Ero
a Cuba, Trinidad, quella sera. Con Fabiana e Manuel. Ero un po’ giù di corda,
nonostante Cuba sia il posto peggiore per essere giù di corda, visto che tutto
trascina dietro l’allegria. Eravamo in una locanda sulla spiaggia, faceva caldo,
quel caldo che solo una tempesta tropicale porta con sé. Avevo comprato un
cappello di paglia per mio padre. Lo indossai, assecondando Fabiana e Manuel
che cercavano a loro modo di tirarmi su il morale. Quando mi voltai verso
Fabiana, che sedeva alla mia sinistra, Manuel mi scattò quella foto. Non so se
fu perchè mi colse alla sprovvista - Manuel non era quello che può essere
definito un bravo fotografo, perciò credo più al caso che alla bravura - ma in quella foto colse l’essenza della mia
anima. Fu credo per quel motivo che decisi, tempo dopo, di caricare proprio
quella foto sul mio profilo di Facebook.
All’epoca non sapevo, non potevo
sapere, che quella foto mi avrebbe cambiato la vita.
Vicky
***
Era una delle solite serate di
merda, in cui tutto il marciume che avevo dentro veniva fuori. Rabbia,
delusione, angosce, paure. Tutto mi saltava dritto nello stomaco e veniva su,
ad attanagliare cuore e cervello, a mordermi dietro il collo, a prendermi per
il bavero e sbattermi contro un muro. Quello che ero stato si rivoltava contro
di me, mettendomi di fronte alla triste realtà della mia vita e chiedendomene
il conto, da pagare con il sangue.
Sentivo talmente tanta rabbia
dentro che dovevo trovare un modo per sfogarla. Afferrai la bottiglia che avevo
davanti e ne trangugiai un sorso, gustando il calore dell’alcool che scendeva
giù nel mio ventre, ad infiammarne le membra. Crollai sul divano, ridendo di
me, di quello che ero diventato con gli anni. Da buon padre di famiglia e marito
tutto sommato esemplare, mi ero trasformato nel fantasma di me stesso, vinto
dalle delusioni, sprofondato nell’assoluto scetticismo verso la vita. “Che
capiti quello che deve capitare. Chi se ne frega, anche se muoio”. L’avevo
pensato spesso negli ultimi tempi, e soltanto il pensiero dei miei figli mi
aveva trattenuto dal saltare giù da un balcone: quella sarebbe stata la
vigliaccata più grande che avrei potuto fare e loro, no, loro non se la
meritavano.
Bevvi ancora, con il riso che si
trasformava amaro sulla mia bocca. Mi passava davanti agli occhi la mia vita,
come fossi in punto di morte. Mi sembrava di avere un peso sul cuore, una melma
nera che mi trascinava giù all’inferno. Mi vedevo sul pavimento imbrattato dell’odio
e della rabbia che nel tempo si era cumulata in me. Sentivo sospirarmi nel
cuore e nelle orecchie tutta la paura che negli anni avevo provato. Guardavo
con orrore il mio corpo imputridire e nell’illusione di sollevarmi da
quell’incubo, la mia bocca continuava ad attingere al fiele dell’alcool, nel
cui puzzo oramai ero immerso in modo indecente.
Mi ero abbruttito. Avevo perso la
speranza che le cose si potessero risollevare. Mi dicevo “Non amerai più. Non
sei capace di amare. Non vivrai più una vita normale”. Non avevo nemmeno una coscienza
che mi rispondesse con un filo di voce. Quella coscienza era stata sotterrata a
lungo dopo che me ne ero andato di casa, l’avevo persa nei letti che avevo
cavalcato, nelle porcate che avevo fatto, nel tentativo di succhiare un po’ di
amore dalla vita. E con la coscienza, avevo perso anche la dignità di vivere.
Mi alzai barcollando dal divano.
Sentivo di dover vomitare. Speravo di buttar fuori non solo l’alcool che oramai
galleggiava dentro di me, padrone del mio stomaco, ma le viscere tutte e gli organi
vitali. Mi recai in bagno e affondai la mia faccia nel water, quasi a contatto
con l’acqua, perchè la testa non riusciva più a stare su da sola. Fu come una
cascata impetuosa quello che mi uscì dalla bocca, a ripensarci dovevo essere
ripugnante. Avevo gli occhi arrossati, le vene del collo gonfie e la pelle che
bruciava del mio stesso acido. Mi girava la testa, cercavo un punto dove
reggermi. Alla fine persi ogni controllo sul mio corpo e mi ritrovai bocconi a
terra, mentre l’ultimo conato di vomito si spargeva sul pavimento. Caddi
perdendo coscienza, affondando in esso la faccia ed il petto.
Da quel momento non ricordo più
nulla, fino al risveglio qualche ora dopo. L’odore di acido mi pulsava nella
bocca e nelle narici. Lo stomaco era un macigno sotto il mio petto. La testa
ruotava in tutti i sensi, come se qualcuno la stesse facendo dondolare apposta,
sbattendola da una parte all’altra. Mi riaddormentai ancora per qualche ora e
quando mi svegliai aspettai ad aprire gli occhi.
Mi facevo schifo. Innanzi tutto
per l’odore che emanava il mio corpo. Poi perchè non ero nemmeno più buono a
reggere una bottiglia di alcool come quando ero giovane. Sarei diventato un
vecchio da ospizio, di quelli che le infermiere hanno schifo a toccare, di
quelli che sbavano e non sanno nemmeno tirarsi su l’uccello per pisciare. Ero
abberrante, dalla testa ai piedi, dal cervello al cuore. Non avevo scampo.
Cercai di alzarmi, puntando le
mani sul pavimento e trascinando la parte superiore del corpo su verso il
lavandino. Poi pian piano mi misi in ginocchio e mi tirai in piedi. Cercai uno
straccio ed un secchio e ripulii dei miei umori il pavimento ed i sanitari. Mi
feci una lunga doccia, prima calda poi fredda. Mi sentivo meglio, almeno fuori,
perchè dentro ero vuoto, peggio di un cadavere ripulito dalle interiora.
Quando ebbi finito mi sedetti al
computer e guardai la posta: un mio amico aveva pubblicato su Facebook le foto
della festa che aveva organizzato in uno dei suoi viaggi di lavoro all’estero.
Volevo sbirciare un sorriso, perchè avevo bisogno di un contatto con un’umanità
normale, che vive anche di allegria e di spensieratezza. Seguii il link e mi
ritrovai di fronte a persone quasi sconosciute.
Fu quasi per caso che mi colpì il
suo viso. Non si vedeva bene, appena dietro le spalle di una bionda mezza nuda
che si stava quasi facendo il mio amico. Seguii il tag di quel nome che più
volte il mio amico mi aveva sussurrato sospirando: Victoria Menthos. Il nome
rievocava la Grecia di mia madre, il mare azzurro e pulito, le spiaggie bianche
dove da bambino mi aveva portato una volta. Sembrava essere una mano tesa per
recuperarmi dal pozzo in cui ero e così la seguii, per associare a quella
sensazione un volto dai contorni più definiti.
Victoria Menthos. Quando visualizzai la foto sul suo profilo,
restai fulminato dal suo viso. Lo sguardo appena accennato sotto il cappello di
paglia mi trapassò il petto e si annidò proprio in fondo alla mia anima, dove
oramai nessuno da tempo avevo lasciato passare. Aveva oltrepassato inspiegabilmente
ogni barriera, con quella penombra che offuscava i suoi occhi, il sorriso
appena accennato di chi ha dentro qualcosa di importante che non si permette di
dischiudere nemmeno attraverso gli occhi. Quel volto mi affascinava, sembrava
promettere più di quello che lasciava intravedere. E profumava di buono,
soprattutto.
Non so cosa mi successe quella
sera. Fu come essere investito da una boccata di aria fresca e di speranza
attraverso il video del computer. Il miracolo era sentirmi di nuovo “a casa”,
dopo un lungo viaggio fuori di me. Sentivo riannodarsi i fili della speranza,
sentivo che in me si stava schiudendo un sogno. Era assurdo, non sapevo nemmeno
chi fosse quella ragazza. Ne avevo solo sentito parlare, eppure sapevo che lì,
in quel sorriso accennato, in quello sguardo di sottecchi e un po’ imbronciato,
si annidava la mia salvezza.
Forse fu l’istinto di proteggermi
dall’ennesima delusione che mi portò a chiudere velocemente il PC e ad
andarmene sul letto. Eppure quella pelle bianca, quella bocca carnosa, quel
collo sottile e quel pendaglietto d’oro che lo sfiorava continuavano a
presentarsi davanti a me anche ad occhi chiusi. Il suo volto era davanti a al
mio, vivo e palpitante, potevo scrutarne ogni particolare, ripassarne i
contorni e giocare con le luci e le ombre così come aveva fatto il fotografo.
Decisi che l’avrei cercata. E
nello stesso istante in cui quel pensiero mi sfiorò, i miei occhi si chiusero e
caddi in un sonno profondo dal quale mi risvegliai diciotto ore dopo.
***
La luce del giorno filtrò dalle
persiane e si infilò delicatamente sotto le mie palpebre. Aprii gli occhi e mi
meravigliai del fatto che non ci fosse più alcuna traccia della serataccia che
avevo trascorso.
La prima cosa che apparve ai miei
occhi fu il suo viso, nascosto dietro quel cappello di paglia appena sceso
sugli occhi, teso a nascondere un mistero che desideravo si svelasse a me
lentamente, giorno dopo giorno.
Mi alzai come in preda ad un
sentimento quasi mistico, preparai il caffè, lo bevvi mentre sulle labbra mi
accorgevo di avere uno strano sorriso, che in altri tempi avrei definito quasi
ebete. Afferrai il computer e mi risdraiai nel letto. Mi collegai a Facebook e
cercai di nuovo il suo profilo.
L'immagine che mi apparve
coincideva straordinariamente in ogni suo punto a quella che era rimasta
impressa nella mia mente: la falda del cappello che scendeva sul viso,
lasciando intravvedere solo l'occhio sinistro, distrattamente perso in alcuni
pensieri; i lineamenti regolari che disegnavano un contorno perfetto; il
piccolo naso che riposava al centro dell'ovale regolare e le labbra che
riposavano chiuse in un sorriso triste. Tutto era bello di lei, persino il particolare
più insignificante.
"Chi sei?" le chiesi.
Non riuscivo a vedere altro di
lei e della sua vita, perchè il profilo era soggetto a restrizioni per chi non
le era amico. Non vedevo nulla della sua bacheca. Poche inutili informazioni
per contattarla. Quello che sapevo di lei me lo aveva raccontato il mio amico.
"Una ragazza straordinaria", mi aveva detto e ora potevo credergli.
Rimasi non so per quanto tempo
con gli occhi incollati alla sua bocca. Ogni tanto scendevo sul profilo del
collo e l'accarezzavo con gli occhi. Immaginavo di baciarla proprio nell'incavo
dove il collo si univa alla spalla. Mi sentivo stupido e un po' adolescente, ma
felice, e questo era un sentimento nuovo per me che avevo attraversato
l'inferno fino al ghiaccio profondo che lo brucia.
Non riuscivo a ricordare l'ultima
volta che in me erano nate speranze e sogni. Nemmeno da bambino forse ne avevo
avuti. Non era stato nemmeno un privilegio da adolescente, quando i sogni di
solito occupano in modo prepotente la realtà. Non ne avevo avuti a maggior
ragione da adulto, da padre e da marito. Speranze e sogni erano chiusi in una
cassaforte, della quale qualcuno si era dimenticato di darmi la chiave. Li
percepivo dentro, ma non potevo usarli e, del resto, non avrei neanche saputo
come fare.
Victoria rappresentava per me la
felicità che si assapora quando ti vedi alla fine di un tunnel, quando sai che
il peggio è passato, quando vedi il sole che sorge e realizzi che la notte è trascorsa,
quando sei al primo raggio di luce che compare dopo un temporale. Era la chiave
di questo scrigno, anche se non sapevo spiegarmi il perchè ne fossi così certo.
Eppure sentivo di aver già ricominciato a vivere: sentivo il sangue che mi pulsava
nella vene, potevo rintoccare ogni battito del cuore e sapevo, come un
adolescente, che il mio cuore stava battendo per lei. La sua immagine era il
mio pensiero felice, che mi faceva galleggiare nell’aria tersa degli spazi
infiniti. Sognavo come fosse baciare le sue labbra, averla affianco e poterla
sfiorare, poterla vivere di giorno in giorno, senza più preoccuparmi di
soffrire.
Era sabato. Non avevo programmi
per quel giorno. Non avevo voglia di alzarmi e rimasi lì per ore di fronte a
quella foto, cercando nella testa una frase, una stupidissima frase per
scriverle. Scaricai l’immagine, la misi sul mio desktop e chiusi Facebook
per vincere la voglia di mandarle un messaggio.
Era quasi mezzogiorno quando mi
alzai. Avevo una musica dolce in testa, un ronzio felice, una melodia a tratti
più definita e due parole che continuavano a balzarmi nel cuore senza che
potessi impedirglielo: "E’ lei".
Già, lei. Lei chi? La donna che ho
sognato quando non avevo sogni nè certezze? La donna che ho cercato nei letti
più improbabili? La donna che può salvarmi dal maleficio? No, mi dicevo,
cercando di allontanare quella speranza che tante volte era rimasta delusa. È
l'ultima illusione di trovare la felicità. Sono uno stupido se penso che per me
ci possa ancora essere una speranza, una via d'uscita. La mia vita è questa,
sostenevo a me stesso mentre radevo la barba e mi guardavo negli occhi. Chi ero
io, in fondo? Vivevo in un appartamento in città grande abbastanza per ospitare
i figli quando mia moglie mi concedeva di vederli; avevo una vita pieni di
impegni, ricercati apposta per colmarne il vuoto; nessuna donna era mai stata
in grado di tirarmi di nuovo dentro il vortice di un sentimento che non
provenisse finalmente solo dalle parti intime e nascoste del mio corpo.
Nessuna. Ma qualcosa mi spingeva a credere che Victoria avesse questo potere
enorme su di me. E ciò che si sente è ciò che non si può né controllare, né
spiegare. E’ il tuo istinto, è l’essenza di ciò che sei e ciò che sarai sempre.
E l’istinto non sbaglia. Mai.
Uscii. Stare a casa mi
costringeva solo a pensare a lei, a guardare il suo viso sul computer, provando
ad immaginare la sua vita, le sue giornate normali, i suoi pensieri, i suoi
istinti e le sue emozioni. Camminai per molto tempo, non ricordo più quanto,
lungo il naviglio, guadando l'acqua nera e limpida che scorreva veloce.
Immaginai quanto fosse ghiacciata e mi venne in mente l'immagine di lei, a
spalle nude. Le sfiorai la pelle con il pensiero. Guardavo gli occhi della
gente che incontravo e mi chiedevo come fossero i suoi, dietro quell'ombra del
cappello.
Mentre camminavo mi ronzava in testa una canzone che avevo sentito
spesso negli ultimi giorni. Le parole echeggiavano nella testa e me la
riempivano. Tutto mi ricordava lei.
Make me strong, push me on and take a chance. Speravo di poter avere ancora una possibilità nella mia vita, ci contavo. Avevo sofferto troppo. Avevo a lungo lasciato che la mia mente e la mia anima si adagiassero in una vita che avevo creduto fosse fatta per me e invece ora iniziavo a ribellarmi all’idea che io meritassi ogni goccia del dolore che avevo provato. Learn to jump the waves. Sì, volevo cavalcare le onde, volevo provare finalmente un’emozione nuova, e non mi importava che potesse essere solo per un giorno. Avevo strisciato per anni, soprattutto gli ultimi. Adesso avevo bisogno di emergere, di ergermi contro il vento, di solcare la scia bianca di un’onda e non temevo dove mi avrebbe portato. Sentivo che non mi sarei schiantato. More than speaking, more than thinking, silently you're on my side. Non le avevo mai parlato. Non le avevo mai detto nulla. Lei era silenziosamente al mio fianco, ignara di tutto. Avevo voglia di restare a parlare con lei per ore, la testa sulle sue ginocchia, mentre mi accarezzava il viso. Fermo così, le avrei raccontato la mia vita, No disguise, no hide-and-seeking senza cercare di nascondere quello che ero stato, ciò che avevo vissuto, il male che avevo ricevuto e provocato. Mouth to mouth you saved my life. La sua bocca. Desideravo baciarla. Desideravo che quello fosse il primo contatto fisico tra di noi.
Rientrai nel pomeriggio inoltrato, con la voglia di ributtarmi sulla sua foto. Aprii il computer, lei era lì con il suo sorriso da Monna Lisa un po' misterioso. Iniziai a ripetere il suo nome, prima nella mente, poi a fior di labbra, infine provai ad urlarlo per vedere come fosse pronunciarlo, ripeterlo nella mia casa come se lei fosse nella stanza affianco, come se potesse rispondermi, venirmi vicino, carezzarmi, abbracciarmi. Provai ad immaginare come fosse appoggiare le mie labbra alla sua guancia, nel punto vicino all'orecchio per farle sentire il mio sospiro, per appoggiarle la mia anima sul viso e farle percepire le lacrime vissute ed i sorrisi mai nati. E scesi giù sulle sue labbra, immaginando di accostarmi delicatamente, chiedendo quasi il permesso.
Mi riempì una sensazione quasi
sconosciuta, perchè assente in me da tanto tempo. Il desiderio di lei si faceva
sempre più pressante. Avevo voglia di vederla, di averla di fronte, vederne
l'immagine intera e non solo quel piccolo pezzo di paradiso che era il suo
viso.
Avevo voglia di sfiorarle la pelle e vedere se era davvero liscia e profumata come la immaginavo. Avevo voglia di tirar fuori dalla sua bocca pensieri e parole per conoscerla anche dentro, per sapere com'era stata la sua vita, quali sogni avesse, quali desideri la scaldavano di notte, quali dolori l’attanagliavano e quali impegni la occupavano di giorno. Volevo lei, completamente, e sapevo che rinunciare a lei era rinunciare all'unica occasione di vivere che il destino mi stava offrendo.
Così aprii il computer, mi
collegai a Facebook e la cercai. E scrissi la frase più stupida che mi venne in
mente: "Ciao. Vabbeh tu non mi
conosci e magari ti darà fastidio, però c'è la foto con il cappello che è molto
bella e desta curiosità. Mi piacerebbe conoscerti. "
***
Era fine novembre quando avevo
visto per la prima volta Victoria su Facebook. Le settimane da allora a Natale erano
trascorse velocemente, accompagnate da un vortice di sensazioni piene e palpabili
che mi tenevano compagnia e mi inebriavano.
Ero in volo, mi sentivo a
chilometri di distanza dalla terra, non riuscivo a scendere e per me che avevo
sempre strisciato su di essa, questa sensazione era qualcosa di estremamente
nuovo. Volavo tra le nuvole, guidavo il mio corpo in infinite ascese verso
l'alto e godevo dell'adrenalina che accompagnava quel viaggiare.
Vedevo volare lei al mio fianco,
ci spiavamo a distanza, guidavamo nella stessa direzione, all'unisono. Mi
sembrava di conoscerla da sempre, tanto era l'affiatamento tra di noi, come due
piloti di caccia che si fidano ciecamente l'uno dell'altro, che si muovono silenziosamente
accanto, scrutandosi dal vetro, che sono capaci di scendere in picchiata nello
stesso istante e poi virare all'improvviso di nuovo verso l'alto, sempre
insieme, verso l'immensità del cielo.
La desideravo e la cosa che mi
sembrava incredibile era che sentivo che anche lei desiderava me. E il mio non
era solo un puro desiderio fisico, anche se l'immagine di lei oramai ossessionava
la mia mente: il cappello sceso sulla fronte, il collo scoperto e quelle labbra
rosee, carnose e sensuali che avevo davanti agli occhi in ogni momento.
Desideravo baciarla, desideravo accarezzarla, desieravo stringerla e desideravo
che lei mi accoccolasse presso di sè. Non riuscivo a staccare il mio pensiero
da lei. Era come se fossimo stati insieme da sempre e dovessimo rimanere
insieme per sempre.
Sentivo l'urgenza di quel
desiderio premermi dritto in fondo al cuore e non m'importava più di quanto
avessi sofferto in tutta la mia vita: lei era diversa, io lo sentivo. E vedevo
in lei la luce forte e abbagliante della salvezza dalle mie inquietudini, dal
mio non vivere, dal mio trascinarmi stanco attraverso il tempo. Più di una
volta mi ritrovai a pensare che se avevo continuato a vivere fino a quel
momento ed ero riuscito a resistere a tutte le intemperie, era stato solo per
incontrare lei. Mi stava raccogliendo nel momento più debole della mia vita,
quello in cui vedi solo il baratro davanti a te e dietro di te c'è solo la
brulla desolazione di una vita nella quale non hai combinato che casini. Lei
era lì e non si sarebbe tirata indietro, ne ero certo.
Guardavo davanti a me ed avevo
una speranza. Lei aveva aperto il forziere dei miei sogni: mi sentivo pronto e
capace finalmente di dare qualcosa, sentivo l'entusiasmo crescere in me, la
voglia di vivere e di dare un calcio al passato. Non pensavo più di essere nato
per soffrire. Sentivo che lei poteva darmi quello che avevo cercato tutta la
vita e non m'importava di aspettare qualche giorno, perchè dentro di me non
avevo paura: avevo già perso tutto nella mia vita e se anche fosse andata male
con lei, se anche quella magia fosse destinata a rompersi, quel miscuglio di
emozioni e sensazioni aveva avuto il potere di rompere finalmente in me la
sfiducia verso il futuro. Stavo riguadagnando i miei sogni, iniziavo a credere all’esistenza
di un equilibrio nell'universo, che ti permette di riavere tutto ciò che ti è
stato tolto, ma potenziato, arricchito.
Ero pronto a incontrarla. Non
volevo immaginare nulla del nostro incontro, né il giorno, né il contesto. Non
ero mai stato bravo a programmare la mia vita e non volevo iniziare a farlo,
adesso, con lei. Del resto anche il nostro incontro si era collocato nella mia
vita per caso. Mi venivano in mente quelle frasi stupide che ti dicono che la
scoperta e la gioia ed il cammino sono nel viaggio e non nella meta ed io mi
forzavo a crederci, solo per frenare il mio desiderio di lei, ma dentro di me
sapevo che la meta era un premio ambito, che avrebbe superato per gioia e
felicità il viaggio stesso.
Riuscivo a pronunciare quella
parola, "felicità", che avevo sempre negato a me stesso nei fatti e
nelle parole. Ci credevo, e vedevo ogni mattina nello specchio il viso di un
uomo felice, vedevo i miei occhi brillare di una luce che non riconoscevo perchè
non era parte di me e mi sforzavo di ricordare l'ultima volta che mi ero
sentito così: riuscivo a recuperare solo due ricordi, i miei figli.
Con Victoria ci accordammo per
vederci dopo Natale, quando lei sarebbe stata in Italia, ma il giorno di Natale
era diventato un giorno che non avrei voluto passare nell'anonimato. Doveva
essere un giorno che qualunque cosa fosse successa, entrambi avremmo ricordato
per tutta la vita. Le avrei fatto una sorpresa, sì!
Quella mattina mi svegliai con la
dolcezza nel cuore. Sentivo il profumo della vita sfiorarmi le narici, mi
guardavo e mi dicevo "la vedrai".
Trascorsi la mattina aggirandomi
per casa senza trovare nulla di utile da fare per distrarmi dal pensiero di lei.
Feci qualche telefonata, scesi a passeggiare lungo il naviglio, ma i miei occhi
erano fissi sulla sua bocca, concentrati su quella immagine che a breve si
sarebbe materializzata davanti a me. Sentivo che era possibile essere ancora
più felice di quanto lo fossi stato nelle ultime settimane.
Mi vestii, mi legai un nastro dorato al polso destro e uscii.
***
Raggiunsi velocemente il paese nel
quale Victoria abitava con i suoi genitori, quando era in Italia. Mi fermai all’ingresso
del paese e la chiamai sul cellulare. Le chiesi se potevamo andare a bere un
caffé insieme e lei accettò.
La vidi da lontano, mentre
parcheggiavo. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Stavo per incontrarla
davvero. Lei era ferma, in un cappotto nero aderente, con i capelli neri che le
scendevano lisci e vellutati sul viso. Sentivo il mio cuore pulsare in modo
prepotente, quasi volesse richiamare la sua attenzione battendo più forte.
Anche lei mi vide ed i nostri
occhi si incrociarono sussultando per un attimo, persi gli uni dentro gli altri,
sospesi tra il cielo e la terra, assaporando la gioia di trovarsi finalmente di
fronte, dopo tanti giorni passati solo a scriversi e desiderarsi.
Lei sorrise. Era bellissima, più
bella che nella foto che avevo consumato. Mi bloccai, completamente tramortito dalla
sua inusuale bellezza.
Mi avvicinai lentamente, alzando
appena il braccio destro per mostrarle il fiocco rosso che mi ero annodato al
polso prima di uscire, come lei aveva chiesto che facessi per il nostro primo
incontro: voleva che fossi il suo regalo di Natale. Lei scoppiò a ridere
vedendolo e gli occhi le scintillarono.
Mi posi di fronte a lei e le
chiesi di non dire nulla, di mettere le mani di fronte a sé e contare fino a
dieci con gli occhi chiusi. Obbedì come una bambina e mentre lei contava, io
iniziai a volare verso il cielo.
Uno... Quanto era bella. Mi venne in mente la Regina degli Elfi.
Due... I suoi capelli neri e lisci le incorniciavano il viso. Avevo
voglia di toccarli, ma decisi di aspettare.
Tre... Le sue sopracciglia si aprivano a raggiera perfetta sopra i globi
chiusi e le lunghe ciglia si appoggiavano delicatamente sulle sue guance.
Quattro... Percepivano i globi che si muovevano titubanti sotto le
palpebre.
Cinque... Il suo naso era al centro di un ovale perfetto, regolare,
sensuale, sinuoso.
Sei... Le sue labbra di un rosso vivo contavano lentamente gli
istanti. Ne gustavo il movimento.
Sette... I denti bianchissimi e la lingua giocavano a nascondino
con le labbra.
Otto... Le vene sul suo collo pulsavano violentemente nel tentativo
di controllare quella forte emozione.
Nove... Il suo petto sobbalzava seguendo il ritmo incalzante del
suo cuore.
Dieci... Chiusi anche i miei occhi ed appoggiai deciso le mie
labbra alle sue.
Il primo tocco fu una sensazione
come di seta. Le sue labbra restarono immobili sotto le mie, quasi come se non
si aspettassero tanto ardire. Ne assaporavo la carnosità e la promessa della
passione e mi soffermai su di esse, dolcemente, immaginando che quel momento
potesse durare per sempre.
Tenevo strette le mie palpebre
perchè avevo voglia di carpire ogni sensazione, senza essere distratto da
null’altro che non fosse quel bacio. Volevo chiudere nella mia mente ogni
attimo di quel momento, per ricordarlo quando lei non sarebbe stata più con me.
Volevo sentire finalmente il mio cuore battere al ritmo del suo. Dentro di me
cresceva la convinzione che se anche fosse finito tutto lì, quel solo e singolo
bacio sarebbe valso la pena. Sentivo la sua pelle fremere sotto la mia, fresca
e delicata. Sentivo il suo desiderio che cresceva insieme al mio. Sembravamo
tutt’uno eppure eravamo in due.
Avevo voglia di stringerla, ma mi
trattenni: volevo rimanere concentrato tutto in quel bacio così a lungo
sognato, non volevo che nemmeno una piccola sensazione andasse sprecata o persa
o travalicata da altre emozioni. Ci sarebbe stato tempo, ne ero sicuro. Cercavo
di trasmetterle, in quel bacio, le emozioni che avevo vissuto dentro di me in
quel mese, regalarle le stesse sensazioni che lei mi aveva suscitato, portarla
in cielo e mostrarle il mondo che volevo conquistare insieme a lei. Assaporavo ogni
movimento della mia bocca, ogni risposta ricevuta dalla sua, ogni fremito delle
sue labbra, ogni angolo di pelle che la sua bocca sfiorava di me e per ogni
istante che passava e che vedeva le nostre bocche unite in quel modo così
unico, Victoria si insediava in me, penetrandomi sempre più nell’anima.
Io non riuscirei a dire quanto tempo
sia durato quel bacio.
So solo che la nostra storia
insieme è cominciata da lì ed il solo ricordo di quel singolo bacio, nonostante
molti altri ne siano seguiti, ancora mi riscalda nei momenti in cui lei non può
essere con me.
So che qualunque cosa accadrà tra
di noi, qualunque destino sia scritto in cielo per me e per lei, vicini o
lontani, io a lei sarò per sempre grato di quella piccola gemma, di quel
piccolo indimenticabile momento di felicità, di quella frazione di tempo nella
quale le nostre labbra si sono sfiorate, incuranti di ciò che ci stava intorno.
Quel piccolo bacio della mia Regina degli Elfi.
Nessun commento:
Posta un commento