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lunedì 27 giugno 2011

Il Segreto dell'Ottagono - cap. 5

Il Queens-Midtown tunnel era completamente bloccato. L’ingorgo aveva agli occhi di Alessandra dimensioni epiche: neppure il traffico a Spaccanapoli le era mai parso così intenso. Il barrito dei clacson superava anche il rimbombo degli scrosci di pioggia che stavano investendo la città, e per un istante Alessandra provò compassione per i poliziotti che, malamente protetti dalla cerata nera con la scritta NYPD, si trovavano in mezzo a quel fiume di lamiera con il compito di dirigere il traffico.
Si raggomitolò sul sedile posteriore, mentre il tassista imprecava girando la manopola della radio. Una voce gracchiante, intuì Alessandra più che comprendere l’esatto significato della frase, sconsigliava agli automobilisti di percorrere le Expressway in direzione Queens e Long Island.
La mia solita fortuna, pensò, mentre il tassametro con uno scatto silenzioso superava gli otto dollari. Era proprio dove doveva andare Alessandra.
18, Vernon Boulevard south.
Rimuginò che forse avrebbe dovuto chiamare Dennis. Presentarsi così, a casa sua, recando la lettera che aveva inviato a suo padre anni prima… Prima che una scortesia, era una cosa completamente insensata. Dennis avrebbe potuto non essere a casa e poi – qualcosa non le piaceva, in quella storia.
A quale segreto faceva riferimento Dennis nella lettera? E perché l’aveva scritta sulla carta intestata di un ospedale psichiatrico chiuso da più di settant’anni?
Non aveva senso, tutta quella storia era completamente priva di senso. Prima la lettera demenziale di questo cugino, Dennis, che parla di un segreto – e che segreto! Un fratello che spunta fuori così, di punto in bianco… se quello era il segreto cui si riferiva!
E non solo: il fratello cambia nome così, di punto in bianco, e diventa Frank Goodman... Frank Buonuomo, pensò Alessandra con un sorriso, proprio come aveva detto Mr Malakian. Ma quello tanto buono non deve essere, se no mica si nascondeva per quarant'anni in America. C'era decisamente qualcosa che non quadrava. Sbuffò, sistemandosi meglio sul sedile, mentre uno shit! scoppiava dalle labbra tese del tassista.
Intorno a lei tutto sembrava irreale attraverso la pioggia che inondava le strade. E lei, Lessie, sempre così seria, così "quadrata", come la definiva suo padre - trovarsi nel bel mezzo di tutto quel casino. Non desiderava nient'altro che chiudere il più presto possibile tutta quella faccenda e tornarsene al suo paese vicino a Napoli, alla sua vita di sempre - ai suoi scolari, alle sue amiche, e al suo Mario, che aveva lasciato a casa in quattro e quattr'otto senza spiegargli niente dei suoi "problemi di famiglia" che l'avevano costretta a partire con in tasca un po' di soldi, pochi abiti, un dizionario tascabile di inglese e quella dannata lettera. Annotò mentalmente di chiamare Mario al suo rientro in albergo. Povero, quello se ne muore per l'ansia!
Alessandra non riuscì a determinare quanto tempo ci impiegarono ad attraversare il tunnel (troppo, comunque, anche per una persona paziente come lei), ma non appena le prime strade del Queens cominciarono a dispiegarsi oltre la bocca della galleria il traffico si fece decisamente più scorrevole. Sotto la pioggia, i casermoni punteggiati di finestre illuminate le facevano pensare a due ali di folla muta e severa che osservi passare un corteo funebre - e le venne in mente la trasmissione RAI dei funerali del Presidente, solo pochi anni prima, il bianco e nero sgranato della televisione del bar all'angolo, e il silenzio irreale che accompagnava le immagini anche in quell'angolo di Italia così lontano dalle vicende americane e dalla famiglia Kennedy.
Madonna, che brutti pensieri. Rabbrividì, cercando di immaginare che cosa avrebbe detto a Dennis quando le avrebbe aperto la porta di casa e si sarebbero trovati l'uno di fronte all'altra. E soprattutto, come sarebbe stato Dennis? L'avrebbe accolta con il mento volitivo e il naso adunco dei Quagliarello? Sarebbe stato magro, grasso? Come se lo immaginava?
Scosse la testa, mentre il taxi svoltava in Vernon Boulevard.
Sapeva che il Queens non era un quartiere particolarmente elegante, ma Vernon Boulevard doveva essere una delle strade più disgraziate di un posto che definire male in arnese sarebbe stato eufemistico.
Tra le lastre di cemento dei marciapiedi anche sotto quel fortunale si intravedeva la crescita ostinata di ciuffi d'erba, e nei rigagnoli ai lati della strada scorrevano cartacce e monnezza di ogni genere.
Le prime case all'angolo, dopo uno spettrale campo da basket in cui uno dei due canestri aveva il tabellone spezzato, avevano le finestre spente, e sulla facciata di uno campeggiava un cartello con scritto BUILDING CONDEMNED. Alessandra cercò di ricordarsi cosa significasse - era quasi certa che volesse dire "sotto sequestro", ma non del tutto.
Il taxi rallentò poco dopo, e prima che la voce del tassista le comunicasse che il prezzo della corsa era di 13 dollari e 85 centesimi, pensò di aver fatto un colossale errore a venire lì, in quel posto dimenticato da Dio, a quell'ora della notte e sotto quella dannata tempesta.
Lasciò quindici dollari di mancia e uscì dal taxi sotto la pioggia, cogliendo con la coda dell'occhio l'espressione dubbiosa dell'autista.
La casa al 18 di Vernon era più bassa delle altre, un tozzo edificio a tre piani in mattoni. Gli altri palazzi incombevano su di essa e su Alessandra come bulli di quartiere intorno a un bambino timido e impacciato. E Alessandra si sentiva timida e impacciata, in quel momento. Inspirò profondamente e saltellò fino alla bassa scalinata, tre gradini, che portavano alla porta principale. I campanelli erano anonimi come la facciata, e sotto una targhetta in metallo che recitava Vernon Apartments c'era solo una sequenza di tre tasti numerati.
Suppose che quello centrale corrispondesse all'unico appartamento con una finestra illuminata. E che la Madonna mi aiuti, pensò mentre avvicinava il dito al bottone. Superato l'ultimo tremito, schiacciò il pulsante, e attese per qualche secondo dopo aver ritratto il dito come se avesse ricevuto la scossa.
Niente.
Sarebbe stato un bello scherzo se nessuno le avesse aperto. Lì, sola nel Queens, a quell'ora della notte e con quel tempo, e con l'unico taxi in circolazione (l'unica macchina in circolazione, per l'esattezza) probabilmente ad una buona distanza da lei. Sicuramente più lontana dell'eco di un suo grido.
Suonò ancora.
"Who the hell is there?", urlò una voce attraverso l'altoparlante. Alessandra arretrò istintivamente. Tossì, si fece coraggio e rispose:
"Alessandra. Alessandra Quagliarello"
"A-lesàndra?", replicò la voce. Se era quella di Dennis, il ragazzo doveva fumare assai perché sembrava quella di un vecchio. "Quag-lee-a-rillo?"
"Sì, sì. Alessandra Quagliarello, la figlia di Roberto..."
Non aveva finito la frase che uno scatto metallico annunciò l'apertura della porta.
"Secondo piano. Sali. Attenta all'acqua"
Ommadonna, pensò Alessandra. Acqua. Ma tanto sono zuppa dalla testa ai piedi, che mi devo preoccupare ancora dell'acqua?
Spinse la porta ed entrò nell'androne. Contrariamente a quello che poteva attendersi, l'illuminazione era quasi sufficiente, e i tubi al neon ricordavano quelli di Ellis Island. Il pensiero del gentile Mr Malakian la confortò mentre cominciava a salire le scale rese viscide dalle infiltrazioni d'acqua che cadevano dal soffitto.
Dennis viveva davvero in un palazzo cadente: Alessandra conosceva bene la miseria dei bassi e dei quartieri Spagnoli a Napoli, e anche al suo paese c'erano numerose case abusive che non avevano acqua corrente o elettricità, ma la sensazione di decadenza e di degrado che quel palazzo le trasmetteva era singolarmente opprimente, e dovette far appello a riserve insospettate di coraggio per impedirsi di girare sui tacchi e ripercorrere la strada verso Manhattan, fosse stato pure a piedi!
Il rumore di numerose serrature che venivano aperte al piano superiore annunciò che Dennis stava aprendo la porta. Se Dio vuole, tra poco sarà finita. E poi andiamo, si scosse, solo perché vive in una topaia non è detto che debba essere un disgraziato!
Superando l'ultima rampa di scale vide la porta dell'appartamento 2B aperta, e appena oltre una parete rivestita di carta da parati gialla come i filtri delle sigarette con cui suo padre ammorbava la cucina ogni sera dopo cena.
Un uomo la aspettava sulla soglia, con una logora vestaglia marrone addosso. Alessandra trasalì. Non poteva essere Dennis.
Quell'uomo era anziano, con capelli arruffati e i lineamenti segaligni fissati in un'espressione dubbiosa. Teneva una mano in tasca, mentre l'altra artigliava lo stipite. Cercò di cogliere istintivamente delle somiglianze con suo padre o con le foto dei nonni ma i dettagli le sfuggivano, e non riusciva a trovarne.
"Alessandra. La figlia di Roberto", sentenziò mentre lei arrivava sul pianerottolo. Non tese la mano, ma si limitò a squadrarla.
Alessandra si schiarì la voce e resistette all'impulso di tendere la mano verso di lui. "Sì", rispose. "Sono io. E lei...?"
"Vieni dentro", le disse. Le voltò le spalle e sparì dentro all'appartamento 2B. "Ti potrai asciugare e riscaldare un po'", disse la sua voce dall'interno. Le ricordava il rumore di un secchio di ghiaia che veniva rovesciato sull'asfalto.
Alessandra esitò. Sentiva i capelli drizzarsi sulla nuca nonostante fossero fradici, e i polpastrelli le pizzicavano. Si rese conto che ansimava.
"Sono Frank, for Christ's sake", sbottò la voce da dentro. "Non ti mangio mica!"
Frank.
Aveva visto Franco Quagliarello, Frank Goodman. Il terzo fratello.
Si fece forza ed entrò in casa.
Il corridoio puzzava di umido e di scarpe abbandonate, e i mobili che occupavano il corridoio erano in linea con lo stile del resto del palazzo: spartani, vetusti, e avevano visto sicuramente tempi migliori.
Seguì il vociare di un televisore fino ad un piccolo salotto in cui trovò Frank sistemato su una poltrona di pelle marrone, che armeggiava con una sigaretta sistemandosi un portacenere mezzo pieno in grembo.
"Così tu sei la figlia di mio fratello", disse. Le diede un'occhiata, aspirando la prima boccata. Aveva stretto le labbra come se si stesse per mettere a fischiare.
"E tu saresti mio... mio..."
"Zio. Lo zio Frank"
"Perché?"
Il vecchio rise e agitò la sigaretta. "Penso perché sono fratello di tuo padre, e dunque tu sei mia nipote", la irrise. "Anche in Italia funziona così, isn't it?"
La risata del vecchio la infastidiva terribilmente. Quell'uomo aveva un che di laido che la metteva a disagio. Il fatto che fosse suo zio - se pure era suo zio - non la metteva minimamente a suo agio.
"Perché nessuno di noi sapeva niente di te, intendevo dire", spiegò Alessandra.
Frank si strinse nelle spalle e aspirò un'altra boccata. "Questo dovrebbe dirtelo Roberto, non credi? Io sono sempre stato qui. Sempre"
"E Dennis dove si trova? Ho ricevuto una lettera..."
"Dennis? Dennis non è qui, ragazza. Dennis non c'è", rispose Frank. "Ci sono solo io qui, adesso"
"Sono venuta per Dennis", ribatté Alessandra. "Non sapevo nemmeno che tu esistessi, fino a ieri"
"Lo immagino. Ma se cerchi Dennis dovrai aspettare. Su, siediti. E rilassati, perdio. Non ho intenzione di farti alcun male. Sarò pure un miserabile, ma non ho intenzione di fare del male a mia nipote!"
Alessandra lo studiò ancora. Non aveva niente di simile a suo padre. Le gambe pallide e smunte erano tormentate da varici, il petto infossato si alzava e si abbassava rapidamente, come se il vecchio facesse fatica a respirare regolarmente. E il volto decisamente aveva un'espressione che non la faceva assolutamente rilassare. I suoi occhi erano mobili, quasi febbrili, e la osservavano con troppa intensità.
Ma era sfinita dalla stanchezza, dal freddo e dalla tensione, e quindi si accomodò sul divano davanti al vecchio - avendo cura di essere sufficientemente distante per potersi muovere rapidamente in caso di "problemi".
"Sei venuta fino a New York a cercarmi. Roberto ha mandato te", disse Frank. Spense il mozzicone mandandolo a far compagnia agli altri. Appoggiò il portacenere sul tavolinetto accanto alla poltrona, sopra una guida del telefono.
"Nonna Rosaria stava male, è dovuto rimanere là"
Frank sbatté le mani. "Ah! Roberto! Il bravo, l'affettuoso, il premuroso Roberto! Certo che doveva vegliare il capezzale di mamma!"
Notò che Frank non aveva minimamente chiesto come stesse nonna Rosaria.
"E' morta", disse Alessandra. "Ieri notte"
Frank smise per un istante di sorridere e appoggiò le mani ai braccioli. La sua espressione tornò seria e poi disse: "Era tempo".
Alessandra si alzò di scatto dal divano e si trovò ad inveire: "Ma che razza di uomo sei? Ti dico che tua madre è morta e tutto quello che sai dire è che era tempo?"
Aveva alzato la voce, una cosa che non faceva mai. Un gesto della mano di Frank accompagnò la sua espressione stupita. "Non ho detto che sono contento. Ho detto che era tempo. Capisci?"
"Capisco che non sembri sconvolto", disse Alessandra. "Capisco che ho fatto un errore a venire qui e parlare con te. Capisco che voglio parlare con Dennis e chiedergli che cosa diavolo volesse dire con quella lettera e..."
Frank scosse la testa. "Ci sarà tempo anche per questo. Dennis non è qui, e della lettera parleremo dopo"
"No", disse Alessandra. "Io adesso me ne vado, e tu mi dici quando trovare questo Dennis, e torno quando ci sarà..."
"Fai come vuoi", rispose Frank. "E' una lunga camminata fino a casa, sotto questa pioggia. E il Queens non è posto dove una ragazzetta della tua età... Quanti anni hai? Trenta? Se ne vada a zonzo di notte senza farsi problemi"
"Venticinque", precisò Alessandra. "Ho venticinque anni". Se possibile, quel Frank era sempre più detestabile. Ma trent'anni li avrà quella tofa 'e funnale di tua sorella, vecchio balordo.
“Venticinque anni. Tanta strada per una ragazzina”
Alessandra esitò ancora un istante, poi si sedette nuovamente.
“Chi sei tu?”
“Sono Franco Quagliarello, o Frank Goodman, come mi faccio chiamare adesso. Grazie a tuo zio Michael, aggiungerei. Michael, che Dio non lo abbia troppo in gloria”
Alessandra fece per rialzarsi. “Se pensi che io rimanga qui mentre tu insulti tutta la mia famiglia un pezzo alla volta…”
“La nostra famiglia, bambina. La nostra famiglia. E credimi, Michael non era pane da far ostia più di quanto lo sia chiunque tra i fratelli Quagliarello”
“Tu sei pazzo”, disse Alessandra. “Lasciami chiamare un taxi. Ti lascio i soldi. Due dollari, bastano? Torno quando c’è Dennis”
Frank scosse la testa. “Dennis non ti può aiutare. Nemmeno se fosse qui, ti potrebbe aiutare. Ma non c’è”.
Alessandra si prese la testa tra le mani. “Non ci posso credere… Tutto questo non ha senso…”
“Oh sì che ha senso, bambina mia. Ha molto senso, invece. E lo capirai anche tu, se mi ascolterai attentamente. Cosa c’era scritto nella lettera di Dennis?”
Alessandra rimase in silenzio.
“Non mi capisci più? Cosa c’era scritto in quella lettera?”
“Diceva a mio padre che anche se lui e Michael non volevano più essere fratelli, questo… questo non avrebbe cambiato le cose, e che a New York lui aveva un fratello, e che la famiglia… la famiglia aveva una storia segreta…”
Frugò nella borsetta e ne estrasse la carta spiegazzata e umidiccia del Blackwell sulla quale erano scritte le parole che lei aveva appena ripetuto.
Frank non prese il foglio, si limitò a scuotere la testa. Riprese il portacenere e accese un’altra sigaretta.
“Non ha detto che Roberto e Michael non volevano più essere fratelli”, disse Frank.
Alessandra sbatté gli occhi.
“Dennis parlava di me. Dell’unico vero fratello di sangue di tuo padre”
Ommadonna santissima. “E… E Michael?”
“Michael era figlio di Domenico, ma non era fratello nostro”, disse Frank. Aspirò una lunga boccata.
Alessandra aveva la nausea. Nomi le ronzavano nella testa, non era più sicura di nulla a questo punto.
“E Dennis?”
“Sei ossessionata da questo Dennis. Dennis è il figlio di Michael. Ma non è sangue del nostro sangue. Period.”