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lunedì 9 gennaio 2012

Il cappello di paglia


Ero a Cuba, Trinidad, quella sera. Con Fabiana e Manuel. Ero un po’ giù di corda, nonostante Cuba sia il posto peggiore per essere giù di corda, visto che tutto trascina dietro l’allegria. Eravamo in una locanda sulla spiaggia, faceva caldo, quel caldo che solo una tempesta tropicale porta con sé. Avevo comprato un cappello di paglia per mio padre. Lo indossai, assecondando Fabiana e Manuel che cercavano a loro modo di tirarmi su il morale. Quando mi voltai verso Fabiana, che sedeva alla mia sinistra, Manuel mi scattò quella foto. Non so se fu perchè mi colse alla sprovvista - Manuel non era quello che può essere definito un bravo fotografo, perciò credo più al caso che alla bravura -  ma in quella foto colse l’essenza della mia anima. Fu credo per quel motivo che decisi, tempo dopo, di caricare proprio quella foto sul mio profilo di Facebook.
All’epoca non sapevo, non potevo sapere, che quella foto mi avrebbe cambiato la vita.
Vicky

***

Era una delle solite serate di merda, in cui tutto il marciume che avevo dentro veniva fuori. Rabbia, delusione, angosce, paure. Tutto mi saltava dritto nello stomaco e veniva su, ad attanagliare cuore e cervello, a mordermi dietro il collo, a prendermi per il bavero e sbattermi contro un muro. Quello che ero stato si rivoltava contro di me, mettendomi di fronte alla triste realtà della mia vita e chiedendomene il conto, da pagare con il sangue.

Sentivo talmente tanta rabbia dentro che dovevo trovare un modo per sfogarla. Afferrai la bottiglia che avevo davanti e ne trangugiai un sorso, gustando il calore dell’alcool che scendeva giù nel mio ventre, ad infiammarne le membra. Crollai sul divano, ridendo di me, di quello che ero diventato con gli anni. Da buon padre di famiglia e marito tutto sommato esemplare, mi ero trasformato nel fantasma di me stesso, vinto dalle delusioni, sprofondato nell’assoluto scetticismo verso la vita. “Che capiti quello che deve capitare. Chi se ne frega, anche se muoio”. L’avevo pensato spesso negli ultimi tempi, e soltanto il pensiero dei miei figli mi aveva trattenuto dal saltare giù da un balcone: quella sarebbe stata la vigliaccata più grande che avrei potuto fare e loro, no, loro non se la meritavano.

Bevvi ancora, con il riso che si trasformava amaro sulla mia bocca. Mi passava davanti agli occhi la mia vita, come fossi in punto di morte. Mi sembrava di avere un peso sul cuore, una melma nera che mi trascinava giù all’inferno. Mi vedevo sul pavimento imbrattato dell’odio e della rabbia che nel tempo si era cumulata in me. Sentivo sospirarmi nel cuore e nelle orecchie tutta la paura che negli anni avevo provato. Guardavo con orrore il mio corpo imputridire e nell’illusione di sollevarmi da quell’incubo, la mia bocca continuava ad attingere al fiele dell’alcool, nel cui puzzo oramai ero immerso in modo indecente.

Mi ero abbruttito. Avevo perso la speranza che le cose si potessero risollevare. Mi dicevo “Non amerai più. Non sei capace di amare. Non vivrai più una vita normale”. Non avevo nemmeno una coscienza che mi rispondesse con un filo di voce. Quella coscienza era stata sotterrata a lungo dopo che me ne ero andato di casa, l’avevo persa nei letti che avevo cavalcato, nelle porcate che avevo fatto, nel tentativo di succhiare un po’ di amore dalla vita. E con la coscienza, avevo perso anche la dignità di vivere.

L'uomo della pipa



dal Diario della Regina degli Elfi, la donna con il cappello di paglia

Era la foto di mio padre. Un padre che avevo conosciuto poco, che avevo amato per quello che era riuscito a darmi di sé e che avevo odiato per quello che si era portato nella tomba in un lontano passato che facevo fatica a ricordare. Di lui conservavo oramai solo qualche sbiadito ricordo, posto in fondo al cuore, il più in fondo possibile perchè non facesse male. Sapevo che lui era la parte felice di me, quella che pensavo fosse stata persa per sempre. In quella foto ritrovavo i suoi occhi che brillavano di felicità, il suo sorriso aperto. Una foto di altri tempi che mi ricordava Rodolfo Valentino, lui stretto dentro un accappatoio, un asciugamano tra i capelli e una pipa in bocca.

L’avevo scelta come foto del mio profilo su Facebook. Tra tante altre, era quella che contrastava di più con l’uomo che sentivo di essere, un uomo che aveva rinunciato a cercare quella stessa felicità che mio padre, da un altro tempo e da un altro spazio, sfacciatamente mi ricordava.

Gabriel.

***

Era un sabato di fine novembre. Ero stata in giro tutto il pomeriggio con alcune amiche e stavo rientrando a casa: avevamo girato come matte per tutto il giorno lungo il centro a caccia di regali. Verso sera ci eravamo presentate puntuali a O'Connell Street per il Big Switch On, la cerimonia che a Dublino segna l’inizio delle celebrazioni natalizie. Adoravo esserci ogni anno, da quando l’avevo scoperta. Era come una piccola magia nella mia vita ed ogni anno rimanevo incantata e sospesa con l’animo di una bambina che segue affascinata quei giochi di luce, le stelline che cadono dal cielo lungo i muri delle case, la faccia del pupazzo di neve che si forma pian piano in un enorme sorriso, la palla dell’albero che si schianta contro la parete della casa dove viene proiettata, le finestre che si illuminano di mille colori e i ballerini che danzano dietro di esse, accompagnati dalla musica “All I want for Christmas is you, baby”, i fuochi di artificio spiaccicati contro le pareti, i regali che piovono dall’alto  riempiendo i tre piani di casa, il fuoco che brucia nel camino e l’atmosfera di Natale che ti penetra dentro e  ti riscalda l’anima, perchè a Natale bisogna essere per forza felici.

Avevamo poi fatto tappa a Temple Bar, a sentire la Drogheda Brass Band e le sue tipiche canzoni natalizie, avevamo girato per i mercatini natalizi ed infine avevamo mangiato qualcosa in un pub della zona, per sentirci una volta tanto un po’ più Dubliners e vivere fino in fondo la città dove vivevamo.

domenica 18 settembre 2011

Mille volte amore - Eva

Il fragore del tuono irruppe nella sua stanza preceduto da un forte abbaglio che trapassò le persiane appena chiuse.


Eva era stesa sul suo letto. 

Un libro aperto per leggerne svogliatamente qualche pagina era stato riposto al suo fianco e le pungeva appena la coscia abbronzata e liscia con la punta di una pagina. Il computer portatile era aperto sulle sue ginocchia e le riscaldava leggermente la pelle. Era acceso da molte ore, fermo sempre sulla stessa pagina che di tanto refreshava, con una foto che Eva fissava oramai da ore. La bacheca blinkava ogni tanto di un nuovo messaggio e Eva correva a leggerlo, come una piccola spettatrice che spiava nascosta. Sull’altro tab del browser era aperta la sua mail : se fosse arrivato un messaggio, lei sarebbe corsa a leggerlo, sperando che fosse il “suo”. Ma erano ore che non le scriveva nessuno e le sembrava quasi normale, visto che il pomeriggio il sole aveva brillato per ore e la gente non era disposta a stare in casa, perdendosi le ultime belle giornate d’estate. Forse adesso con la pioggia che a secchiate pioveva dal cielo, una speranza in più poteva averla.

domenica 27 marzo 2011

Mille volte amore – Una scala per le nuvole

Primo Capitolo – As usual

Il campanello della porta strideva oramai nelle orecchie di Monique da cinque minuti, mentre sotto la doccia sperava che Milly si alzasse e andasse ad aprire. Un attimo di silenzio la convinse che così era stato ed invece, il tempo di infilarsi l’accappatoio e strizzarsi i lunghi capelli con un asciugamano, il campanello ricominciò insistente.

Monique aprì la finestra che affacciava sulla stradina d’ingresso alla casa per vedere chi fosse, ma indovinava che fosse Daniele, visto che quasi tutti i pomeriggi, da circa un mese, veniva regolarmente a casa per aiutare Milly in Statistica. Il sole le ferì gli occhi e le riscaldò la pelle abbronzata che non era coperta dall’accappatoio. Gli occhi azzurri brillarono al sole.

- Ciao Daniele! Sono qui, guarda su… - disse a voce alta, facendogli segno con la mano per attirare la sua attenzione

venerdì 26 novembre 2010

Mille volte amore - Angelica - Prima parte

Mi chiamo Angelica. A dispetto del mio nome, il mio aspetto ricorda tutt’altro che un angelo. Mia mamma mi dice che somiglio a Morticia degli Addams quando sono stanca ed i miei capelli mi cadono sul viso bianco e ovale, dalle occhiaie livide. Parimenti ci sono giorni che mi dice che sembro una bambola di porcellana, con i miei boccoli ribelli, i miei occhi verdi, la pelle bianca e le gote rosate. 

Io non so quale delle due sia la verità. Mi trovo carina. Mi piacciono i miei occhi e la mia bocca rosata, ma avrei preferito la pelle olivastra che si abbronza facilmente a quella da latticino che si scotta tutte le estati.

Mille volte amore - Angelica - Seconda parte


Fu così che cominciammo a parlare. O meglio: lui parlava, io lo guardavo. Era davvero bello, più di quanto avessi potuto vedere tutte le volte che lo avevo incrociato uscendo dagli spogliatoi. Nonostante gli occhi trasparenti, essi erano profondi e ti penetravano dentro l’anima. Mi perdevo nella sua bocca, mentre parlava. Scrutavo le sue labbra carnose che si muovevano, le piccole pieghe che si formavano mentre sorrideva ed i denti bianchi che apparivano all’improvviso ad abbagliarmi. Sì, era affascinante e mi stava raccontando la sua vita da mezz’ora come un confessore... faceva l’architetto e si era messo a raccontarmi della casa che stava costruendo per un ricco imprenditore di Milano. Era divertente, era bello...

Mille volte amore - Angelica - Terza ed ultima parte

Davanti a me c’era Simone, un uomo qualunque, un uomo più grande di me, sposato, con almeno una figlia e non sapevo come comportarmi.

Io non avevo mai desiderato una storia qualunque. Avevo sempre desiderato il principe... e trovarmi davanti Simone era stato bellissimo, finchè si era trattato di sognare. Avevo davanti il suo volto, mi ero lasciata affascinare e prendere dalla sua bellezza e dalla sua simpatia, mi ero persa nei suoi occhi. Eppure alla fine, all’improvviso, qualcosa stava iniziando a tingere il suo volto di colori scuri.

domenica 17 ottobre 2010

Mille volte amore: La madre

Mi chiamo Karen. Ho quarantaquattro anni, sono seduta davanti a Ellen. Ellen ha quattordici anni, ha un viso molto bello, degli occhi verde acqua ed i capelli neri come la pece, lisci e lunghi che lo incorniciano come un quadro. E’ seduta in punta alla sedia quasi come se fosse lì provvisoriamente e vorrebbe scappare, sono sicura. Indossa un pullover enorme su un corpicino piccolo che forse veste una taglia trentasei. Due gambette tremanti si intravvedono dai pantaloni elasticizzati. Me l’ha portata lì Sarah, sua madre, trent’anni vissuti male. A volte sembrano sorelle, Ellen con il suo sguardo sfuggente come quello di una vecchia che vorrebbe proteggerti dalle molte cose amare che la vita le ha riservato. Ellen che ha il ghigno un po’ scostante sul suo viso, quella smorfia irriverente di chi non crede più alle favole da un pezzo e ti chiede di non prenderla in giro. Sarah con il suo viso giovane e la personalità esuberante di chi ha la sensazione di aver perso qualcosa della sua infanzia, a causa di quell’esserino che le era cresciuto nella pancia a soli sedici anni.

venerdì 17 settembre 2010

Mille volte amore - L’ora delle streghe

Era mezzanotte. L'ora delle streghe, delle principesse che scappano perdendo la scarpetta e delle carrozze che tornano ad essere misere zucche.


Non ho mai amato le favole. Quando ero piccola mia madre me le raccontava tutte le sere, ma io tremavo davanti a quei finali felici, come se avessi dentro di me la certezza che la vita non fosse quella o quantomeno che il mio destino fosse lungi da quell'aura di felicità che circonda principe e principessa quando si baciano sullo sfondo della parola fine. È come se avessi sentito fin da piccola che quel finale non fosse riservato a me, così preferivo libri di mostri, per riempire di fantasmi la mia vita e abituarmi alla paura ed al dolore.

Era mezzanotte ma non era la notte di Halloween. Non ancora. Non c'era in giro nessun gruppo di bambini a chiedere "dolcetto o scherzetto". Non c'erano in giro nemmeno le streghe. Solo io, nella mia cinquecento azzurra appena comprata con i soldi messi da parte in anni di lavoro e quelli racimolati facendo l'animatrice in un villaggio turistico a Panarea. La guidavo con un po' di tristezza nel cuore, con gli occhi ancora pieni dell'acqua trasparente, della sabbia bianca e dei sorrisi della gente. È strano come una persona tendenzialmente cupa come me possa fare l'animatrice, sarà forse per il mio sorriso spontaneo, quello che mi ha insegnato mia madre fin da quando ero piccola, dicendomi che affrontare anche le difficoltà con il sorriso e non con il muso è sempre meglio.

martedì 14 settembre 2010

Mille volte amore - Gita al Faro

Quella mattina mi alzai prima del solito mentre tutti ancora dormivano. Aprii le persiane per uscire sulla terrazza e mi trovai di fronte allo spettacolo più bello che ricordi, o forse lo ricordo solo perchè era quel giorno lì e non un altro. La Val d'Arno risplendeva del verde dei boschi sui pendii e il cielo azzurro lo contrastava netto verso l'orizzonte.

L'aria della mattina era frizzante e solleticava la pelle facendola raggrinzire per i brividi. Rientrai attirata dal profumo del caffè che si era sparso nella cucina e sfrizzolava nel naso. Non avevo fame, ma era normale. Eppur qualcosa dovevo mettere nello stomaco, perchè non brontolasse durante il giorno davanti a tutti.

domenica 12 settembre 2010

The Lift

Prima Parte

Non importa come mi chiamo. Potrei avere un nome qualunque, banale, di quelli dei quali l’anagrafe è piena oppure uno di quei nomi strani e buffi che prendono piede quando i serial americani hanno successo. Se avessi un nome diverso sarei sempre la stessa e sarebbe sempre la stessa la storia che sto raccontando.

Abito in una metropoli di quelle che d’inverno soffrono il freddo e quando esci di casa ti cola il naso e ti lacrimano gli occhi tanto è pungente l’aria della mattina. D’estate invece soffochi dal caldo, mentre i tacchi stretti e sottili affondano e si incastrano nell’asfalto molle e un po’ di vapore da terra crea una strana atmosfera. Una di quelle città del Nord dove il cielo non è mai azzurro, se non quando il vento soffia forte e si vedono le montagna. Una città qualsiasi che non cambierebbe se avesse un nome diverso e non cambierebbe la storia, questa maledetta storia.

Non ero sposata. Non avevo figli. Ero sola a trentacinque anni e non chiedetemi perchè. Amori sbagliati, amori perduti, amori soffocati: nomi che, quelli sì, sono ancora talmente importanti che basta riecheggiarli per far sanguinare le ferite che mi porto dentro. Eppure non mi piangevo addosso: avevo il mio lavoro da una parte e dall’altra i miei amici ed i miei hobby, che difendevo strenuamente dall’invasione di colleghi che solo perchè non sei sposata e non hai figli si sentono in diritto di rifilarti lavori fino a tarda sera o durante il week-end.

The Lift

Seconda Parte

Certe fortune capitano una volta sola nella vita, direte.

No! Vi dico io. “Quella” fortuna mi capitò anche altri giorni, perché il “signore” abitava esattamente al piano di sopra del mio dal giorno prima e sembrava single, celibe, libero... capite?

Io mi chiedo adesso cosa io avessi fatto di così male in tutta la mia vita, fino ai miei trentacinque anni, per meritare una disgrazia simile. So che molte di voi staranno lanciando anatemi e vorranno inveire contro di me, ma vi posso giurare che avere un essere simile al piano superiore e incontrarlo praticamente ogni giorno non può che essere alla fine considerata una disgrazia.

Perché? Nessun problema la mattina, quando sei truccata, curata nei minimi particolari, con i vestiti stirati e in ordine e apri la porta e senti che qualcuno sta scendendo le scale: allora sei libera di girarti e sfoggiare il migliore sorriso del mondo, provare ad attaccare bottone cercando di rinfacciargli che la sera prima ha avuto ospiti e ha fatto tardi – mentre tu morivi dalla voglia di salire su e chiedere se potevi autoinvitarti alla festa. Hai certo le forze per scendere le scale con il tacco a spillo altezza dieci fingendo una disinvoltura che non è reale ed infine salutarlo con un sorriso sperando che ti chieda se sei libera la sera... Questi incontri sono davvero sporadici...

The Lift

Terza (ed ultima) Parte

Inutile dire che la mia vita cambiò. Cambiò come può cambiare la vita di un rospo dopo che è baciato dalla principessa e diventa principe anche lui. Solo che qui era il principe che aveva dato il bacio e il rospo ero io. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era successo, ma soprattutto non mi capacitavo del fatto che lui non si facesse sentire. Mi sembrava di essere tornata adolescente, ferma davanti al telefono muto, mentre lo implora di squillare e quando squilla resta delusa pronunciando le fatidiche parole “Ciao mamma... sì sto bene... tu e papà?”, perchè si sa che i genitori hanno quel sesto senso che li porta sempre a chiamare quando aspetti un’altra telefonata o quando mangi.

In queste situazioni la fantasia si scatena: sarà malato gravemente e non riuscirà ad alzarsi dal letto nemmeno per telefonarmi... sarà rimasto bloccato in ascensore... sarà andato via per lavoro... sarà... Certo, sarà un milione di cose diverse, finchè non lo vedi rientrare con una bella bionda al suo fianco, in pantaloncini bianchi, che mostra due gambe che la loro rotula arriva al tuo ombelico ed un sedere da brasiliana che ti rassicura sul fatto che Dio non è stato giusto con te.

giovedì 2 settembre 2010

Attraverso il vetro - Atto Unico

Ogni giorno verso le cinque del pomeriggio uscivo di casa per andare a fare una piccola passeggiata al parco vicino casa. Avevo settantacinque anni ed alla mia età era importante continuare a muovermi ogni giorno, perchè le ossa non mi si bloccassero addosso, magari in posizioni scomode o inopportune. Così ogni giorno, dopo un piccolo riposino, andavo in giro esplorando il mondo con la curiosità che avrebbe un bambino. Mi piaceva vedere quello che faceva la gente a quell’epoca, paragonandolo al mondo che ricordavo da bambino: scoprire che alcune cose cambiavano, come le macchine al posto delle carrozze, e scoprire che alcune cose non cambiavano affatto, come l’amore.

mercoledì 1 settembre 2010

Sul filo del rasoio - Atto unico

Camminavo ai bordi della strada mentre andavo a lavorare. Stavo per attraversare la strada che mi avrebbe portato a varcare l’enorme cancello a guardia della fabbrica dove lavoro. Sono un’ape operaia. Una di quelle formiche che ogni giorno camminano lungo lo stesso stupido percorso trascinandosi una piccola mollica di pane per portarla nel grande magazzino al quale qualcun altro attingerà quando avrà fame.

martedì 31 agosto 2010

Enigma - Prima Scena

Ho girato l’angolo e tu eri lì, dove non ti aspettavo. Elegante, in un completo grigio scuro, la cravatta annodata stretta nonostante il caldo torrido, mi hai chiesto se potevo aiutarti a cercare una persona a Milano. “Questo da dove arriva?” ho pensato guardandoti con un po’ di stupore. Nonostante la tua eleganza ed il tuo savoir faire ero incredula di fronte a tanta ingenuità. Non eri certo un ragazzino che poteva illudersi di trovare facilmente qualcuno in una grande città, in emulazione dell’ultimo film americano dove lui e lei si incontrano per caso in mezzo a milioni di persone e si chiedono “anche tu qui?”. Quarant’anni li hai tutti, un po’ di neve tra i capelli, l’eleganza ed il portamento di chi è cresciuto in un ambiente “protetto” e non ha dovuto poi sgomitare troppo per arrivare a costruirsi la propria vita.

Eppure eri davanti a me, con una mano tremante che mi offriva un lacero foglio di carta, tirato fuori dal tuo portafoglio nuovo di zecca e pieno di soldi. E su quel foglio c’erano stampate undici stupide lettere ed un accento. Avevi un nome ed un cognome e cercavi una donna. Sembrava disperatamente.

Enigma - Seconda scena

Arrivati a casa parcheggiammo la moto in garage, salimmo le scale dagli scantinati al portone e prendemmo l’ascensore per il quarto piano. L’appartamento dove vivevo mostrava chiaramente che ero sposata ed avevo dei figli, ma questo non sembrava turbare minimamente l’uomo del quale ancora non conoscevo il nome, che mi seguiva deciso ma educatamente indietro rispetto ai miei passi, all’interno della casa.

Enigma - Terza Scena

Gli sorrisi, ma dentro di me avevo paura. Avevo paura più di me che di lui. Sentivo che non mi avrebbe fatto nulla che io non avessi voluto, eppure era questo il problema. Io cosa volevo? Perchè avevo accettato di aiutarlo? Uno sconosciuto. Una persona che in altre occasioni non avrei nemmeno osato avvicinare. Ed ora era lì. A casa mia. Ed io avevo paura. Gli passai accanto ben attenta a non sfiorarlo, visto che lo spazio tra il tavolo della cucina e la parete attrezzata era ingombrato dalla sua presenza e gli dissi di seguirmi. Salimmo le scale che andavano in mansarda e mi scoprii a muovermi un po’ seducente mentre le gambe si attardavano su ogni singolo gradino. Aprii la porta dello studio e mi diressi dritta verso lo stereo, aprendo un mobiletto e tirando fuori gli Studi di Chopin Opera 10 e 25 di Vardan Mamikonian. “Vuoi fargli buona impressione?” mi chiesi sorridendo. Poi mentre le note del pianoforte iniziavano ad echeggiare nella mansarda, andai alla scrivania ed accesi il PC.

Enigma - Quarta Scena

Sebastiano scoppiò a ridere e si alzò, raggiungendomi al centro della stanza e bloccandomi con le mani strette in vita.
- Lo sapevo!
- Lo sapeva? – esclamai cercando di divincolarmi. Lui mi lasciò andare facendomi compiere una piroetta al ritmo del pianoforte di Mamikonian che suonava sospeso nell’aria.
- Sì... non poteva essere così facile.
- Sebastiano, non la capisco... vuole spiegare anche a me?

Enigma - Quinta Scena

Feci capolino con la testa nella stanza ma lui non c’era. Dove poteva essere? Sbirciai nell’altra stanza in mansarda, la camera da letto degli ospiti, e lo trovai seduto su una poltrona a guardarmi.



- E’ bella, sa, Lara?
- Io? Ma...
- Non sia modesta...
- Lasci perdere... così mi imbarazza – gli risposi avanzando e poggiando sul tavolinetto in noce vicino a lui i due bicchieri e lo champagne.