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venerdì 10 giugno 2011

MARCELLA - cap. 3

3.

Marcella si sente sollevare, è intorpidita e fa fatica ad aprire gli occhi come se avesse dormito per due giorni. Lacrime e resti di mascara hanno incollato le palpebre, sente dolore ma soprattutto ha sentito le braccia, dietro le spalle e sotto le ginocchia, e adesso ha la testa incassata contro un torace morbido.
Alza lo sguardo e non c’è suo padre ma vede Maurizio.
Maurizio non ricambia lo sguardo. Maurizio ha gli occhi stretti e le labbra contratte mentre la porta in camera. Maurizio sente che si è svegliata perché Marcella cerca di muoversi ma lui serra le braccia.
“I bambini li andiamo a prendere domani”, dice senza guardarla. Entrano in stanza e la adagia sul letto. Lei lo guarda, annuisce. Maurizio si ritrae, la fissa dall’alto e anche lui è senza espressione, come Luca.
Marcella si sente ripugnante. Marcella è ripugnante. Marcella si vergogna perché Maurizio è lì che la guarda senza dire niente, e si sente piccola e inutile e sporca – voleva sentirsi sporca ma non così.
Maurizio ha gli occhi rossi, ha pianto e deve aver bevuto. Lo ha sentito nel suo odore, mentre la portava lì.
Si rannicchia e gli volta le spalle.
“Mi dispiace”, dice Marcella.
“Anche a me”. Sente che Maurizio la sta fissando – come non sentiva lo sguardo di Luca in strada mentre aspettava il taxi.
Non lo vuole guardare in quel momento, non riesce a guardarlo. Si concentra sul cuscino di fianco a lei, sulla federa verde, sui motivi floreali agli angoli, e poi il suo sguardo scivola sul comodino, sul libro di racconti aperto con gli occhiali di Maurizio a far da segnalibro.
“Vuoi che me ne vada?”
“No”, sussurra Marcella. Chiude gli occhi. “Non voglio che tu vada via. Tu vuoi che io me ne vada?”
“No. Manu e Nico hanno ancora bisogno di una madre”, risponde. “Non devi andartene, se non vuoi. Io non lo voglio”
Silenzio.
“Da quanto lo sai?”
“Da abbastanza”, risponde Maurizio. Sente il suo peso sul materasso mentre si siede accanto a lei. Percepisce la sua tensione. “Non mi importa”.
Marcella si irrigidisce, come se avesse ricevuto uno schiaffo. “Perché?”
Una pausa. Che duri un minuto o mezz’ora, Marcella non è in grado di dirlo.
“Perché lui non ti fa stare bene. Forse nemmeno io, ma di sicuro lui no. E non fa stare bene nemmeno noi”.
No, Luca non la fa stare bene. Luca è un cancro, Luca è un’infezione che si è sviluppata nella sua famiglia e che lei ha veicolato, come quei topi che diffondevano la peste in un vecchio film che aveva visto tanti, tanti anni prima con Maurizio, sul divano, ancora fidanzati.
Marcella sa che Maurizio ha ragione. Luca la possiede come un oggetto, la controlla, ne può disporre – ma non l’ha mai fatta stare bene, se non in quei momenti in cui le permette di vivere un ruolo diverso da quelli che si è abituata a vivere negli anni. Ma è solo un altro ruolo. Marcella è stufa di avere ruoli. Marcella non vuole più essere un personaggio. Marcella vuole essere solo Marcella. Non più puttana, non più traditrice, non più bugiarda. Solo Marcella. Indipendente dalla sua dipendenza da Luca.
Luca che non è niente, a parte un corpo, a parte carne, a parte sangue, nient’altro che questo. Né Marcella è qualcos’altro per lui: un burattino dal corpo voluttuoso, di carne, di sangue, attaccata ai suoi fili.
Forse è solo perché Maurizio non le ha mai chiesto di essere nient’altro che lei è scappata, come tante altre volte in vita sua. Da Luca, che le aveva fatto indossare l’ennesima maschera. Perché Marcella, fino a quel momento, non aveva avuto il coraggio di guardare davvero il suo volto. Quel volto a volte rabbioso e intenso che la spaventava e la ripugnava e la colpevolizzava dalla superficie lucida dello specchio nel bagno di un attico in centro a Milano.
“Posso stare per un po’ da mia madre, o in albergo, finché non capisci cosa…”
“No”, lo interrompe Marcella. “Resta. Resta qui con me”.
Marcella è abituata ad implorare, non ne prova vergogna. Vuole soltanto cancellare gli ultimi mesi, vuole riemergere dal suo fango come dopo un nuovo battesimo. Vuole abbracciare Maurizio, anche se sa che adesso non può permetterselo, che lui forse non glielo permetterebbe. Vuole Manu, e vuole Nico. E rivuole anche se stessa, quella se stessa che credeva di aver trovato consegnandosi a un altro uomo. Ma quella non era Marcella, non è mai stata Marcella: ora capisce che era solo quello che Luca voleva che lei credesse, per poterla manipolare meglio.
Maurizio espira, la sua tensione si allenta impercettibilmente. “Va bene”.
Marcella vorrebbe dire non succederà più, non lo farò più, come quando era una bambina e giustificava le sue marachelle davanti allo sguardo corrucciato dei suoi genitori. Non riesce a dirlo adesso. Non è in grado di promettere niente a se stessa, o a Maurizio. Nemmeno che ci proverà con tutte le sue forze, perché Marcella sa di non essere forte. Ma sa anche che non vuole nient’altro, adesso.
Può solo allungare il braccio a tentoni, sfiorare la schiena ancora tesa di Maurizio e sentire con sollievo che non si ritrae. Per un istante, non si sente più ripugnante. Si sente quasi felice – una felicità così fragile ed effimera che potrebbe bastare un soffio a mandarla in frantumi, e probabilmente per sempre. Ma non importa adesso.
Non adesso che sente il corpo di Maurizio caldo sotto la sua mano fredda e intorpidita.
Rimangono così per tanto tempo, senza parlare, senza muoversi, finché Marcella di nuovo non scivola nel sonno. Prima di addormentarsi, può immaginare ancora una luce che viene spenta, una porta che viene lasciata socchiusa.
E’ a casa.

giovedì 9 giugno 2011

MARCELLA - cap. 2

2.
Ignora il tassista che sta parlando delle prossime elezioni con lo speaker alla radio, mentre mentalmente continua a sistemare i dettagli della storia che sta per raccontare a Maurizio. La class action, la memoria, troppi caffè e la stanchezza: una verosimile sequenza di cliché non più banali dello scoparsi il proprio capo, non più banali dell’ingannare suo marito con la scusa di una riunione di lavoro improvvisa. Luca la voleva quella sera stessa, e non poteva nascondersi dietro il solito aperitivo del martedì sera con Ilenia.
Ora non le importa se il tassista la sta guardando attraverso lo specchietto retrovisore mentre cerca di sistemarsi il trucco – la corsa durerà almeno venti minuti, c’è tutto il tempo del mondo per cercare di ricomporre il viso in una maschera sfatta dalla stanchezza. Il più è non ricominciare a piangere. Il più è non pensare a Luca. Il più è non pensare a Maurizio. Il più è non pensare a Nicolò e Manuele.
Sistema il vestito nervosamente, ma sa che non è sgualcito – il serpente si è sfilato dalla propria pelle prima di offrirsi sul tavolo. E’ quasi perfetta. Una quasi perfetta puttana traditrice. Così si sente adesso Marcella mentre ripone il rossetto nella borsa e si schiarisce la gola sommessamente, mentre la radio parla di proiezioni e di sondaggi.
Mentre guarda fuori vede il suo riflesso sul vetro aleggiare contro i pilastri della sopraelevata, Marcella si chiede se abbia fatto la cosa giusta. Se debba lasciare anche il lavoro. Una scusa, una delle tante. Per allontanarsi da Luca, per finirla una volta per sempre.
Si tormenta una pellicina all’attaccatura dell’unghia del pollice mentre la tensione lascia il posto al sonno.
Ha sonno, Marcella. Ha sempre reagito allo stress chiudendosi in un sonno solo raramente ristoratore. E se potesse ora si metterebbe a dormire lì, accoccolata sul sedile posteriore di quel taxi, cullata dalla voce dello speaker e avvolta dallo sguardo invadente del tassista. Sbadiglia, infatti, e sbadiglia ancora sputacchiando uno “Scusi” mentre paga il taxi e si avvia verso casa.
Un altro cancelletto, un altro vialetto in porfidi autobloccanti resi lucidi dall’acqua dell’impianto di irrigazione, un altro androne, un altro ascensore, un’altra porta.
Infila le chiavi nella toppa, appena più rumorosamente di quando, vent’anni prima, tornava a casa di nascosto e scalza a ore ben più tarde e cercava di non farsi beccare dai suoi genitori. Ma i suoi genitori dormivano sempre, e per lei era facile a colazione anticipare l’ora del rientro dalle tre a mezzanotte.
Maurizio invece non dorme mai, in genere la aspetta sul divano, e l’accoglie con un sorriso – a volte tirato, ma pur sempre un sorriso.
Mentre spinge la porta davanti a sé inspira profondamente e si prepara ad andare in scena per l’ennesima volta.
Buio.
Di solito la luce azzurrina del televisore illuminava quel tratto di corridoio, ma stasera Marcella si trova al buio. Allunga la sinistra a cercare l’interruttore, e dopo un paio di tentativi la luce si accende e lei si trova a fissare il corridoio bianco, i quadri di arte moderna che piacciono tanto a Maurizio e che a lei hanno sempre fatto pietà le comunicano che è di nuovo a casa. Si sfila le scarpe e, a piedi nudi raggiunge il salotto. Nessuno. Maurizio non è lì, e sul divano non si è seduto nessuno da quella mattina. Maurizio non è ordinato. Maurizio non sistema mai il copridivano dopo essersi alzato.
La bocca di Marcella è improvvisamente secca come quando si accorge di aver fumato troppe sigarette. Le sembra che la lingua si stia rattrappendo.
Calma, Marci. Corre nella stanza da letto e il letto è vuoto, il copriletto in perfetto ordine e i cuscini sono appoggiati contro la testiera come li ha lasciati quella mattina prima di andarsene in ufficio.
Cristo Cristo Cristo. Esce nel corridoio e spalanca la porta della camera dei bambini e si rende conto che non ha ancora posato la borsa e quando lo realizza la lascia cadere con un tonfo sul pavimento e chissenefrega se i piedini rovineranno il parquet. Accende la luce e Manuele e Nicolò non sono nel loro letto. Il letto è in ordine, i peluche sono stati sistemati frontali rispetto alla porta, i loro occhi di plastica neri la fissano, giudicanti.
Sulla riproduzione in plastica verde di un banco di scuola, in mezzo ai pastelli a cera in vari stadi di consunzione c’è un foglio bianco, ripiegato.
Marcella lo prende e vede macchie nere che cominciano a cingere il suo campo visivo. Trema mentre apre il foglio e legge.
Stampatello, inchiostro blu.




Manu e Nico sono da mia madre stasera
Decidi per il tuo meglio
Non chiamarmi
Non aspettarmi
Sono fuori
Mau




Marcella rilegge le frasi sempre più brevi almeno una dozzina di volte prima di accasciarsi sulle ginocchia. Una bambola gettata a terra. Piange di nuovo, adesso, e senza trattenersi. Urla, e picchia i pugni, i palmi contro il pavimento. Si rialza di scatto, prende la borsa e comincia a chiamare Maurizio ma, prevedibilmente, Maurizio non risponde. Lo richiama. L’utente potrebbe avere il cellulare spento o non raggiungibile. La suocera. Cristo, che casino. Sta componendo il numero ma prima di arrivare alle ultime due cifre rinuncia. Riprova con Maurizio. L’utente potrebbe avere il cellulare spento o non raggiungibile. Esce dalla stanza dei bambini e poi torna indietro, raccoglie il foglio e lo rilegge, lo butta sul letto di Manu e poi si ferma in corridoio e fissa la parete, restituendo lo sguardo obliquo di una Monna Lisa cubista comprata in una bottega sui Navigli il primo anno di nozze.
Marcella si stringe le braccia intorno al corpo e incassa la testa tra le spalle, il cellulare chiuso nella morsa della mano sinistra.
Luca. Assurdamente, compone il numero di Luca e lascia squillare il telefono una, due, tre, quattro volte – poi riaggancia.
Cosa può fare Luca? Cosa può dirti Luca? Brutta stronza deficiente tuo marito se ne va porta via i bambini e tu chiami Luca sei una cretina ti meriti quello che ti è successo perché te lo sei voluto te lo sei cercato e hai fatto la cazzata sapevi che sarebbe successo lo sapevi lo sapevi lo sapevi lo dovevi sapere non sei più una bambina cazzo
Marcella si accascia di nuovo, in ginocchio, nel corridoio. Rimane lì così, raggomitolata e con le mani strette in grembo, la faccia contro il marmo mentre le lacrime si asciugano e la pelle diventa fredda e il suo respiro lentamente si calma.
Marcella vuole rimanere lì per sempre, non vuole decidere cosa fare, non vuole sopportare le conseguenze di quello che ha fatto – le basta rimanere lì, e respirare, e poi chiudere gli occhi, e respirare ancora, sempre più lentamente, mentre la luce sparisce e si addormenta.
Da bambina Marcella amava addormentarsi fuori dal suo letto. Addirittura le piaceva fingere di essersi addormentata sul divano, tra i suoi genitori, mentre le immagini del film lampeggiavano appena oltre le palpebre chiuse. Fingeva di dormire perché sapeva che quando i titoli di coda avessero iniziato a scorrere sullo schermo nero avrebbe sentito i suoi genitori alzarsi lentamente ai suoi fianchi, e avrebbe sentito suo padre passarle delicatamente le braccia robuste intorno al corpo, una dietro le spalle e una sotto le ginocchia, e sollevarla dolcemente.
Poi suo padre l’avrebbe portata nella sua cameretta mentre la madre le preparava il letto. L’avrebbe distesa e lei avrebbe sempre continuato a fingere di dormire mentre suo padre le rimboccava le coperte. Due baci sulla fronte, più umido quello di sua madre, più ruvido e odoroso di tabacco quello di suo padre, e poi li avrebbe sentiti allontanarsi dal letto, spegnere la luce e socchiudere la porta.
E allora Marcella avrebbe potuto dormire davvero.
Ma adesso Marcella è crollata lì, nel corridoio, e sta prendendo freddo ma non le importa perché sta già scivolando nella sua tipica colpevolizzante incoscienza, e non vuole pensare più a niente – non a Maurizio, che non c’è, non ai bambini, non a Luca. Nemmeno a se stessa. Si lascia cullare nel sonno dalla sensazione di freddo, e si chiede quanto ci vorrà prima che tutto finisca e tutto ritorni come prima, prima di Luca. Luca. Luca. Luca.

mercoledì 8 giugno 2011

MARCELLA - cap. 1

1.
Quando si guarda allo specchio, Marcella si ritrova a fissare un volto dall’espressione rabbiosa in cui spiccano gli occhi neri e lucidi per il pianto.
Non doveva andare così quella sera.
Si passa una mano tra i capelli scarmigliati, chiude gli occhi e sente tintinnare i braccialetti al polso destro mentre osserva il suo seno alzarsi ed abbassarsi accompagnando il respiro ad un ritmo che non le piace, che non le appartiene.
Inutilmente cerca di trattenere le ultime lacrime, mentre rivoli del mascara che non è colato durante l’amplesso ricominciano a rigarle le guance.
Sente il suo sudore, sente il vago aroma di patchouli che aleggia nel bagno, sente l’odore del fumo della sigaretta di Luca che filtra da sotto la porta – o forse se lo immagina soltanto, ma sa che lui sta fumando, mentre guarda fuori dalla finestra aspettando che lei se ne vada.
Bastardo.
Marcella si sciacqua la faccia e asciuga il viso, cercando di non pensare che ha ancora il sapore di Luca in bocca, l’odore di Luca addosso, e che fra pochi minuti uscirà da casa sua forse per l’ultima volta.
L’ultima volta. Così gli aveva detto Marcella, dopo le frasi urlate al cellulare mentre cercava un taxi in via Moscova. Dopo che Luca ha detto che era stufo di lei. Dopo che le ha detto che non voleva vederla più. Fammi venire per l’ultima volta, gli aveva detto Marcella.
Insieme al fumo da oltre la porta comincia ad arrivare anche una musica. Ecco. Appoggia la fronte contro lo specchio e chiude gli occhi fino a quando venature rosse e danzanti non compaiono nel buio dentro la sua testa. Stringe i denti e li sente quasi scricchiolare, avverte la tensione spasmodica dei muscoli che avvolgono la mandibola, le sembra di vedere gli occhi strizzati in una nuova esplosione di rughe mentre prova ancora a ricacciare indietro le lacrime. Ancora, ancora.
Sta stringendo le mani intorno al bordo del lavandino, e se potesse vederle saprebbe che le sue nocche ora sono bianche.
Respira profondamente, e pian piano distende i muscoli del viso. Indossa la maschera da fine della serata, ma stavolta non riesce a farla calzare come al solito.
Ricomponiti, Marci. Ricomponiti.
Respira ancora, mentre Marvin Gaye continua a cantare di un qualche tipo di Sexual Healing. Marcella pensa che sia ironico, perché quello che di sessuale ha la relazione con Luca (ossia, più precisamente, la relazione con Luca) non è affatto terapeutico, anzi. Marcella si vede magra, invecchiata, orrendamente patetica tra le sbavature di un trucco che sta cercando inutilmente di sistemare.
Bravo, Luca. Continua a giocare con me.
Apre la porta del bagno ed entra in salotto, dove in effetti Luca sta fumando di fronte alla finestra aperta. La stanza è buia e le uniche luci sono quella del display dello stereo e, di fronte a loro, quelle delle gru di City Life.
Pulsano nel buio, proprio come quella cosa che le sta scoppiando in gola e la costringe a respiri spezzati e febbrili.
Com’è stereotipato, Luca. Nudo ad eccezione dei jeans che contempla il panorama della città di notte.
Luca ama queste immagini da film di second’ordine. E’ rimasto fermo al mito di Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo.
Luca ama recitare. Ama recitare perché il suo vero se stesso è talmente infimo ed inutile che viene da chiedersi come possa essere diventato capo dell’ufficio legale di una grossa banca.
Luca sarebbe stato un grande attore. E forse lo è, perché altrimenti non avrebbe convinto Marcella a rischiare la sua famiglia per stare con lui. Per farsi scopare da lui. Anche quell’ultima volta.
Luca l’ha presa in giro fin dall’inizio. Le diceva sei mia, ma non come lo dice un uomo innamorato. Le diceva sei mia perché pensava che Marcella fosse quello – un oggetto di cui disporre quando voleva e per quanto voleva. Non oltre il tempo strettamente necessario.
“Sei pronta?”, chiede Luca voltandosi appena a guardarla con la coda dell’occhio.
Marcella non risponde e si muove verso di lui mentre la canzone sfuma. Luca si sposta silenziosamente e spegne la sigaretta nel portacenere di alabastro al centro del tavolo, tra le riviste di nautica che hanno perso il loro ordine perfetto, maniacale, quando Luca ha cominciato a prenderla lì, all’inizio della serata.
“Sono pronta”, risponde Marcella senza la minima sfumatura nella voce. Avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa. Avrebbe potuto dirgli “addio” in quel momento, ma Marcella è abituata ad essere l’eco delle parole di Luca. Specie quando si trovano a casa sua.
In ufficio no. I dipendenti sono incoraggiati a mostrare la loro individualità, a proporre alternative che mettono in discussione gli schemi abituali, a pensare out of the box. E luca apprezza i pensatori indipendenti – in ufficio. Forse ha notato Marcella per quello. O forse ha visto le sue gambe. Ha belle gambe, Marcella. Da ragazza non lo credeva, non lo sapeva – o fingeva di non saperlo: Marcella ha sempre finto, specialmente con se stessa. Ma adesso sa che ha belle gambe, e lunghe, e lisce, e sa che Luca ama sentirle serrate intorno al suo bacino, ama guardarle, ama sfiorarle con le mani. E a Marcella piace che Luca faccia così.
“Non monterei un caso, Marci”, dice Luca. Le sembra di vedere perfettamente la sua espressione, anche al buio. Ha un finto mezzo sorriso che non arriva minimamente a sfiorargli gli occhi. “Ti ho solo detto che non ti avrei riaccompagnato a casa stasera”.
Marcella sposta il peso del corpo da un piede all’altro e scuote la testa.
“Mi hai detto che mi davi i soldi per un taxi”, dice. Si accorge che sta sibilando la replica. Odia quel tono. “Come se fossi una puttana”.
E mi hai detto che non ne volevi più sapere di me, che dovevamo smetterla, e solo dopo che mi hai scopata ancora mi hai detto ‘ci rivediamo martedì’.
Luca sbuffa e si stringe nelle spalle. “Questo lo stai dicendo tu, non io”.
“Io lo dico ma tu mi ci fai sentire”, replica Marcella. Ha le dita serrate come artigli, e sente che la voce si sta incrinando. Cristo non piangere di nuovo. “Solo perché non sono un pezzo grosso del tuo ufficio di merda non significa che non possa pagarmi il taxi, cazzo”. Si rende conto che quello che dice è completamente insensato rispetto alla loro situazione ma in questo momento Marcella non riesce ad essere lucida.
Non quando pensa che venti minuti prima stava scopando con l’uomo che la sa manipolare come nessuno è mai riuscito a fare in trentacinque anni; non quando pensa che l’uomo che conosce meglio di chiunque altro ogni più recondito meccanismo della sua mente è anche quello più disinteressato a tutto quello che lei davvero è, a quello che lei veramente vuole; non quando pensa che durante il ritorno dovrà nuovamente inventare una storia di quelle che ha scoperto di essere sufficientemente brava da raccontare periodicamente a Maurizio. Una di quelle storie che giustificano rientri a tarda ora e i suoi laconici “solo voglia di una doccia e di dormire”.
“Ti ricordo che so perfettamente quanto guadagni”, ironizza Luca. “Non vuoi che ti paghi il taxi, ok. Non è un problema. La prossima volta…”
“Non so se ci sarà una prossima volta, Luca”. Le parole le escono così, e ancora una volta Marcella sente il proprio tono incolore. Quelle parole sono un miasma che si confonde con il fumo rimasto nella stanza. “Non so se voglio… Se posso andare avanti così”.
Luca appare dubitativo, ma solo per un istante. Si stringe di nuovo nelle spalle. “Sei tu che hai voluto venire qui stasera. Io avevo chiuso prima. Al telefono”.
Luca si infila le mani in tasca, la fronteggia. Ha un fare beffardo, sbruffone. Il suo solito modo di fare. “Sei tu che hai voluto tornare qui, stasera. Come vuoi tu. La chiudiamo qui allora. Da domani, di nuovo colleghi e basta”. Si avvicina allo stereo e preme un tasto. La musica si arresta, e Luca torna a fissare la crescita cancerosa di City Life. Aspetta che se ne vada. Come se fosse uno dei tanti cingalesi che vendono rose fuori dai locali.
La sua indifferenza la colpisce con un dolore sordo dentro, come quello del suo ciclo problematico. “Colleghi e basta”, ripete quasi senza sentirsi. Ancora una volta, è l’eco delle parole di Luca.
“A domani”, dice Luca.
Si domanda se Luca può vedere il suo riflesso emergere dalla parte più buia e avventarsi verso di lui prima di colpirlo la prima volta sulle spalle ancora leggermente sudate. Altri piccoli colpi seguono il primo, altri piccoli pugni mentre Luca si gira e le afferra entrambi i polsi. Luca non sorride. Luca non ha espressione.
I braccialetti mordono la carne sotto la pressione delle dita di Luca, probabilmente lasceranno un segno. Qualcos’altro da giustificare, ma adesso Marcella non ci pensa, perché lo sta insultando, gli dice che è un bastardo e un pezzo di merda e che non vuole vederlo mai più e che lo ammazza e poi Marcella piange di nuovo e mentre Luca non si muove di un millimetro lei rinuncia ad ogni sforzo e cerca di appoggiargli la testa sul petto. Luca si ritrae, le sue braccia piegate impediscono di accorciare la distanza tra loro.
Sta ansimando. Di nuovo quel ritmo, quella pulsazione così detestabile.
Infine, quando capisce che lei si è calmata, Luca distende lentamente le braccia, e lei è leggera come una bambola quando lui la allontana da sé. Leggera come una bambola. Ha la volontà di una bambola. Il viso inespressivo e striato di mascara e i capelli scomposti di una bambola gettata nell’angolo di una qualche discarica.
“Adesso ti dai una calmata e te ne vai, e domani in ufficio sarà tutto come prima”, dice Luca. Il suo tono è calmo, determinato. Il tono che utilizza nelle riunioni in ufficio, nei meeting con i clienti, nei colloqui con i superiori e coi collaboratori. Il tipo di tono che non ammette repliche, che non mostra la minima esitazione, il minimo ripensamento. “Capito?”. Sputa l’ultima parola.
Marcella annuisce, e Luca allarga le dita e le libera gli avambracci. Forse è solo una sua impressione, ma a Marcella pare anche che Luca si sia ritratto impercettibilmente, come se provasse ribrezzo nell’avere un qualsiasi tipo di contatto fisico con lei – adesso.
Sente ancora la voce di Luca, sta dicendo qualcosa a proposito del saper gestire quella situazione e Marcella coglie il significato senza distinguere le parole. Perché adesso è Luca ad essere l’eco di quelle parole che lei riserva a se stessa, mentre fa la doccia, mentre si addormenta, mentre è a letto con Maurizio e cerca di non fargli capire che non sta pensando a lui, mentre accarezza la fronte di Nicolò e Manuele al mattino, durante la colazione.
Non sai gestire questa situazione Marcella non sei in grado non sei mai stata in grado ti è piaciuta ti ha intrigato vuoi credere sia stato un gioco ma comunque l’hai giocato fino in fondo adesso ti chiami fuori perché non sai gestirlo non sei mai stata in grado non sai comportarti e non credere che sia colpa mia se a trentacinque anni ti infili in questi casini nel letto di un altro e adesso torna pure da quel cornuto di tuo marito torna da lui tanto non sa niente non saprà mai niente ma tu lo sai vero che lo sai Marcella oh sì lo sai bene l’hai sempre saputo
Luca è fermo, davanti a lei. Restituisce uno sguardo fisso e acuminato come un punteruolo al suo, vagamente catatonico.
Marcella gli volta le spalle, un po’ incerta sui tacchi come dopo certe sbornie quando era giovane, e si muove verso la porta. Incede ad un ritmo incostante, come se avesse un tacco rotto, ma in realtà sta solo pregando che le ginocchia non le cedano prima di essere sul pianerottolo.
Ha avuto esattamente quello per cui era andata da Luca, dopotutto.
Ha avuto Luca. Luca ha avuto lei. Era quello che voleva – chi? Marcella, Marcella lo ha voluto. Poteva tirarsi indietro quando Luca le stava offrendo una via d’uscita onorevole, come fa sempre ai suoi avversari in giudizio. Ma Marcella non ha resistito.
Ha voluto andare da lui, perché voleva sentirsi viva un’altra volta. Perché voleva sentirsi sporca un’altra volta.
Chiama l’ascensore e mentre scende dall’attico di Luca verso il livello della strada pensa che in fondo non merita altro che quello. Che non può avere altro che quello.
Non è vero, hai Maurizio. Maurizio non è così. Non è come Luca.
Le porte si aprono con uno sbuffo sommesso, e l’atrio del palazzo è vuoto. Oltre una stretta lingua di mattonelle autobloccanti sulle quali Marcella inciamperà, il cancello è aperto.
Marcella sente il ticchettio dei tacchi sul porfido, e riflette che per quello è stata lì. Perché Luca non è come Maurizio. Respira, l’aria è fresca. Sul marciapiede di quella via interna si ferma per un istante, mentre comincia a frugare nella borsa. Estrae con violenza il cellulare dal groviglio di chiavi, trucco, agendina, un libro gualcito. Sente qualcosa che cade tra i suoi piedi, ma decide che non le interessa.
Mentre accende il cellulare, quasi si augura che cominci a ronzare (Marcella tiene sempre il cellulare in modalità vibrazione) e che segnali una o due chiamate, magari da parte di Maurizio.
Ma non ci sono chiamate, e sul display si vede solo 23:13. Nessun messaggio, campo pieno, batteria al 90%.
Chiama il taxi, e riappende non appena la voce metallica recita Napoli 94 in sei minuti.
Sei minuti.
Una sigaretta. Fruga ancora, estrae il pacchetto di Gold e le dita sottili e pallide, nervose incespicano sulla rotella dell’accendino, una volta, due volte, tre volte. E’ agitata, e sente l’odore di un capello strinato che si mischia insieme a quello un po’ più acre della sigaretta. Fa uscire il fumo dalle narici di quel naso lungo e affilato sul quale Luca faceva scorrere le sue dita mentre i loro respiri rallentavano dopo l’orgasmo.
Abbiamo lavorato alla memoria difensiva per la class action, si ripete Marcella e si rende conto che sta annuendo. E’ un casino, rischiamo di avere una causa per milioni di euro. Da non dormirci la notte. Annuisce ancora. Luca è preoccupato e ci mette sotto pressione. Non sa gestire la tensione, quello stronzo. E vuole vistare ogni virgola. Non ho neanche mangiato, ma non ho fame, tesoro.
Si fa schifo, Marcella. Non ho fame tesoro. Quelle parole in bocca sanno di carne avariata. Avariata come lei, che butta la sigaretta a due tiri dal filtro e ne accende un’altra e intanto spera che non arrivi ancora quel cazzo di taxi. Guarda l’ora sul cellulare. Ancora due minuti, ma tanto i taxi non sono mai puntuali. Inspira. Espira.
Rimane lì ad aspettare di vedere lampeggiare i fari del taxi contro il muro della casa di fronte, e si domanda se Luca non sia uscito dal terrazzo e non stia guardando giù, verso di lei. Non sente il suo sguardo addosso. Vorrebbe sentirlo ma sa che lui non la sta osservando. Starà già facendo la doccia, o starà ascoltando la sua musica, o starà bevendo, o fumando – ma di sicuro non è sul terrazzo.
Getta la sigaretta ed entra nel taxi.

MARCELLA

A volta capita di conoscere da anni una persona, di lavorarci più o meno assiduamente, di salutarla con simpatia, di chiacchierare al caffè, di linkarla nei social network. A volte capita di scoprire tra una chiacchiera ed un’altra che c’è una passione in comune, ma ti senti indiscreto ad entrare per guardare quella passione più da vicino, così ti fermi appena fuori dalla porta socchiusa e la spii o, forse, ti limiti solo ad osservarla e seguirla con curiosità.


Poi all’improvviso la porta si spalanca. Basta un cenno d’intesa, una parola di stima e scopri che quella passione è uguale alla tua, che essa è coltivata con lo stesso amore e con la stessa soddisfazione. Ti sembra di aver scoperto un quadrifoglio in un prato enorme e non puoi tenerlo tutto per te.


Benvenuto nella tribù delle Penne Libere, Gomez!