Ero
a Cuba, Trinidad, quella sera. Con Fabiana e Manuel. Ero un po’ giù di corda,
nonostante Cuba sia il posto peggiore per essere giù di corda, visto che tutto
trascina dietro l’allegria. Eravamo in una locanda sulla spiaggia, faceva caldo,
quel caldo che solo una tempesta tropicale porta con sé. Avevo comprato un
cappello di paglia per mio padre. Lo indossai, assecondando Fabiana e Manuel
che cercavano a loro modo di tirarmi su il morale. Quando mi voltai verso
Fabiana, che sedeva alla mia sinistra, Manuel mi scattò quella foto. Non so se
fu perchè mi colse alla sprovvista - Manuel non era quello che può essere
definito un bravo fotografo, perciò credo più al caso che alla bravura - ma in quella foto colse l’essenza della mia
anima. Fu credo per quel motivo che decisi, tempo dopo, di caricare proprio
quella foto sul mio profilo di Facebook.
All’epoca non sapevo, non potevo
sapere, che quella foto mi avrebbe cambiato la vita.
Vicky
***
Era una delle solite serate di
merda, in cui tutto il marciume che avevo dentro veniva fuori. Rabbia,
delusione, angosce, paure. Tutto mi saltava dritto nello stomaco e veniva su,
ad attanagliare cuore e cervello, a mordermi dietro il collo, a prendermi per
il bavero e sbattermi contro un muro. Quello che ero stato si rivoltava contro
di me, mettendomi di fronte alla triste realtà della mia vita e chiedendomene
il conto, da pagare con il sangue.
Sentivo talmente tanta rabbia
dentro che dovevo trovare un modo per sfogarla. Afferrai la bottiglia che avevo
davanti e ne trangugiai un sorso, gustando il calore dell’alcool che scendeva
giù nel mio ventre, ad infiammarne le membra. Crollai sul divano, ridendo di
me, di quello che ero diventato con gli anni. Da buon padre di famiglia e marito
tutto sommato esemplare, mi ero trasformato nel fantasma di me stesso, vinto
dalle delusioni, sprofondato nell’assoluto scetticismo verso la vita. “Che
capiti quello che deve capitare. Chi se ne frega, anche se muoio”. L’avevo
pensato spesso negli ultimi tempi, e soltanto il pensiero dei miei figli mi
aveva trattenuto dal saltare giù da un balcone: quella sarebbe stata la
vigliaccata più grande che avrei potuto fare e loro, no, loro non se la
meritavano.
Bevvi ancora, con il riso che si
trasformava amaro sulla mia bocca. Mi passava davanti agli occhi la mia vita,
come fossi in punto di morte. Mi sembrava di avere un peso sul cuore, una melma
nera che mi trascinava giù all’inferno. Mi vedevo sul pavimento imbrattato dell’odio
e della rabbia che nel tempo si era cumulata in me. Sentivo sospirarmi nel
cuore e nelle orecchie tutta la paura che negli anni avevo provato. Guardavo
con orrore il mio corpo imputridire e nell’illusione di sollevarmi da
quell’incubo, la mia bocca continuava ad attingere al fiele dell’alcool, nel
cui puzzo oramai ero immerso in modo indecente.
Mi ero abbruttito. Avevo perso la
speranza che le cose si potessero risollevare. Mi dicevo “Non amerai più. Non
sei capace di amare. Non vivrai più una vita normale”. Non avevo nemmeno una coscienza
che mi rispondesse con un filo di voce. Quella coscienza era stata sotterrata a
lungo dopo che me ne ero andato di casa, l’avevo persa nei letti che avevo
cavalcato, nelle porcate che avevo fatto, nel tentativo di succhiare un po’ di
amore dalla vita. E con la coscienza, avevo perso anche la dignità di vivere.