lunedì 9 gennaio 2012

Il cappello di paglia


Ero a Cuba, Trinidad, quella sera. Con Fabiana e Manuel. Ero un po’ giù di corda, nonostante Cuba sia il posto peggiore per essere giù di corda, visto che tutto trascina dietro l’allegria. Eravamo in una locanda sulla spiaggia, faceva caldo, quel caldo che solo una tempesta tropicale porta con sé. Avevo comprato un cappello di paglia per mio padre. Lo indossai, assecondando Fabiana e Manuel che cercavano a loro modo di tirarmi su il morale. Quando mi voltai verso Fabiana, che sedeva alla mia sinistra, Manuel mi scattò quella foto. Non so se fu perchè mi colse alla sprovvista - Manuel non era quello che può essere definito un bravo fotografo, perciò credo più al caso che alla bravura -  ma in quella foto colse l’essenza della mia anima. Fu credo per quel motivo che decisi, tempo dopo, di caricare proprio quella foto sul mio profilo di Facebook.
All’epoca non sapevo, non potevo sapere, che quella foto mi avrebbe cambiato la vita.
Vicky

***

Era una delle solite serate di merda, in cui tutto il marciume che avevo dentro veniva fuori. Rabbia, delusione, angosce, paure. Tutto mi saltava dritto nello stomaco e veniva su, ad attanagliare cuore e cervello, a mordermi dietro il collo, a prendermi per il bavero e sbattermi contro un muro. Quello che ero stato si rivoltava contro di me, mettendomi di fronte alla triste realtà della mia vita e chiedendomene il conto, da pagare con il sangue.

Sentivo talmente tanta rabbia dentro che dovevo trovare un modo per sfogarla. Afferrai la bottiglia che avevo davanti e ne trangugiai un sorso, gustando il calore dell’alcool che scendeva giù nel mio ventre, ad infiammarne le membra. Crollai sul divano, ridendo di me, di quello che ero diventato con gli anni. Da buon padre di famiglia e marito tutto sommato esemplare, mi ero trasformato nel fantasma di me stesso, vinto dalle delusioni, sprofondato nell’assoluto scetticismo verso la vita. “Che capiti quello che deve capitare. Chi se ne frega, anche se muoio”. L’avevo pensato spesso negli ultimi tempi, e soltanto il pensiero dei miei figli mi aveva trattenuto dal saltare giù da un balcone: quella sarebbe stata la vigliaccata più grande che avrei potuto fare e loro, no, loro non se la meritavano.

Bevvi ancora, con il riso che si trasformava amaro sulla mia bocca. Mi passava davanti agli occhi la mia vita, come fossi in punto di morte. Mi sembrava di avere un peso sul cuore, una melma nera che mi trascinava giù all’inferno. Mi vedevo sul pavimento imbrattato dell’odio e della rabbia che nel tempo si era cumulata in me. Sentivo sospirarmi nel cuore e nelle orecchie tutta la paura che negli anni avevo provato. Guardavo con orrore il mio corpo imputridire e nell’illusione di sollevarmi da quell’incubo, la mia bocca continuava ad attingere al fiele dell’alcool, nel cui puzzo oramai ero immerso in modo indecente.

Mi ero abbruttito. Avevo perso la speranza che le cose si potessero risollevare. Mi dicevo “Non amerai più. Non sei capace di amare. Non vivrai più una vita normale”. Non avevo nemmeno una coscienza che mi rispondesse con un filo di voce. Quella coscienza era stata sotterrata a lungo dopo che me ne ero andato di casa, l’avevo persa nei letti che avevo cavalcato, nelle porcate che avevo fatto, nel tentativo di succhiare un po’ di amore dalla vita. E con la coscienza, avevo perso anche la dignità di vivere.


Mi alzai barcollando dal divano. Sentivo di dover vomitare. Speravo di buttar fuori non solo l’alcool che oramai galleggiava dentro di me, padrone del mio stomaco, ma le viscere tutte e gli organi vitali. Mi recai in bagno e affondai la mia faccia nel water, quasi a contatto con l’acqua, perchè la testa non riusciva più a stare su da sola. Fu come una cascata impetuosa quello che mi uscì dalla bocca, a ripensarci dovevo essere ripugnante. Avevo gli occhi arrossati, le vene del collo gonfie e la pelle che bruciava del mio stesso acido. Mi girava la testa, cercavo un punto dove reggermi. Alla fine persi ogni controllo sul mio corpo e mi ritrovai bocconi a terra, mentre l’ultimo conato di vomito si spargeva sul pavimento. Caddi perdendo coscienza, affondando in esso la faccia ed il petto.

Da quel momento non ricordo più nulla, fino al risveglio qualche ora dopo. L’odore di acido mi pulsava nella bocca e nelle narici. Lo stomaco era un macigno sotto il mio petto. La testa ruotava in tutti i sensi, come se qualcuno la stesse facendo dondolare apposta, sbattendola da una parte all’altra. Mi riaddormentai ancora per qualche ora e quando mi svegliai aspettai ad aprire gli occhi.

Mi facevo schifo. Innanzi tutto per l’odore che emanava il mio corpo. Poi perchè non ero nemmeno più buono a reggere una bottiglia di alcool come quando ero giovane. Sarei diventato un vecchio da ospizio, di quelli che le infermiere hanno schifo a toccare, di quelli che sbavano e non sanno nemmeno tirarsi su l’uccello per pisciare. Ero abberrante, dalla testa ai piedi, dal cervello al cuore. Non avevo scampo.

Cercai di alzarmi, puntando le mani sul pavimento e trascinando la parte superiore del corpo su verso il lavandino. Poi pian piano mi misi in ginocchio e mi tirai in piedi. Cercai uno straccio ed un secchio e ripulii dei miei umori il pavimento ed i sanitari. Mi feci una lunga doccia, prima calda poi fredda. Mi sentivo meglio, almeno fuori, perchè dentro ero vuoto, peggio di un cadavere ripulito dalle interiora.

Quando ebbi finito mi sedetti al computer e guardai la posta: un mio amico aveva pubblicato su Facebook le foto della festa che aveva organizzato in uno dei suoi viaggi di lavoro all’estero. Volevo sbirciare un sorriso, perchè avevo bisogno di un contatto con un’umanità normale, che vive anche di allegria e di spensieratezza. Seguii il link e mi ritrovai di fronte a persone quasi sconosciute.

Fu quasi per caso che mi colpì il suo viso. Non si vedeva bene, appena dietro le spalle di una bionda mezza nuda che si stava quasi facendo il mio amico. Seguii il tag di quel nome che più volte il mio amico mi aveva sussurrato sospirando: Victoria Menthos. Il nome rievocava la Grecia di mia madre, il mare azzurro e pulito, le spiaggie bianche dove da bambino mi aveva portato una volta. Sembrava essere una mano tesa per recuperarmi dal pozzo in cui ero e così la seguii, per associare a quella sensazione un volto dai contorni più definiti.

Victoria Menthos. Quando visualizzai la foto sul suo profilo, restai fulminato dal suo viso. Lo sguardo appena accennato sotto il cappello di paglia mi trapassò il petto e si annidò proprio in fondo alla mia anima, dove oramai nessuno da tempo avevo lasciato passare. Aveva oltrepassato inspiegabilmente ogni barriera, con quella penombra che offuscava i suoi occhi, il sorriso appena accennato di chi ha dentro qualcosa di importante che non si permette di dischiudere nemmeno attraverso gli occhi. Quel volto mi affascinava, sembrava promettere più di quello che lasciava intravedere. E profumava di buono, soprattutto.

Non so cosa mi successe quella sera. Fu come essere investito da una boccata di aria fresca e di speranza attraverso il video del computer. Il miracolo era sentirmi di nuovo “a casa”, dopo un lungo viaggio fuori di me. Sentivo riannodarsi i fili della speranza, sentivo che in me si stava schiudendo un sogno. Era assurdo, non sapevo nemmeno chi fosse quella ragazza. Ne avevo solo sentito parlare, eppure sapevo che lì, in quel sorriso accennato, in quello sguardo di sottecchi e un po’ imbronciato, si annidava la mia salvezza.

Forse fu l’istinto di proteggermi dall’ennesima delusione che mi portò a chiudere velocemente il PC e ad andarmene sul letto. Eppure quella pelle bianca, quella bocca carnosa, quel collo sottile e quel pendaglietto d’oro che lo sfiorava continuavano a presentarsi davanti a me anche ad occhi chiusi. Il suo volto era davanti a al mio, vivo e palpitante, potevo scrutarne ogni particolare, ripassarne i contorni e giocare con le luci e le ombre così come aveva fatto il fotografo.

Decisi che l’avrei cercata. E nello stesso istante in cui quel pensiero mi sfiorò, i miei occhi si chiusero e caddi in un sonno profondo dal quale mi risvegliai diciotto ore dopo.

***

La luce del giorno filtrò dalle persiane e si infilò delicatamente sotto le mie palpebre. Aprii gli occhi e mi meravigliai del fatto che non ci fosse più alcuna traccia della serataccia che avevo trascorso.

La prima cosa che apparve ai miei occhi fu il suo viso, nascosto dietro quel cappello di paglia appena sceso sugli occhi, teso a nascondere un mistero che desideravo si svelasse a me lentamente, giorno dopo giorno.

Mi alzai come in preda ad un sentimento quasi mistico, preparai il caffè, lo bevvi mentre sulle labbra mi accorgevo di avere uno strano sorriso, che in altri tempi avrei definito quasi ebete. Afferrai il computer e mi risdraiai nel letto. Mi collegai a Facebook e cercai di nuovo il suo profilo.

L'immagine che mi apparve coincideva straordinariamente in ogni suo punto a quella che era rimasta impressa nella mia mente: la falda del cappello che scendeva sul viso, lasciando intravvedere solo l'occhio sinistro, distrattamente perso in alcuni pensieri; i lineamenti regolari che disegnavano un contorno perfetto; il piccolo naso che riposava al centro dell'ovale regolare e le labbra che riposavano chiuse in un sorriso triste. Tutto era bello di lei, persino il particolare più insignificante.

"Chi sei?" le chiesi.

Non riuscivo a vedere altro di lei e della sua vita, perchè il profilo era soggetto a restrizioni per chi non le era amico. Non vedevo nulla della sua bacheca. Poche inutili informazioni per contattarla. Quello che sapevo di lei me lo aveva raccontato il mio amico. "Una ragazza straordinaria", mi aveva detto e ora potevo credergli.

Rimasi non so per quanto tempo con gli occhi incollati alla sua bocca. Ogni tanto scendevo sul profilo del collo e l'accarezzavo con gli occhi. Immaginavo di baciarla proprio nell'incavo dove il collo si univa alla spalla. Mi sentivo stupido e un po' adolescente, ma felice, e questo era un sentimento nuovo per me che avevo attraversato l'inferno fino al ghiaccio profondo che lo brucia.
Non riuscivo a ricordare l'ultima volta che in me erano nate speranze e sogni. Nemmeno da bambino forse ne avevo avuti. Non era stato nemmeno un privilegio da adolescente, quando i sogni di solito occupano in modo prepotente la realtà. Non ne avevo avuti a maggior ragione da adulto, da padre e da marito. Speranze e sogni erano chiusi in una cassaforte, della quale qualcuno si era dimenticato di darmi la chiave. Li percepivo dentro, ma non potevo usarli e, del resto, non avrei neanche saputo come fare.

Victoria rappresentava per me la felicità che si assapora quando ti vedi alla fine di un tunnel, quando sai che il peggio è passato, quando vedi il sole che sorge e realizzi che la notte è trascorsa, quando sei al primo raggio di luce che compare dopo un temporale. Era la chiave di questo scrigno, anche se non sapevo spiegarmi il perchè ne fossi così certo. Eppure sentivo di aver già ricominciato a vivere: sentivo il sangue che mi pulsava nella vene, potevo rintoccare ogni battito del cuore e sapevo, come un adolescente, che il mio cuore stava battendo per lei. La sua immagine era il mio pensiero felice, che mi faceva galleggiare nell’aria tersa degli spazi infiniti. Sognavo come fosse baciare le sue labbra, averla affianco e poterla sfiorare, poterla vivere di giorno in giorno, senza più preoccuparmi di soffrire.

Era sabato. Non avevo programmi per quel giorno. Non avevo voglia di alzarmi e rimasi lì per ore di fronte a quella foto, cercando nella testa una frase, una stupidissima frase per scriverle. Scaricai l’immagine, la misi sul mio desktop e chiusi Facebook per vincere la voglia di mandarle un messaggio.

Era quasi mezzogiorno quando mi alzai. Avevo una musica dolce in testa, un ronzio felice, una melodia a tratti più definita e due parole che continuavano a balzarmi nel cuore senza che potessi impedirglielo: "E’ lei".

Già, lei. Lei chi? La donna che ho sognato quando non avevo sogni nè certezze? La donna che ho cercato nei letti più improbabili? La donna che può salvarmi dal maleficio? No, mi dicevo, cercando di allontanare quella speranza che tante volte era rimasta delusa. È l'ultima illusione di trovare la felicità. Sono uno stupido se penso che per me ci possa ancora essere una speranza, una via d'uscita. La mia vita è questa, sostenevo a me stesso mentre radevo la barba e mi guardavo negli occhi. Chi ero io, in fondo? Vivevo in un appartamento in città grande abbastanza per ospitare i figli quando mia moglie mi concedeva di vederli; avevo una vita pieni di impegni, ricercati apposta per colmarne il vuoto; nessuna donna era mai stata in grado di tirarmi di nuovo dentro il vortice di un sentimento che non provenisse finalmente solo dalle parti intime e nascoste del mio corpo. Nessuna. Ma qualcosa mi spingeva a credere che Victoria avesse questo potere enorme su di me. E ciò che si sente è ciò che non si può né controllare, né spiegare. E’ il tuo istinto, è l’essenza di ciò che sei e ciò che sarai sempre. E l’istinto non sbaglia. Mai.

Uscii. Stare a casa mi costringeva solo a pensare a lei, a guardare il suo viso sul computer, provando ad immaginare la sua vita, le sue giornate normali, i suoi pensieri, i suoi istinti e le sue emozioni. Camminai per molto tempo, non ricordo più quanto, lungo il naviglio, guadando l'acqua nera e limpida che scorreva veloce. Immaginai quanto fosse ghiacciata e mi venne in mente l'immagine di lei, a spalle nude. Le sfiorai la pelle con il pensiero. Guardavo gli occhi della gente che incontravo e mi chiedevo come fossero i suoi, dietro quell'ombra del cappello.

Mentre camminavo mi ronzava in testa una canzone che avevo sentito spesso negli ultimi giorni. Le parole echeggiavano nella testa e me la riempivano. Tutto mi ricordava lei.

Make me strong, push me on and take a chance. Speravo di poter avere ancora una possibilità nella mia vita, ci contavo. Avevo sofferto troppo. Avevo a lungo lasciato che la mia mente e la mia anima si adagiassero in una vita che avevo creduto fosse fatta per me e invece ora iniziavo a ribellarmi all’idea che io meritassi ogni goccia del dolore che avevo provato. Learn to jump the waves. Sì, volevo cavalcare le onde, volevo provare finalmente un’emozione nuova, e non mi importava che potesse essere solo per un giorno. Avevo strisciato per anni, soprattutto gli ultimi. Adesso avevo bisogno di emergere, di ergermi contro il vento, di solcare la scia bianca di un’onda e non temevo dove mi avrebbe portato. Sentivo che non mi sarei schiantato. More than speaking, more than thinking, silently you're on my side. Non le avevo mai parlato. Non le avevo mai detto nulla. Lei era silenziosamente al mio fianco, ignara di tutto. Avevo voglia di restare a parlare con lei per ore, la testa sulle sue ginocchia, mentre mi accarezzava il viso. Fermo così, le avrei raccontato la mia vita, No disguise, no hide-and-seeking  senza cercare di nascondere quello che ero stato, ciò che avevo vissuto, il male che avevo ricevuto e provocato. Mouth to mouth you saved my life. La sua bocca. Desideravo baciarla. Desideravo che quello fosse il primo contatto fisico tra di noi.

Rientrai nel pomeriggio inoltrato, con la voglia di ributtarmi sulla sua foto. Aprii il computer, lei era lì con il suo sorriso da Monna Lisa un po' misterioso. Iniziai a ripetere il suo nome, prima nella mente, poi a fior di labbra, infine provai ad urlarlo per vedere come fosse pronunciarlo, ripeterlo nella mia casa come se lei fosse nella stanza affianco, come se potesse rispondermi, venirmi vicino, carezzarmi, abbracciarmi. Provai ad immaginare come fosse appoggiare le mie labbra alla sua guancia, nel punto vicino all'orecchio per farle sentire il mio sospiro, per appoggiarle la mia anima sul viso e farle percepire le lacrime vissute ed i sorrisi mai nati. E scesi giù sulle sue labbra, immaginando di accostarmi delicatamente, chiedendo quasi il permesso.

Mi riempì una sensazione quasi sconosciuta, perchè assente in me da tanto tempo. Il desiderio di lei si faceva sempre più pressante. Avevo voglia di vederla, di averla di fronte, vederne l'immagine intera e non solo quel piccolo pezzo di paradiso che era il suo viso.

Avevo voglia di sfiorarle la pelle e vedere se era davvero liscia e profumata come la immaginavo. Avevo voglia di tirar fuori dalla sua bocca pensieri e parole per conoscerla anche dentro, per sapere com'era stata la sua vita, quali sogni avesse, quali desideri la scaldavano di notte, quali dolori l’attanagliavano e quali impegni la occupavano di giorno. Volevo lei, completamente, e sapevo che rinunciare a lei era rinunciare all'unica occasione di vivere che il destino mi stava offrendo.

Così aprii il computer, mi collegai a Facebook e la cercai. E scrissi la frase più stupida che mi venne in mente: "Ciao. Vabbeh tu non mi conosci e magari ti darà fastidio, però c'è la foto con il cappello che è molto bella e desta curiosità. Mi piacerebbe conoscerti. "

***


Era fine novembre quando avevo visto per la prima volta Victoria su Facebook. Le settimane da allora a Natale erano trascorse velocemente, accompagnate da un vortice di sensazioni piene e palpabili che mi tenevano compagnia e mi inebriavano.

Ero in volo, mi sentivo a chilometri di distanza dalla terra, non riuscivo a scendere e per me che avevo sempre strisciato su di essa, questa sensazione era qualcosa di estremamente nuovo. Volavo tra le nuvole, guidavo il mio corpo in infinite ascese verso l'alto e godevo dell'adrenalina che accompagnava quel viaggiare.

Vedevo volare lei al mio fianco, ci spiavamo a distanza, guidavamo nella stessa direzione, all'unisono. Mi sembrava di conoscerla da sempre, tanto era l'affiatamento tra di noi, come due piloti di caccia che si fidano ciecamente l'uno dell'altro, che si muovono silenziosamente accanto, scrutandosi dal vetro, che sono capaci di scendere in picchiata nello stesso istante e poi virare all'improvviso di nuovo verso l'alto, sempre insieme, verso l'immensità del cielo.

La desideravo e la cosa che mi sembrava incredibile era che sentivo che anche lei desiderava me. E il mio non era solo un puro desiderio fisico, anche se l'immagine di lei oramai ossessionava la mia mente: il cappello sceso sulla fronte, il collo scoperto e quelle labbra rosee, carnose e sensuali che avevo davanti agli occhi in ogni momento. Desideravo baciarla, desideravo accarezzarla, desieravo stringerla e desideravo che lei mi accoccolasse presso di sè. Non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei. Era come se fossimo stati insieme da sempre e dovessimo rimanere insieme per sempre.

Sentivo l'urgenza di quel desiderio premermi dritto in fondo al cuore e non m'importava più di quanto avessi sofferto in tutta la mia vita: lei era diversa, io lo sentivo. E vedevo in lei la luce forte e abbagliante della salvezza dalle mie inquietudini, dal mio non vivere, dal mio trascinarmi stanco attraverso il tempo. Più di una volta mi ritrovai a pensare che se avevo continuato a vivere fino a quel momento ed ero riuscito a resistere a tutte le intemperie, era stato solo per incontrare lei. Mi stava raccogliendo nel momento più debole della mia vita, quello in cui vedi solo il baratro davanti a te e dietro di te c'è solo la brulla desolazione di una vita nella quale non hai combinato che casini. Lei era lì e non si sarebbe tirata indietro, ne ero certo.

Guardavo davanti a me ed avevo una speranza. Lei aveva aperto il forziere dei miei sogni: mi sentivo pronto e capace finalmente di dare qualcosa, sentivo l'entusiasmo crescere in me, la voglia di vivere e di dare un calcio al passato. Non pensavo più di essere nato per soffrire. Sentivo che lei poteva darmi quello che avevo cercato tutta la vita e non m'importava di aspettare qualche giorno, perchè dentro di me non avevo paura: avevo già perso tutto nella mia vita e se anche fosse andata male con lei, se anche quella magia fosse destinata a rompersi, quel miscuglio di emozioni e sensazioni aveva avuto il potere di rompere finalmente in me la sfiducia verso il futuro. Stavo riguadagnando i miei sogni, iniziavo a credere all’esistenza di un equilibrio nell'universo, che ti permette di riavere tutto ciò che ti è stato tolto, ma potenziato, arricchito.

Ero pronto a incontrarla. Non volevo immaginare nulla del nostro incontro, né il giorno, né il contesto. Non ero mai stato bravo a programmare la mia vita e non volevo iniziare a farlo, adesso, con lei. Del resto anche il nostro incontro si era collocato nella mia vita per caso. Mi venivano in mente quelle frasi stupide che ti dicono che la scoperta e la gioia ed il cammino sono nel viaggio e non nella meta ed io mi forzavo a crederci, solo per frenare il mio desiderio di lei, ma dentro di me sapevo che la meta era un premio ambito, che avrebbe superato per gioia e felicità il viaggio stesso.

Riuscivo a pronunciare quella parola, "felicità", che avevo sempre negato a me stesso nei fatti e nelle parole. Ci credevo, e vedevo ogni mattina nello specchio il viso di un uomo felice, vedevo i miei occhi brillare di una luce che non riconoscevo perchè non era parte di me e mi sforzavo di ricordare l'ultima volta che mi ero sentito così: riuscivo a recuperare solo due ricordi, i miei figli.
Con Victoria ci accordammo per vederci dopo Natale, quando lei sarebbe stata in Italia, ma il giorno di Natale era diventato un giorno che non avrei voluto passare nell'anonimato. Doveva essere un giorno che qualunque cosa fosse successa, entrambi avremmo ricordato per tutta la vita. Le avrei fatto una sorpresa, sì!

Quella mattina mi svegliai con la dolcezza nel cuore. Sentivo il profumo della vita sfiorarmi le narici, mi guardavo e mi dicevo "la vedrai".

Trascorsi la mattina aggirandomi per casa senza trovare nulla di utile da fare per distrarmi dal pensiero di lei. Feci qualche telefonata, scesi a passeggiare lungo il naviglio, ma i miei occhi erano fissi sulla sua bocca, concentrati su quella immagine che a breve si sarebbe materializzata davanti a me. Sentivo che era possibile essere ancora più felice di quanto lo fossi stato nelle ultime settimane.

Mi vestii, mi legai un nastro dorato al polso destro e uscii.

***

Raggiunsi velocemente il paese nel quale Victoria abitava con i suoi genitori, quando era in Italia. Mi fermai all’ingresso del paese e la chiamai sul cellulare. Le chiesi se potevamo andare a bere un caffé insieme e lei accettò.
La vidi da lontano, mentre parcheggiavo. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Stavo per incontrarla davvero. Lei era ferma, in un cappotto nero aderente, con i capelli neri che le scendevano lisci e vellutati sul viso. Sentivo il mio cuore pulsare in modo prepotente, quasi volesse richiamare la sua attenzione battendo più forte.

Anche lei mi vide ed i nostri occhi si incrociarono sussultando per un attimo, persi gli uni dentro gli altri, sospesi tra il cielo e la terra, assaporando la gioia di trovarsi finalmente di fronte, dopo tanti giorni passati solo a scriversi e desiderarsi.

Lei sorrise. Era bellissima, più bella che nella foto che avevo consumato. Mi bloccai, completamente tramortito dalla sua inusuale bellezza.

Mi avvicinai lentamente, alzando appena il braccio destro per mostrarle il fiocco rosso che mi ero annodato al polso prima di uscire, come lei aveva chiesto che facessi per il nostro primo incontro: voleva che fossi il suo regalo di Natale. Lei scoppiò a ridere vedendolo e gli occhi le scintillarono.

Mi posi di fronte a lei e le chiesi di non dire nulla, di mettere le mani di fronte a sé e contare fino a dieci con gli occhi chiusi. Obbedì come una bambina e mentre lei contava, io iniziai a volare verso il cielo.

Uno... Quanto era bella. Mi venne in mente la Regina degli Elfi.

Due... I suoi capelli neri e lisci le incorniciavano il viso. Avevo voglia di toccarli, ma decisi di aspettare.

Tre... Le sue sopracciglia si aprivano a raggiera perfetta sopra i globi chiusi e le lunghe ciglia si appoggiavano delicatamente sulle sue guance.

Quattro... Percepivano i globi che si muovevano titubanti sotto le palpebre.

Cinque... Il suo naso era al centro di un ovale perfetto, regolare, sensuale, sinuoso.

Sei... Le sue labbra di un rosso vivo contavano lentamente gli istanti. Ne gustavo il movimento.

Sette... I denti bianchissimi e la lingua giocavano a nascondino con le labbra.

Otto... Le vene sul suo collo pulsavano violentemente nel tentativo di controllare quella forte emozione.

Nove... Il suo petto sobbalzava seguendo il ritmo incalzante del suo cuore.

Dieci... Chiusi anche i miei occhi ed appoggiai deciso le mie labbra alle sue.

Il primo tocco fu una sensazione come di seta. Le sue labbra restarono immobili sotto le mie, quasi come se non si aspettassero tanto ardire. Ne assaporavo la carnosità e la promessa della passione e mi soffermai su di esse, dolcemente, immaginando che quel momento potesse durare per sempre.

Tenevo strette le mie palpebre perchè avevo voglia di carpire ogni sensazione, senza essere distratto da null’altro che non fosse quel bacio. Volevo chiudere nella mia mente ogni attimo di quel momento, per ricordarlo quando lei non sarebbe stata più con me. Volevo sentire finalmente il mio cuore battere al ritmo del suo. Dentro di me cresceva la convinzione che se anche fosse finito tutto lì, quel solo e singolo bacio sarebbe valso la pena. Sentivo la sua pelle fremere sotto la mia, fresca e delicata. Sentivo il suo desiderio che cresceva insieme al mio. Sembravamo tutt’uno eppure eravamo in due.

Avevo voglia di stringerla, ma mi trattenni: volevo rimanere concentrato tutto in quel bacio così a lungo sognato, non volevo che nemmeno una piccola sensazione andasse sprecata o persa o travalicata da altre emozioni. Ci sarebbe stato tempo, ne ero sicuro. Cercavo di trasmetterle, in quel bacio, le emozioni che avevo vissuto dentro di me in quel mese, regalarle le stesse sensazioni che lei mi aveva suscitato, portarla in cielo e mostrarle il mondo che volevo conquistare insieme a lei. Assaporavo ogni movimento della mia bocca, ogni risposta ricevuta dalla sua, ogni fremito delle sue labbra, ogni angolo di pelle che la sua bocca sfiorava di me e per ogni istante che passava e che vedeva le nostre bocche unite in quel modo così unico, Victoria si insediava in me, penetrandomi sempre più nell’anima.

Io non riuscirei a dire quanto tempo sia durato quel bacio.

So solo che la nostra storia insieme è cominciata da lì ed il solo ricordo di quel singolo bacio, nonostante molti altri ne siano seguiti, ancora mi riscalda nei momenti in cui lei non può essere con me.

So che qualunque cosa accadrà tra di noi, qualunque destino sia scritto in cielo per me e per lei, vicini o lontani, io a lei sarò per sempre grato di quella piccola gemma, di quel piccolo indimenticabile momento di felicità, di quella frazione di tempo nella quale le nostre labbra si sono sfiorate, incuranti di ciò che ci stava intorno. Quel piccolo bacio della mia Regina degli Elfi.

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