Non importa come mi chiamo. Potrei avere un nome qualunque, banale, di quelli dei quali l’anagrafe è piena oppure uno di quei nomi strani e buffi che prendono piede quando i serial americani hanno successo. Se avessi un nome diverso sarei sempre la stessa e sarebbe sempre la stessa la storia che sto raccontando.
Abito in una metropoli di quelle che d’inverno soffrono il freddo e quando esci di casa ti cola il naso e ti lacrimano gli occhi tanto è pungente l’aria della mattina. D’estate invece soffochi dal caldo, mentre i tacchi stretti e sottili affondano e si incastrano nell’asfalto molle e un po’ di vapore da terra crea una strana atmosfera. Una di quelle città del Nord dove il cielo non è mai azzurro, se non quando il vento soffia forte e si vedono le montagna. Una città qualsiasi che non cambierebbe se avesse un nome diverso e non cambierebbe la storia, questa maledetta storia.
Non ero sposata. Non avevo figli. Ero sola a trentacinque anni e non chiedetemi perchè. Amori sbagliati, amori perduti, amori soffocati: nomi che, quelli sì, sono ancora talmente importanti che basta riecheggiarli per far sanguinare le ferite che mi porto dentro. Eppure non mi piangevo addosso: avevo il mio lavoro da una parte e dall’altra i miei amici ed i miei hobby, che difendevo strenuamente dall’invasione di colleghi che solo perchè non sei sposata e non hai figli si sentono in diritto di rifilarti lavori fino a tarda sera o durante il week-end.
Abitavo al terzo piano di un palazzo in centro, uno di quelli del novecento, ristrutturato dentro e fuori. Un palazzo a quattro piani, quattro appartamenti per piano, di quelli piccoli, bilocali o trilocali, giusto per single come me, che non avevano troppe esigenze. Varcato il portone, un grande cortile al quale accedevano tre scale. La portineria era condivisa. La portinaia era la più classica delle figure che si possono immaginare: donna focosa del Sud, pettegola impenitente che ad ogni domanda che ti faceva spergiurava che lei sapeva tenere i segreti. Suo marito era ufficialmente giardiniere e curava le piante del cortile; di tanto in tanto si cimentava nei piccoli lavori che noi donne single non sapevamo a chi chiedere: imbiancare la casa, sistemare un’anta, spostare un mobile, portare su un divano. Avevano due bimbetti con le calzette sempre giù, che correvano e urlavano nel cortile, proprio nel momento in cui tu volevi dormire. La scalinata era ampia e lunga, in marmo, così come di marmo erano le pareti delle scale. Un marmo beige striato a varie tonalità sul pavimento e sul muro ed una grossa fascia di legno più o meno all’altezza della ringhiera.
All’epoca abitavo in quella casa da circa cinque anni. Mi ero trasferita dal Sud dove ero nata e avevo abitato finchè non mi ero laureata. All’inizio non guadagnavo molti soldi e vivevo in una camera in affitto con alcune studentesse. Poi il salto di qualità, quando la “Grande Banca” mi aveva fatto un’offerta. Avevo visto il mio piccolo mondo aprirsi, quando realizzai che potevo permettermi “il mio appartamento”, anche se solo in affitto. Trasferii le mie cose nel giro di una domenica mattina, qualche valigia piena di vestiti e poche cianfrusaglie di arredo. Impiegai circa sei mesi ad arredare la casa, perchè gustavo il comprare i vari oggetti solo quando ero convinta di non poterne proprio fare a meno. Ricordo che quando lasciai quella casa non c’era più un angolo che non mi ricordasse un viaggio, una persona, un luogo particolare, come se il mio passato si fosse stratificando intorno a me invece di scivolare e sciogliersi via.
Quando firmai il contratto di affitto non avrei mai immaginato quanto sarebbe cambiata la mia vita. Se avessi saputo allora quello che so adesso credo che la mia stilografica avrebbe esitato nel comporre il mio nome su quella carta legale, lettera dopo lettera e avrebbe sbavato e tremato.
Lo incontrai per caso, un venerdì sera che la città era allagata da un temporale estivo ed io rientravo con qualche busta della spesa, stanca e sfatta per aver trascorso il pomeriggio fino alle otto in ufficio. Avevo i capelli in disordine ed un po’ bagnati, tirati su con una pinzetta, il trucco spiaccicato sopra gli occhi, il volto smunto oramai privo di fard. Il tailleur umido e stropicciato non faceva più lo stesso effetto della mattina. Per dirvela tutta, l’impressione che avevo avuto di me guardandomi tra le vetrine illuminate del centro commerciale era stata quella di una ragazza sciatta e insignificante.
Lo incontrai proprio quella sera, una di quelle sere che pensi di voler solo arrivare a casa, non incontrare nessuno e sprofondare nel letto a dormire fino a mezzogiorno del giorno dopo. Al contrario di me, lui era perfetto, in giacca e pantalone nero, camicia bianca e farfallino nero ed aveva sceso le scale in modo disinvolto e silenzioso, proveniente dal quarto piano, proprio nel momento in cui io ero abbassata verso il pavimento dell’ascensore, la borsa con la tracolla che continuava a cadermi dalla spalla impicciandomi le mani, le maniglie delle quattro borse della spesa che non volevano saperne di incastrarsi nelle mie dita e, quando ci riuscivano, si infilavano sotto gli anelli facendo male. In quella posizione un po’ fantozziana indietreggiai, spingendo con il sedere la porta dell’ascensore che minacciava di chiudersi, e mi bloccai solo quando vidi due scarpe lucide dietro di me ed i risvolti di un pantalone da uomo, mentre su, ai piani alti di quella figura, un suono simile ad una risata accompagnava la mia uscita trionfale dall’ascensore. “Ma no, non adesso...” pensai tra me e piano piano, nonostante l’accenno di un colpo della strega alla schiena, gli dimostrai che malgrado tutte le apparenze, appartenevo anche io alla specie dell’Homo Erectus.
Vi sarà capitato qualche volta di essere – come diceva mio padre – “malmostoso”, una parola che già di per sé evoca questo malore interno, questo fluido un po’ liquido, nerastro, in continuo fermento. E vi sarà capitato qualche volta – quando eravate in questo stato – di incontrare uno sguardo, che come una spugna aveva in sè il potere di lavare via quell’umore appiccicaticcio e malevolo per regalarvi un sorriso.
Fu così, come nei migliori film d’amore americani, come nella tradizione delle favole di Walt Disney (o della Pixar, dovrei dire?), che i miei occhi spaziarono dai piedi – che ad occhio dovevano calzare il quarantadue – alle gambe lunghe la cui muscolosità si lasciava solo immaginare dietro il pantalone nero, alla vita stretta ed alle spalle larghe. E finirono per incastrarsi sul viso più bello che io avessi mai potuto immaginare di incontrare, non solo in quella serata umida e triste, ma in tutta la mia vita. Il colore della pelle dimostrava che trovava il tempo per le lampade o era appena tornato dalle vacanze. La barba aveva appena subito una sconfitta dalla lama di un rasoio e si era ritirata sottopelle. Il naso puntava dritto all’insù e si collocava piccolo e discreto tra i due occhi grigi più belli che avessi mai avuto la possibilità di incrociare. A coronare il tutto capelli biondo principe, ciuffo compreso, sbuffato verso l’alto con un movimento veloce del labbro. Avete mai visto “Vi presento Joe Black”? Qualcuno di molto simile al misterioso e temibile compagno di Bill Parish era davanti a me, piccola fiammiferaia che aveva perso oramai anche l’ultimo fiammifero, per poter sperare di accendere una luce nella sua vita.
So che non ti piacciono i complimenti, ma devo dirlo: caspita, che afflatum!
RispondiEliminaSorprendente, e detto di uno scritto tuo, che già di suo normalmente lo è...
accattivante, interessante...vado a leggere subito il resto!!!
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