14 gennaio 2011

La verdad nace en la sombra de la mentira - Cap. 7

Cosa stava succedendo? Tutte quelle informazioni, tutte quelle storie, tutti quegli intrecci mi stavano fondendo il cervello. Sentivo la testa come se la stessi tenendo sott’acqua. Respiravo a fatica. Il mio corpo era paralizzato. Percepivo ogni singolo battito del mio cuore rimbombarmi nella testa.
Marcos aveva un figlio, ma era una bugia. Non ne aveva mai avuti. Dovevo portare droga in Italia, una missione seguita e senza rischi, ma avrei dovuto ingoiare ovuli con dell’esplosivo. Marcos non aveva mai avuto figli, era tutore del figlio di Hernan, nato per stupro. La donna stuprata si chiamava Sabrina Almodez, e Almodez era il cognome dell’uomo per cui avevo lavorato anni prima. Avevo conosciuto Sabrina, me la ricordavo era una donna bellissima, con capelli lunghi e neri…
Un lampo mi passò negli occhi. Io avevo conosciuto Sabrina.
Come poteva aver avuto figli ed essere sparita? Cosa diamine mi stava raccontando?
-Tutto a posto?- mi chiese Marcos. Annuii senza alzare lo sguardo dal pavimento. Mentiva, di nuovo. Ma che senso aveva mentirmi adesso? Lo guardai negli occhi e lui mi sorrise leggermente.
-Dobbiamo andarcene di qui, Cat.- annuii e gli chiesi di uscire, così potevo sistemarmi. Appena chiusi la porta altri mille dubbi e mille domande mi invasero la testa.
Cosa era successo? Perché mi mentiva? Perché ovunque mi trovassi era il posto sbagliato? E soprattutto, cosa dovevo fare? La mia fronte sbatté contro la porta, mentre le mie spalle si rilassavano di colpo. Ero esausta. Non ce la facevo più, quella storia mi stava prosciugando ogni energia fisica e mentale. Inspirai a fondo e pensai a casa mia. A mia madre, mia sorella e a tutte le persone che contavano su di me e me lo dicevano sorridendo. Dovevo farcela. In un modo o nell’altro dovevo mettere fine a quell’incubo. Alzai la testa e mi passai una mano tra i capelli. Si, dovevo farcela. Recuperai un borsone da viaggio impolverato dall’armadio e vi buttai dentro dei vestiti scelti in fretta, un pacchetto di sigarette già incominciato e la mia pistola di riserva, già carica. Chiusi la borsa e la guardai. La riaprii con le mani tremanti e la svuotai ancora più velocemente, ridussi il carico e lo chiusi in uno zainetto che mi caricai in spalla. Indossai un cappello nero che abbassai fino a coprire quasi gli occhi, presi il mazzo di chiavi appoggiato sul comodino e cercando di muovermi il più velocemente e silenziosamente possibile uscii dalla finestra, raggiunsi la scala antincendio e corsi giù, fino al parcheggio. Raggiunsi la mia moto, una Ducati Hypermotard usata si e no tre volte, e partii spingendola al massimo per allontanarmi il prima possibile, prima che Marcos potesse rendersene conto.
In pochi minuti raggiunsi il centro della città e proprio mentre puntavo verso l’unica strada che poteva portarmi fuori città, mi accorsi di una macchina nera dietro di me, che accelerava a vista d’occhio.
Maledizione, è una delle auto di Hernan.
Accelerai anche io e alla prima curva svoltai, facendo perdere il controllo ad una altra moto che arrivava dalla direzione opposta. Sentivo la moto soffrire, sapevo che la stavo tirando troppo, ma non avevo altra scelta. L’auto mi stava dietro e si avvicinava sempre di più. Poi improvvisamente cominciò a rallentare e a mantenere un percorso rettilineo.
Dio, no, no, NO!
Bruscamente portai la moto sull’altra corsia, un istante prima di udire lo sparo. Ero sotto tiro. Cominciai a muovermi a zig zag sulla strada, cercando di evitare le altre auto e soprattutto di mantenere in piedi la Ducati. Sentii un proiettile sfiorarmi l’orecchio destro e poi un bruciore si diffuse dove prima era passato il colpo. Gli occhi mi si riempirono istintivamente di lacrime, proprio mentre piegavo la moto per portarmi sull’altro lato. Sentii lo stridore della carena sull’asfalto, e un secondo dopo rotolavo sulla strada. Quando mi fermai avevo in bocca il sapore del sangue misto a terra. Aprii debolmente un occhio e notai che ero finita sul prato a lato della strada.
Poggiai le mani a terra e provai ad alzarmi, ma un colpo sulla schiena mi rimandò stesa a terra. Avevo fiato corto e la pelle appiccicosa per colpa del sangue, iniziavo a sentire il dolore diffondersi in tutto il corpo, partendo dal punto in cui mi avevano colpito alla schiena. Chiusi gli occhi e lasciai scorrere le lacrime, mentre venivo alzata di peso e caricata con malagrazia in un’auto che odorava di cibo stantio, birra e marijuana.
L’auto ripartì e sentivo il vociare allegro delle persone all’interno: commentavano la mia moto, il mio stupido tentativo di fuga, il mio corpo.
Animali schifosi. Pensai stringendo i denti per non urlare dal dolore. Probabilmente mi ero rotta un braccio, e sanguinavo ovunque, sentivo il sangue bagnare i miei abiti e appiccicarli al corpo.
Dopo un lasso di tempo indeterminato l’auto si fermò e il motore si spense. Ovunque fossimo, eravamo arrivati. Venni trascinata fuori dall’auto e costretta a sorreggermi sulle mie gambe malferme. Quando le braccia dell’uomo che mi sostenevano mi lasciarono crollai a terra come un neonato, suscitando le risate del gruppo. Altre braccia mi alzarono e mi portarono all’interno di un edificio. Tenevo gli occhi chiusi, poiché il sangue, la terra e il sudore mi rendevano impossibile aprirli. E poi che senso avrebbe avuto aprirli? Cosa avrei visto di nuovo? Corruzione, droga, denaro sporco, menzogne e morte.
Questo era il mondo di De La Roca e io ci ero finita dentro per bene. Ma, diamine, dove erano gli altri della mia squadra? Mi era stato assicurato che sarei stata monitorata giorno e notte. Che il microchip sottocutaneo al quale ero fortemente contraria era di vitale importanza, ma adesso che ce l’avevo, dove erano loro? Perché nessuno si era preoccupato di controllarmi? Che razza di lavoro era quello?
Venni scaraventata a terra, con altre risate e commenti idioti. La mia guancia premeva contro un pavimento freddo, un freddo che entrava nel corpo e mi dava brividi ovunque.
Aprii debolmente gli occhi e vidi un paio di scarpe lucide nel mio campo visivo. Una mano mi strinse i capelli sulla nuca e mi alzò il volto, mettendomi faccia a faccia con…
Marcos.
-Marcos…- lui mi sorrise, poi mi sbuffò del fumo sul volto.
-Ciao, Cat. O Eva, come preferisci.-
-Cosa sta succedendo Marcos?- chiesi debolmente, rassegnata e sofferente.
-Io vinco, tu perdi. Semplice Cat.-
-Io ti ho dato tutto Marcos.- sussurrai mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Mi sentii incredibilmente stupida mentre parlavo, o meglio frignavo come una bambina, implorandolo di svegliarmi da quell’incubo. Volevo sentirmi dire che mi avrebbe salvata e protetta, che saremmo usciti da quella storia insieme. Smise di ridere, una risata scaturita dalle mie parole sussurrate e mi guardò negli occhi, tenendomi una mano sul volto.
-E mi sei stata incredibilmente d’aiuto Cat. Sei stata proprio brava, hai fatto tutto quello che dovevi fare e senza battere ciglio.- rise di nuovo e mi diede un ceffone in pieno volto, continuando a ridere.
-Eri pronta a buttar giù dell’esplosivo, povera cretina. È bastato prometterti il minimo per usarti a mio piacimento. Voi donne, quanto siete stupide.- le lacrime adesso scorrevano sul volto. Le sue parole mi colpivano come pugni nello stomaco. Erano vere, aveva ragione. Mi ero lasciata andare troppo facilmente. E per cosa? Per un niente. Per un braccio rotto, un viso sfregiato e, molto probabilmente, una pallottola in testa.
-Mi hai mentito. Mi hai mentito sempre. La storia di tuo figlio, che poi era figlio di Hernan, il carico di droga, la sparatoria, le bombe. Sapevi tutto.- mi sorrise pietoso.
-Tutti mentono, Cat.-
-Hai detto di amarmi una volta.- rise di nuovo.
-E tu hai accettato di portare abbastanza cocaina da rimanerci secca se solo starnutivi. Come hai fatto a non accorgerti del collegamento, bimba?-
-Io mi fidavo di te.- l’uomo che mi teneva il volto alzato mi lasciò andare bruscamente e io ricaddi a terra, con una guancia sul piede di Marcos, che mi allontanò con un movimento brusco.
-Portatela di là.- la sua voce suonò fredda e piatta mentre dava l’ordine agli uomini che mi avevano trascinato in quell’edificio. Quando mi tirarono in piedi vidi i loro volti in uno specchio sulla parete di fronte.
-Andreas? Diego?- la mia voce strozzata uscì come uno squittio.
Andreas Ruìz, vicedirettore dell’ufficio dell’antidroga per cui lavoravo.
Diego Vázquez, addetto alla creazione di alias, detto anche “Questo microchip sarà l’unica cosa che ti salverà il culo, chica.”Loro si guardarono per un momento, poi abbassarono lo sguardo e venni trascinata nella stanza accanto e buttata a terra.

lunedì 10 gennaio 2011

La verdad nace en la sombra de la mentira

Il sole era ormai tramontato oltre gli alberi spogli e il cielo già coperto da nuvole scure di pioggia, sembrava minacciare un nuovo acquazzone.

Maledissi il vento freddo che mi correva sul collo, nudo per colpa dei capelli troppo corti, poi mi accesi una sigaretta, l’ultima del pacchetto.

Doveva funzionare, dannazione, era un piano perfetto. Aumentai il passo, scansando quanti più passanti possibile, ma non tutti erano così furbi da evitare per primi di trovarsi nella mia traiettoria per non scontrarsi con me. Una ragazza non troppo alta, bionda e piuttosto giovane che parlava fitto al cellulare, non si preoccupò nemmeno di spostarsi, schiantando direttamente la sua borsa firmata contro la mia mano, facendo cadere la sigaretta dritta in una pozzanghera. Lanciai un’imprecazione, facendo in modo che la sentissero tutti per bene, ma la diretta interessata continuò a squittire con quel tono odioso al cellulare. La seguii un momento con lo sguardo, quasi sorpresa da tanto menefreghismo, poi scossi la testa sbuffando e ricominciai a camminare a passo deciso.
Camminavo veloce, ma riuscii a notare le luminarie natalizie che decoravano tutta la via, addolcendo il grigiore della stagione con tonalità calde.

Il cellulare vibrò per qualche secondo, poi smise. Lo tirai fuori dalla tasca e lo aprii trovandoci una chiamata persa di un numero privato. Era il segnale. Guardai l’ora e rimasi piacevolmente sorpresa di essere in anticipo di quasi un’ora, ma non per questo rallentai il passo. Raggiunsi finalmente la stazione della metro e velocemente saltai oltre la bassa ringhiera in pietra, con uno scatto scesi nella zona delle rotaie e mi arrampicai nuovamente sulla banchina, sotto gli sguardi sorpresi dei presenti. Sorrisi, un sorriso finto, fatto apposta per metterli a disagio e spingerli a togliermi gli occhi di dosso. Dopo pochi minuti arrivò il treno giusto e senza preoccuparmi di chi scendeva e chi saliva, presi il mio posto con qualche spintone e cominciai a fissare il paesaggio correre fuori dal finestrino.
Sentii due anziane signore commentare la mia entrata in scena e augurarmi di incontrare uno dei controllori che spesso si fanno vivi sulle metro. Sorrisi e scossi la testa. Beate loro, che si accontentano di augurarti una brutta giornata, ma più di così non fanno. Sono sagge loro, sanno che aspettarsi il male di una persona porterebbe solo guai, e non solo in questa vita, ma anche più in la. Mi tocca ammettere che nutro un profondo rispetto per le persone anziane, sono l’espressione massima della coerenza a mio avviso. Sanno in quello che credono e continuano a crederci nonostante tutto.

La voce registrata annunciò la mia fermata e mi riportò bruscamente alla realtà. Scattai in piedi ed usci con una camminata decisa dal vagone, superando poi la folla e correndo sulle scale per uscire.

Aveva incominciato a piovere, di nuovo. Mi coprii la testa con il cappuccio della felpa e istintivamente cercai il pacchetto di sigarette, ma trovandolo vuoto lo accartocciai e lo buttai via. Camminai per mezzora, più o meno, lungo quella strada deserta che avevo percorso fin troppe volte nell’ultimo periodo. Mi guarda attorno poi con un movimento il più possibile naturale, feci toccare le mie caviglie, accertandomi che non avessi perso nulla durante la mia rapida camminata e le acrobazie in metropolitana. Raggiunsi l’ingresso di una strada laterale, sporca e male illuminata e mi addentrai nell’oscurità, fino a raggiungere una porta in legno, consumata dal tempo e dall’assenza di cura, sulla quale battei due colpi pesanti e un terzo dopo qualche secondo di attesa. Sentii lo stesso ritmo ripetersi sul vetro della finestra superiore ed entrai.
Per la prima volta in quella giornata ebbi paura.

“E se non funzionasse?” pensai. “No, allontana la negatività. Non sei fatta per essere negativa e tantomeno per avere paura. Andrà tutto bene.”
Salii le scale lentamente, trattenendo il respiro, come se potessero sentirlo. Ma in fondo mi aspettavano, no? Eppure l’ansia cresceva.

Alla fine delle scale mi accorsi di avere i palmi delle mani sudati e li asciugai frettolosamente sulla stoffa dei pantaloni. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli dal volto e dopo aver inspirato profondamente tre volte aprii la porta.
La voce che mi diede il benvenuto era quella di Hernàn de la Roca, boss colombiano della droga, pluriomicida, stupratore.

Il mio nome è Catalina Guilmar, e il mio compito era entrare nel suo mondo e distruggerlo.

giovedì 28 ottobre 2010

Alice - Capitolo 5

Il locale risuonò degli applausi del pubblico mentre il conduttore riprendeva il microfono: -Un grazie a Kara, uno dei nostri ospiti fissi! Bene. Ora vorrei riprovare l'esperimento di settimana scorsa, dove uno di voi salirà qua sul palco! Qualcuno se la sente?-. Una voce dalle fie centrali disse con chiarezza: -Lei!-. Una ragazza si alzò in piedi e il faro la inquadrò mentre si avvicinava al palco: -Bene! allora, sei pronta?- chiese il conduttore
-A dirla tutta io non volevo venire qua al'inizio, mi ha convinto quel ragazzo dal nome impronunciabile...-
-Un saluto anche a lui! Ora sta a te. Il palco è tutto tuo. Un bell'applauso a...-

MakaylaReed


Il treno procedeva con il suo passo tranquillo e scandito dal rumore delle rotaie.
Tenendo gli occhi fissi sul paesaggio che scorreva velocemente, Alice pensava e ripensava al gesto che stava per compiere. L’uccellino aveva spiccato il volo. Ora doveva solo continuare a sbattere le ali.
Ripose il mangiacassette nello zainetto e portò i piedi sul sedile, abbracciandosi le gambe e appoggiando il mento sulle ginocchia.
Nessuno le aveva insegnato a volare. Le avevano insegnato a sopravvivere nel nido, o meglio, aveva imparato a farlo. Si sentiva come se fino a quel momento avesse vissuto la sua vita da spettatrice esterna, osservando ciò che accadeva, lasciando che le cose ruotassero attorno a lei, aspettando ansiosa il colpo di scena che l’avrebbe trasformata da personaggio secondario a eroina. Non aveva impiegato molto tempo prima di accorgersi che se voleva quel colpo di scena, doveva crearselo. E allora via le trecce, quelle sono da bambina. Non facevano altro che ripeterle che quelle trecce che le pendevano sulle spalle la rendevano graziosa, una bellissima bambina. Ora lei voleva sentirsi dire che era una grande ragazza, una grande donna. Sì, una donna. Quel genere di donna che nel suo immaginario era forte, matura, saggia, capace di prendersi cura di sé stessa, oltre che degli altri. Quel genere di donna che sua madre non era mai stata.
Alice sospirò al pensiero della madre. Ora chi sarebbe stato sveglio a vegliare su di lei, quando i suoi passi sul balcone sembravano infiniti? Chi avrebbe amato silenziosamente quella creatura indifesa che non l’aveva mai amata, non per pigrizia, ma per dolore?
Si, Alice lo sapeva perfettamente. Sapeva che quella donna che chiamava mamma non riusciva a darle tutto l’amore di cui aveva bisogno solo perché anche lei, anche mamma Gabri, aveva un estremo bisogno di affetto.
Strinse le unghie nel palmo della mano, trattenendo le lacrime.
Lei le voleva bene, l’amava davvero. Ad ogni festa della donna le faceva trovare un pensierino, un fiore o un biglietto, che puntualmente venivano ignorati.
“Forse non le ho dimostrato abbastanza quanto tenessi a lei…” questo pensiero cominciò a farsi largo nella mente di Alice, aumentandole il ritmo del cuore.
Già, il pensiero della mamma aveva risvegliato qualcosa dentro di lei, qualcosa che era sparito da qualche tempo. La comprensione.
Alice non si sforzava più di comprendere, non voleva più scusare chi non l’amava come si dovrebbe amare un figlio. No, non poteva tollerare di essere solo un peso. Una responsabilità si, ma un peso no, non era quel genere di figlia che si può definire così. Non poteva, e soprattutto non voleva, scusare due persone che si accapigliavano dalla mattina alla sera per qualsiasi cosa, tirando in mezzo anche lei.
Ma improvvisamente lo stava facendo di nuovo. Stava comprendendo sua mamma. Stava scusando i suoi comportamenti, stava dando un senso a quel turbine di pensieri confusi che negli ultimi anni le avevano annebbiato il cuore, oltre che alla testa.
Si è vero, lei si era sempre sforzata inutilmente per la mamma, ma non era mai andata a fondo nella faccenda. Si era fermata al primo strato, aveva pensato che comportarsi come una figlia modello, le avrebbe portato una famiglia modello, quando invece avrebbe dovuto saper guardare oltre l’illusione dell’allegra famiglia. Il suo nido, il suo piccolo mondo all’interno delle mura domestiche era parecchio disastrato. Eppure anno dopo anno, passo dopo passo erano ancora tutti insieme.
I pensieri correvano veloci nella mente di Alice, che adesso sedeva rigida fissando un punto indefinito davanti a sé. Il suo battito cardiaco era accelerato improvvisamente, le sue certezze stavano pian piano sfumando in dubbi e paure.
“Le ragazze grandi hanno paura?” si chiese mentalmente, iniziando a mordicchiare l’unghia del pollice.