Il traffico scorreva veloce e silenzioso intorno a me, mi sentivo come la pallina di un flipper che si muoveva impazzita in mezzo al caos milanese.
La mia mente dilaniata da un unico pensiero: “riuscirò mai ad arrivare? “
Le mie gambe si muovevano così velocemente da permettere ai miei piedi di porsi uno davanti all’altro, dandomi quasi l’impressione di camminare come un lampo sulle acque tumultuose di un fiume in piena.
Solo la forza della disperazione mi permise di proseguire non curante del pericolo che stavo affrontando, o forse semplicemente il saper di dover arrivare presto e a qualsiasi costo alla meta, mi rese incosciente dell’ombra della morte che affiancava il mio cammino.
Ero sfinita e consapevole di non poter proseguire oltre.
Quando vidi che la rampa della tangenziale era accessibile esclusivamente a quegli assordanti motori, che mi avevano riportato repentinamente ad uno stato di veglia simile alla realtà, istintivamente il mio pollice si alzò, nella speranza che qualcuno potesse fermarsi, raccogliere quell’esile corpo ancora adolescente e impietosito potesse condurlo a destinazione.
Fu così.
Ed ecco proprio li, davanti a me, la meta agognata.
Mi fermai per alcuni istanti come pietrificata, a guardare quella grigia costruzione trasudante sofferenza che si ergeva di fronte ai miei occhi.
Non riuscivo a trovare il coraggio di entrarvi.
Violentai il mio spirito ed il mio corpo quando mi addentrai nei meandri di quei corridoi avvolti dal pungente odore di disinfettante misto all’effluvio del dolore che inesorabilmente ombreggiava sulle anonime pareti di quel corridoio dov’ero alla ricerca della camera 165.
159 161 163…165.
La porta era socchiusa, potevo scorgere una tenue luce filtrare oltre la porta, solo il rumore assordante del silenzio avvolgeva quella stanza dove le stanche membra del corpo di mia madre riposavano in un sonno profondo, dopo aver disperatamente tentato di lasciare per sempre quel corpo e quell’anima per troppo tempo dilaniate da un dolore sordo e incomprensibile per chiunque non abbia mai provato i dolori dell’anima.
Mi avvicinai al suo letto, silenziosamente, quasi in punta di piedi per non disturbare quel sonno che pareva arrecarle un poco di sollievo.
Mi sedetti vicino a lei, la guardai, avrei voluto stringerle la mano, dirle: “mamma sono qui, vicino a te, non sei più sola,sono venuta per te”, ma qualcosa dentro di me lo impediva, il mio corpo era come pietrificato dall’assurdità di quella situazione e dal ricordo delle ingiustizie subite.
Il mio corpo non amava il contatto con il suo, era da tempo che non riuscivo a provare piacere dalla sua vicinanza.
In quel momento i suoi occhi si dischiusero.
La salutai con un sorriso che pensavo potesse mascherare i miei pensieri.
Lei mi guardò con un’espressione dura, quasi arrabbiata, e lo era.
Lo era con me, per non essere arrivata prima, per non essermi interessata a lei e per aver forse preferito come al solito passare il tempo con gli amici piuttosto che dedicarmi alle sue sofferenze, ero sempre la solita e non sarei mai cambiata.
Tentai di spiegarle,di raccontarle le peripezie di quel viaggio verso l’ospedale ma la voce mi mancò, cercavo di deglutire tentando di scacciare quel forte bruciore che percepivo nella gola, ma ogni tentativo fu vano e nel contempo sentivo le lacrime voler dirompere dai miei occhi come onde sulla riva, ma non glielo permisi.
Lei richiuse gli occhi e si assopì nuovamente.
Mi alzai lentamente, mi avvicinai alla finestra.
Il grande albero laggiù nel giardino cercò di alleviare le mie pene con il suo splendore ed i suoi rami parevano voler avvolgere il mio corpo stanco in segno di protezione, gli fui immensamente grata, ma la mia anima era inconsolabile.
Me ne andai ripercorrendo quello stesso corridoio dove ora potevo veder passarmi accanto i visi stanchi di quegli sconosciuti ai quali la vita aveva tolto ogni speranza.
Neanche la percezione di quel forte dolore poteva dar sollievo alla mia anima ammutolita.
Uscii all’aperto, un raggio di sole colpì il mio viso riflettendo i suoi raggi nelle lacrime amare che scorrevano sulle mie guance arrossate dal dolore.
Quella sensazione di calore scaldò un poco il mio cuore e sentendo di esser ormai pronta, decisi di buttarmi nel vortice della vita.
Nel ripensar a quel momento potrei dire di aver visto una ragazzina sconfitta dalla vita uscire da quel grigio ospedale.
Oggi posso dire che solo alle anime tormentate è permesso di poter rischiare la propria vita uscendone pur sempre incolumi. Forse perché le dure pene che inconsapevolmente si infliggono sono punizioni ben più grandi della morte.
Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci
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Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a
superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata
e un...
4 mesi fa