giovedì 2 settembre 2010

Attraverso il vetro - Atto Unico

Ogni giorno verso le cinque del pomeriggio uscivo di casa per andare a fare una piccola passeggiata al parco vicino casa. Avevo settantacinque anni ed alla mia età era importante continuare a muovermi ogni giorno, perchè le ossa non mi si bloccassero addosso, magari in posizioni scomode o inopportune. Così ogni giorno, dopo un piccolo riposino, andavo in giro esplorando il mondo con la curiosità che avrebbe un bambino. Mi piaceva vedere quello che faceva la gente a quell’epoca, paragonandolo al mondo che ricordavo da bambino: scoprire che alcune cose cambiavano, come le macchine al posto delle carrozze, e scoprire che alcune cose non cambiavano affatto, come l’amore.



Nel tragitto dalla mia casa al parco, mi capitò un giorno di passare vicino ad una casa dove vivevano marito e moglie di circa trentacinque anni. Sono una coppia talmente particolare che da quel giorno ci ripasso sempre e li ho imparato a conoscere giorno dopo giorno, nei week-end e nei giorni feriali. Un giorno scoprirono che ero lì fuori e mi invitarono persino per una tazza di caffè, ma di solito preferisco guardarli da fuori, senza disturbare. Sono una coppia normale, come se ne vedono tante in giro: due persone che lavorano, con due figli piccoli ed una casa da accudire. Quello che non è mai stato normale e che mi ha attirato e mi attira ancora verso di loro è quell’atmosfera che si respira non appena giro l’angolo e si profila davanti a me il piccolo cancello in ferro battuto che delimita la proprietà dei signori Alfieri: il vento è fresco e la brezza che ti raggiunge ha il profumo delle rose. Sembra un piccolo paradiso ritagliato nella città dove vivo e nessuno, tranne me, sembra rendersene conto.

Un giorno mi trovavo a passare di lì più tardi del solito, perchè ero stato dal medico per una ricetta. Era l’inizio dell’estate ed Elena era seduta in giardino sull’altalena, le gambe appoggiate al morbido cuscino beige a strisce blu, la testa reclinata verso la spalliera. I ricci biondi litigavano per scenderle lungo le guance lisce e abbronzate ed i suoi occhi azzurri giocavano a rimpiattino con il sole che di tanto in tanto faceva capolino tra le frange. Sembrava una scenetta tratta da un quadro impressionista francese e forse fu per questo che mi colpì al punto, che mi nascosi dietro un albero e mi fermai a guardarla.

Sembrava concentratissima su un giornale di enigmistica, perchè continuava a rileggere alcune definizioni tra le sue labbra, forse sperando che il pronunciarle ad alta voce potesse trascinare dietro la soluzione. “Enrico scrittore” ... “Museo d’arte moderna triestino”... “Regione della Macedonia”... “Tipo di retribuzione corrisposta indipendentemente dalla quantità di lavoro svolto, due parole... qualcosa... Fisso? Costante?” “Figlia di Menelao”...



Continuava a borbottare tra sé e sé, litigando con il foglio un po’ pasticciato di qui e di lì con parole ordinate per numero di lettere ed era incantevole da guardare, con il suo pantalone blu e la sua camicia bianca, appena aperta sul collo abbronzato. Giovanni le si avvicinò piano, camminando a piedi nudi sull’erba e da dietro le scostò i capelli e iniziò a mordicchiarle il collo. Elena protestò mugugnando: - Dai aiutami... non hai nulla da fare stamattina, siediti qui... - e lui le rispose con un secco: - Elena....

Lei si fermò e lo guardò preoccupata, forse perchè non le piaceva il tono con il quale l’aveva chiamata. Alzò gli occhi azzurri facendo una smorfia per un dispettoso raggio di sole che proprio in quel momento aveva trovato strada tra una frangia ed un’altra e gli disse:



- Che c’è?
- Elena, Figlia di Menelao.
- Ah, il cruciverba... mm ne sei sicuro sicuro?
- Sicuro, puoi scriverlo anche a penna!
- Mi fido... ma non lo scrivo, me lo ricordo e senti queste: “portline”...“Sa-casella vuota-teri-casella vuota”...
- “Salterio” ? E’ uno strumento...
- Sì, bravo! “strumento simile alla cetra” ... io avevo segnato “lira”...

Erano davvero incantevoli e non mi preoccupai di sembrare un po’ il guardone di un amore, perchè sembrava di stare assistento ad un film di quelli che ti lasciano dentro un po’ di zucchero per resistere fino al mattino dopo. E a posteriori feci bene, perchè assistetti ad una strana conversazione che mi lasciò dentro qualcosa che ancora oggi non saprei dire se fosse amarezza o dolcezza. Strano! Direte voi, eppure era così...

Giovanni le girò intorno e si sedette sulla altalena. Senza battere ciglio Elena si spostò e appoggiò la testa sulla sua spalla, mentre lui le faceva posto con il braccio e portava la sua mano su quella della moglie, iniziando ad accarezzarla.



- Gio?
- No, per favore... Basta cruciverba...
- No... non volevo chiederti un’altra definizione...
- E allora cosa, impiastro?
- Mi ami ancora?
- Ti amo ancora? Perchè me lo chiedi?
- Rispondi...
- Si Elena, ti amo ancora...
- Dopo tutti questi anni?
- Sì, dopo tutti questi anni...
- Come fai ad esserne sicuro?
- Perchè tu non mi ami?
- Non mi rispondere con un’altra domanda...
- Ne sono sicuro e basta. Ma che hai oggi?
- Non puoi dirmi “ne sono sicuro e basta”... possibile che tu non ti sia mai chiesto come fai ad esserne sicuro?
- Non me lo sono mai chiesto... lo so e basta. Certe cose si sentono...
- Mm... io no.
- Cioè? Tu non mi ami?
- No, io ti amo...
- E allora no... non lo senti?
- No, lo sento...
- Allora “io no” cosa?
- Io non posso accettare una risposta così: “certe cose si sentono”... io me lo sono chiesta come faccio ad esserne sicura.
- E cosa hai risposto?
- Ti interessa?
- Mettiamola così... se ti dico che non mi interessa ti arrabbi, quindi dimmelo...
- Ti interessa?
- Certo... dimmelo!
- No, mi sembra non ti interessa...

Risi tra me e me perchè sembrava una conversazione da vecchi innamorati stanchi. Tuttavia ciò che successe dopo mi sorprese, perchè invece di iniziare un bisticcio come qualunque marito avrebbe fatto, per tutta risposta Giovanni la baciò. Certo che l’amava, si vedeva.... L’aveva amata dal primo giorno che l’aveva vista, alla fermata dell’autobus vicino casa sua. Me lo aveva raccontato una volta che ci eravamo incontrati in posta e c’era molta coda perchè la tecnologia faceva i capricci. Sì, ricordo bene. Mi raccontò tutta la storia: era sul motorino per andare a lavorare, elegante nel suo completo grigio fumo, con la cartelletta di pelle nera tra i polpacci. Si era fermato al semaforo proprio all’angolo della fermata di un autobus. L’aveva vista mettere un piede in fallo e scivolare già mentre una pila di fogli si era riversata sulla sua moto. Lei era scoppiata a piangere e si era messa a raccogliere quel disastro, borbottando qualcosa disperata. Allora lui aveva spento la moto, l’aveva spinta sul cavalletto e si era inginocchiato vicino a lei per aiutarla, mentre le macchine li intossicavano man mano che li superavano e li assordavano con i clacson impertinenti.

- Non capisco – le aveva gridato mentre passava un autobus affianco, lasciando l’impronta di uno pneumatico proprio sopra uno dei fogli sparsi e lei si era accasciata a terra urlando “Noooo”
- La mia tesi di laurea – gli aveva urlato per tutta risposta – era la mia tesi di laurea... l’avevo stampata e la stavo portando dal rilegatore... adesso come faccio?
- Mi dispiace... ma se vuoi arrivare alla laurea devi cercare di toglierti dalla strada. Vedi quanto vanno veloci? – avevo cercato di suggerirle e forse era stato proprio questo piccolo suggerimento che l’aveva riportata alla realtà e l’aveva spinta a rialzarsi, il viso sporcato di una grossa striscia nera di mascara sciolto dal pianto
- Beh grazie lo stesso – gli aveva detto e se n’era andata lasciando il suo motorino pieno di tutti quei fogli.

Lui li aveva raccolti e aveva trovato la copertina, dove in bella mostra spiccavano il suo Nome “Elena”, il suo Cognome “De Biase” e il titolo della sua tesi “Il controllo del ritmo cardiaco attraverso il pacemaker in pazienti giovani con blocco atrioventricolare soprahissiano parossistico di secondo grado”. Facoltà di Medicina, Specializzazione in Cardiologia. L’aveva cercata ogni giorno finchè non l’aveva trovata un pomeriggio in biblioteca, con un grosso tomo di fronte a lei sul quale era quasi addormentata. Le aveva fatto la battuta più squallida della sua vita “Problemi di cuore?” e lei aveva riso con il sorriso più bello e limpido che lui avesse mai conosciuto.
Da allora non l’aveva mai più lasciata. Le era stato accanto quando si era laureata, quando aveva iniziato a lavorare in clinica all’Ospedale Niguarda presso il reparto di Cardiochirurgia De Gasperis e aveva raccolto tutte le sue sofferenze della vita di medico che si trova spesso di fronte a situazioni difficili. Accanto a lei lui era andato avanti nella sua carriera ed era diventato un manager di successo, Direttore Generale di una società finanziaria.




Le aveva chiesto di sposarla un giorno che a Milano era nevicato ed erano rimasti bloccati nel traffico in macchina. Aveva dovuto spegnere l’auto e spegnere il riscaldamento, ma faceva talmente freddo che lei aveva iniziato a tremare. Lui si era tolto il suo giubbetto e glielo aveva raccolto addosso, l’aveva presa accanto a sè e aveva iniziato a baciarla e tra un bacio ed un altro le aveva pronunciato due parole, piccole e potenti, seguite da una data, quella del loro matrimonio. L’aveva sposata in una piccola chiesa sul Naviglio e per il viaggio di nozze l’aveva portata in un’isola del Pacifico, Aitutaki. L’atmosfera di quel viaggio non era mai cessata tra di loro a suo modo di vedere le cose. Per lui lei era sempre quella piccola studentessa che quasi addormentata sul grosso Tomo di Cardiologia.

Dai suoi occhi capivo che l’amava ancora, anche ora che lei era seduta sull’altalena ed il vento le confondeva i capelli diffondendo nell’aria un fresco profumo di shampoo al miele. Le guardò il viso. Le guardò il profilo perfetto, il piccolo neo discreto affianco alla bocca, le labbra vermiglie. Mi sentii di invadere il loro piccolo mondo quando lo vidi scrutare sotto la camicetta il piccolo seno perfetto, intuire la pancia piatta e le gambe muscolose sotto la gonna e lo vidi scendere dall’altalena per baciarla.



Elena sussultò quando si trovò il suo viso davanti: i capelli che il tempo aveva leggermente imbiancati, la pelle che aveva perso un po’ della sua elasticità. Ed oggettivamente, lo dico come fossi suo padre, quello di Giovanni era ancora un bel viso, fresco e sorridente, i contorni lineari, i denti bianchi sempre aperti in un sorriso ed il piccolo mento un po’ sporgente. Il suo corpo a volte risultava goffo nella sua altezza, ma a lei sembrava piacere perdersi in esso, così piccola com’era. Una volta avevo sentito Elena che gli diceva che le sarebbe piaciuto potersi raccogliere dentro una sua mano come Peter Pan faceva con Trilli...

Li guardavo fuori da quel cancello ed erano così belli. Nella loro felicità che traspariva dagli occhi, erano stati capaci di mantenere il loro amore negli anni così vivo. Per me era come vederli attraverso un vetro, limpido e diafano, in una giornata di sole che li fa splendere ancora di più. Una felicità da fare invidia. Una felicità che vorresti rubare e tenere per te. Ti chiedi se sia falsa, perchè non riesci ad ammettere a te stesso che una felicità così forse può esistere davvero e non occorre cercarla troppo lontano da dove sei. Basta sapersi venire incontro. Basta saper rinunciare un po’ a se stessi per l’altro. Certo, questo è quello che ti insegnano. Quello che ti dicono quando ti sposi: l’uno per l’altro, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Ma non ti spiegano che è difficile e che solo con un grande amore ciò si può realizzare. Dovrebbero mettere un test come l’etilometro per impedirti di guidare: se non sei abbastanza sobrio non ti sposi. “Mi scusi, a lei manca una tacca d’amore. Ritorni”. Certo, dovrebbero fare così e vedi che i divorzi diminuiscono.

Mi fermavo spesso a guardarli. Erano proprio belli ed ogni volta che passavo affianco al loro giardino restavo incantato a vederli. Ogni volta un’immagine diversa. E non erano stucchevoli come si poteva pensare. Erano genuini, naturali, belli. Pensavo alla mia Dorotea quando li vedevo. Lei è morta poco dopo il nostro matrimonio. Ci eravamo sposati molto giovani. A quei tempi c’era la guerra e ci si sposava perchè non si sapeva mai se tornavi dal fronte oppure no. Io sono tornato e la mia Dorotea non c’era più. Da allora sono solo. Non ho più voluto cercare nessun altro. E se penso a lei penso che avrei voluto essere con lei così come sono loro, forti nel loro amore, incuranti di dirsi certe sciocchezze anche dopo tanto tempo, rispettosi l’uno verso l’altro, giocosi, con gli occhi dell’uno che brillano negli occhi dell’altro.

Fu l’ultimo giorno che li vidi. Forse per questo il loro ricordo è rimasto in me vivo e possente. Se n’erano andati. Il postino mi raccontò che era venuto un grosso camion la mattina per il trasloco ed aveva portato via i mobili. Loro non erano già più lì. Chiesi al postino se avevano dato indicazioni all’Ufficio Postale su dove si stavano trasferendo, perchè mi sarebbe piaciuto spedire loro una piccola lettera di congedo. Alla mia età quando qualcuno va via lo saluti come fosse l’ultima volta che lo vedi, perchè la Dolce Signora può portarti via quella notte stessa. Ma lui non ne sapeva nulla. Disse di non avere accesso a quella parte dell’archivio, ma che se volevo preparare una piccola lettera, l’avrebbe data al responsabile di quel settore perchè la facesse pervenire alla coppia.

E la scrissi. Una lettera piccola piccola nella quale li ringraziavo per quei pomeriggi nei quali mi avevano reso inconsapevolmente spettatore del loro amore, chiedendo loro scusa se mi ero permesso di guardare attraverso i loro occhi e amare attraverso il loro cuore. Io che non avevo potuto conoscere il vero amore di persona, grazie a loro avevo potuto comunque crederci. Era bello anche così, di riflesso, attraverso il vetro.

Alla mia lettera però non rispose nessuno.
O forse, feci solo in tempo a morire prima che potessero recapitarmi una risposta.

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