2.
Ignora il tassista che sta parlando delle prossime elezioni con lo speaker alla radio, mentre mentalmente continua a sistemare i dettagli della storia che sta per raccontare a Maurizio. La class action, la memoria, troppi caffè e la stanchezza: una verosimile sequenza di cliché non più banali dello scoparsi il proprio capo, non più banali dell’ingannare suo marito con la scusa di una riunione di lavoro improvvisa. Luca la voleva quella sera stessa, e non poteva nascondersi dietro il solito aperitivo del martedì sera con Ilenia.
Ora non le importa se il tassista la sta guardando attraverso lo specchietto retrovisore mentre cerca di sistemarsi il trucco – la corsa durerà almeno venti minuti, c’è tutto il tempo del mondo per cercare di ricomporre il viso in una maschera sfatta dalla stanchezza. Il più è non ricominciare a piangere. Il più è non pensare a Luca. Il più è non pensare a Maurizio. Il più è non pensare a Nicolò e Manuele.
Sistema il vestito nervosamente, ma sa che non è sgualcito – il serpente si è sfilato dalla propria pelle prima di offrirsi sul tavolo. E’ quasi perfetta. Una quasi perfetta puttana traditrice. Così si sente adesso Marcella mentre ripone il rossetto nella borsa e si schiarisce la gola sommessamente, mentre la radio parla di proiezioni e di sondaggi.
Mentre guarda fuori vede il suo riflesso sul vetro aleggiare contro i pilastri della sopraelevata, Marcella si chiede se abbia fatto la cosa giusta. Se debba lasciare anche il lavoro. Una scusa, una delle tante. Per allontanarsi da Luca, per finirla una volta per sempre.
Si tormenta una pellicina all’attaccatura dell’unghia del pollice mentre la tensione lascia il posto al sonno.
Ha sonno, Marcella. Ha sempre reagito allo stress chiudendosi in un sonno solo raramente ristoratore. E se potesse ora si metterebbe a dormire lì, accoccolata sul sedile posteriore di quel taxi, cullata dalla voce dello speaker e avvolta dallo sguardo invadente del tassista. Sbadiglia, infatti, e sbadiglia ancora sputacchiando uno “Scusi” mentre paga il taxi e si avvia verso casa.
Un altro cancelletto, un altro vialetto in porfidi autobloccanti resi lucidi dall’acqua dell’impianto di irrigazione, un altro androne, un altro ascensore, un’altra porta.
Infila le chiavi nella toppa, appena più rumorosamente di quando, vent’anni prima, tornava a casa di nascosto e scalza a ore ben più tarde e cercava di non farsi beccare dai suoi genitori. Ma i suoi genitori dormivano sempre, e per lei era facile a colazione anticipare l’ora del rientro dalle tre a mezzanotte.
Maurizio invece non dorme mai, in genere la aspetta sul divano, e l’accoglie con un sorriso – a volte tirato, ma pur sempre un sorriso.
Mentre spinge la porta davanti a sé inspira profondamente e si prepara ad andare in scena per l’ennesima volta.
Buio.
Di solito la luce azzurrina del televisore illuminava quel tratto di corridoio, ma stasera Marcella si trova al buio. Allunga la sinistra a cercare l’interruttore, e dopo un paio di tentativi la luce si accende e lei si trova a fissare il corridoio bianco, i quadri di arte moderna che piacciono tanto a Maurizio e che a lei hanno sempre fatto pietà le comunicano che è di nuovo a casa. Si sfila le scarpe e, a piedi nudi raggiunge il salotto. Nessuno. Maurizio non è lì, e sul divano non si è seduto nessuno da quella mattina. Maurizio non è ordinato. Maurizio non sistema mai il copridivano dopo essersi alzato.
La bocca di Marcella è improvvisamente secca come quando si accorge di aver fumato troppe sigarette. Le sembra che la lingua si stia rattrappendo.
Calma, Marci. Corre nella stanza da letto e il letto è vuoto, il copriletto in perfetto ordine e i cuscini sono appoggiati contro la testiera come li ha lasciati quella mattina prima di andarsene in ufficio.
Cristo Cristo Cristo. Esce nel corridoio e spalanca la porta della camera dei bambini e si rende conto che non ha ancora posato la borsa e quando lo realizza la lascia cadere con un tonfo sul pavimento e chissenefrega se i piedini rovineranno il parquet. Accende la luce e Manuele e Nicolò non sono nel loro letto. Il letto è in ordine, i peluche sono stati sistemati frontali rispetto alla porta, i loro occhi di plastica neri la fissano, giudicanti.
Sulla riproduzione in plastica verde di un banco di scuola, in mezzo ai pastelli a cera in vari stadi di consunzione c’è un foglio bianco, ripiegato.
Marcella lo prende e vede macchie nere che cominciano a cingere il suo campo visivo. Trema mentre apre il foglio e legge.
Stampatello, inchiostro blu.
Ignora il tassista che sta parlando delle prossime elezioni con lo speaker alla radio, mentre mentalmente continua a sistemare i dettagli della storia che sta per raccontare a Maurizio. La class action, la memoria, troppi caffè e la stanchezza: una verosimile sequenza di cliché non più banali dello scoparsi il proprio capo, non più banali dell’ingannare suo marito con la scusa di una riunione di lavoro improvvisa. Luca la voleva quella sera stessa, e non poteva nascondersi dietro il solito aperitivo del martedì sera con Ilenia.
Ora non le importa se il tassista la sta guardando attraverso lo specchietto retrovisore mentre cerca di sistemarsi il trucco – la corsa durerà almeno venti minuti, c’è tutto il tempo del mondo per cercare di ricomporre il viso in una maschera sfatta dalla stanchezza. Il più è non ricominciare a piangere. Il più è non pensare a Luca. Il più è non pensare a Maurizio. Il più è non pensare a Nicolò e Manuele.
Sistema il vestito nervosamente, ma sa che non è sgualcito – il serpente si è sfilato dalla propria pelle prima di offrirsi sul tavolo. E’ quasi perfetta. Una quasi perfetta puttana traditrice. Così si sente adesso Marcella mentre ripone il rossetto nella borsa e si schiarisce la gola sommessamente, mentre la radio parla di proiezioni e di sondaggi.
Mentre guarda fuori vede il suo riflesso sul vetro aleggiare contro i pilastri della sopraelevata, Marcella si chiede se abbia fatto la cosa giusta. Se debba lasciare anche il lavoro. Una scusa, una delle tante. Per allontanarsi da Luca, per finirla una volta per sempre.
Si tormenta una pellicina all’attaccatura dell’unghia del pollice mentre la tensione lascia il posto al sonno.
Ha sonno, Marcella. Ha sempre reagito allo stress chiudendosi in un sonno solo raramente ristoratore. E se potesse ora si metterebbe a dormire lì, accoccolata sul sedile posteriore di quel taxi, cullata dalla voce dello speaker e avvolta dallo sguardo invadente del tassista. Sbadiglia, infatti, e sbadiglia ancora sputacchiando uno “Scusi” mentre paga il taxi e si avvia verso casa.
Un altro cancelletto, un altro vialetto in porfidi autobloccanti resi lucidi dall’acqua dell’impianto di irrigazione, un altro androne, un altro ascensore, un’altra porta.
Infila le chiavi nella toppa, appena più rumorosamente di quando, vent’anni prima, tornava a casa di nascosto e scalza a ore ben più tarde e cercava di non farsi beccare dai suoi genitori. Ma i suoi genitori dormivano sempre, e per lei era facile a colazione anticipare l’ora del rientro dalle tre a mezzanotte.
Maurizio invece non dorme mai, in genere la aspetta sul divano, e l’accoglie con un sorriso – a volte tirato, ma pur sempre un sorriso.
Mentre spinge la porta davanti a sé inspira profondamente e si prepara ad andare in scena per l’ennesima volta.
Buio.
Di solito la luce azzurrina del televisore illuminava quel tratto di corridoio, ma stasera Marcella si trova al buio. Allunga la sinistra a cercare l’interruttore, e dopo un paio di tentativi la luce si accende e lei si trova a fissare il corridoio bianco, i quadri di arte moderna che piacciono tanto a Maurizio e che a lei hanno sempre fatto pietà le comunicano che è di nuovo a casa. Si sfila le scarpe e, a piedi nudi raggiunge il salotto. Nessuno. Maurizio non è lì, e sul divano non si è seduto nessuno da quella mattina. Maurizio non è ordinato. Maurizio non sistema mai il copridivano dopo essersi alzato.
La bocca di Marcella è improvvisamente secca come quando si accorge di aver fumato troppe sigarette. Le sembra che la lingua si stia rattrappendo.
Calma, Marci. Corre nella stanza da letto e il letto è vuoto, il copriletto in perfetto ordine e i cuscini sono appoggiati contro la testiera come li ha lasciati quella mattina prima di andarsene in ufficio.
Cristo Cristo Cristo. Esce nel corridoio e spalanca la porta della camera dei bambini e si rende conto che non ha ancora posato la borsa e quando lo realizza la lascia cadere con un tonfo sul pavimento e chissenefrega se i piedini rovineranno il parquet. Accende la luce e Manuele e Nicolò non sono nel loro letto. Il letto è in ordine, i peluche sono stati sistemati frontali rispetto alla porta, i loro occhi di plastica neri la fissano, giudicanti.
Sulla riproduzione in plastica verde di un banco di scuola, in mezzo ai pastelli a cera in vari stadi di consunzione c’è un foglio bianco, ripiegato.
Marcella lo prende e vede macchie nere che cominciano a cingere il suo campo visivo. Trema mentre apre il foglio e legge.
Stampatello, inchiostro blu.
Manu e Nico sono da mia madre stasera
Decidi per il tuo meglio
Non chiamarmi
Non aspettarmi
Sono fuori
Mau
Marcella rilegge le frasi sempre più brevi almeno una dozzina di volte prima di accasciarsi sulle ginocchia. Una bambola gettata a terra. Piange di nuovo, adesso, e senza trattenersi. Urla, e picchia i pugni, i palmi contro il pavimento. Si rialza di scatto, prende la borsa e comincia a chiamare Maurizio ma, prevedibilmente, Maurizio non risponde. Lo richiama. L’utente potrebbe avere il cellulare spento o non raggiungibile. La suocera. Cristo, che casino. Sta componendo il numero ma prima di arrivare alle ultime due cifre rinuncia. Riprova con Maurizio. L’utente potrebbe avere il cellulare spento o non raggiungibile. Esce dalla stanza dei bambini e poi torna indietro, raccoglie il foglio e lo rilegge, lo butta sul letto di Manu e poi si ferma in corridoio e fissa la parete, restituendo lo sguardo obliquo di una Monna Lisa cubista comprata in una bottega sui Navigli il primo anno di nozze.
Marcella si stringe le braccia intorno al corpo e incassa la testa tra le spalle, il cellulare chiuso nella morsa della mano sinistra.
Luca. Assurdamente, compone il numero di Luca e lascia squillare il telefono una, due, tre, quattro volte – poi riaggancia.
Cosa può fare Luca? Cosa può dirti Luca? Brutta stronza deficiente tuo marito se ne va porta via i bambini e tu chiami Luca sei una cretina ti meriti quello che ti è successo perché te lo sei voluto te lo sei cercato e hai fatto la cazzata sapevi che sarebbe successo lo sapevi lo sapevi lo sapevi lo dovevi sapere non sei più una bambina cazzo
Marcella si accascia di nuovo, in ginocchio, nel corridoio. Rimane lì così, raggomitolata e con le mani strette in grembo, la faccia contro il marmo mentre le lacrime si asciugano e la pelle diventa fredda e il suo respiro lentamente si calma.
Marcella vuole rimanere lì per sempre, non vuole decidere cosa fare, non vuole sopportare le conseguenze di quello che ha fatto – le basta rimanere lì, e respirare, e poi chiudere gli occhi, e respirare ancora, sempre più lentamente, mentre la luce sparisce e si addormenta.
Da bambina Marcella amava addormentarsi fuori dal suo letto. Addirittura le piaceva fingere di essersi addormentata sul divano, tra i suoi genitori, mentre le immagini del film lampeggiavano appena oltre le palpebre chiuse. Fingeva di dormire perché sapeva che quando i titoli di coda avessero iniziato a scorrere sullo schermo nero avrebbe sentito i suoi genitori alzarsi lentamente ai suoi fianchi, e avrebbe sentito suo padre passarle delicatamente le braccia robuste intorno al corpo, una dietro le spalle e una sotto le ginocchia, e sollevarla dolcemente.
Poi suo padre l’avrebbe portata nella sua cameretta mentre la madre le preparava il letto. L’avrebbe distesa e lei avrebbe sempre continuato a fingere di dormire mentre suo padre le rimboccava le coperte. Due baci sulla fronte, più umido quello di sua madre, più ruvido e odoroso di tabacco quello di suo padre, e poi li avrebbe sentiti allontanarsi dal letto, spegnere la luce e socchiudere la porta.
E allora Marcella avrebbe potuto dormire davvero.
Ma adesso Marcella è crollata lì, nel corridoio, e sta prendendo freddo ma non le importa perché sta già scivolando nella sua tipica colpevolizzante incoscienza, e non vuole pensare più a niente – non a Maurizio, che non c’è, non ai bambini, non a Luca. Nemmeno a se stessa. Si lascia cullare nel sonno dalla sensazione di freddo, e si chiede quanto ci vorrà prima che tutto finisca e tutto ritorni come prima, prima di Luca. Luca. Luca. Luca.
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