Quella mattina mi alzai prima del solito mentre tutti ancora dormivano. Aprii le persiane per uscire sulla terrazza e mi trovai di fronte allo spettacolo più bello che ricordi, o forse lo ricordo solo perchè era quel giorno lì e non un altro. La Val d'Arno risplendeva del verde dei boschi sui pendii e il cielo azzurro lo contrastava netto verso l'orizzonte.
L'aria della mattina era frizzante e solleticava la pelle facendola raggrinzire per i brividi. Rientrai attirata dal profumo del caffè che si era sparso nella cucina e sfrizzolava nel naso. Non avevo fame, ma era normale. Eppur qualcosa dovevo mettere nello stomaco, perchè non brontolasse durante il giorno davanti a tutti.
Mi accorsi che mia madre era rimasta a guardarmi sulla soglia e solo quando incrociai il suo sguardo ed il suo sorriso, lei entró silenziosa, sedendosi di fronte a me, a guardarmi mentre ingurgitavo qel liquido nero e bollente dalla tazza fumante
- Ne hai fatta di strada, Niní...
- Che intendi, ma'? - le chiesi alzandomi per versare anche a lei una tazza di caffè
- La laurea, il lavoro fuori città... Sembra ieri che sgambettavi intorno a me...
- Dai non ricominciare... non oggi! - e le piazzai un bacio al centro della guancia, accorgendomi che era bagnata da una lacrima. - Vado a vestirmi...
- E' pronta la valigia?
- Sí, passo a prenderla dopo peró.
Mi vestii. Avevo scelto con cura il vestiario, dall'intimo bianco al vestito di seta color champagne, calze e scarpe. I capelli erano imbizzarriti come al solito ma non m'importava: adoravo i miei ricci castani con riflessi biondi che si intrecciavano sulle spalle e ricadevano fin sul petto nei loro giochi ad incastro.
Mi vestii, scesi ed ammirai le ghirlande di fiori e la decorazione del giardino che mia madre aveva curato personalmente. Salii in macchina con mio padre e lanciaii un bacio a mia madre, che mi guardava come una Giulietta dalla sua veranda.
La macchina scendeva lenta lungo la statale ed io guardavo la gente che ricambiava la mia curiosità con un sorriso. Ogni tanto volgevo lo sguardo su mio padre, sui muscoli tesi sul suo viso dalla pelle sbarbata: avevo intravisto i fumi dell’acqua bollente che si alzavano dal lavandino ed avevo ricordato la sua abitudine di lavarsi con l’acqua calda, affinchè i pori si aprissero meglio e si lasciassero svuotare.
Guidava con lo sguardo fisso in avanti anche quando era fermo ai semafori. Non si voltava verso di me: aveva paura di incontrare il mio sguardo e perdersi lì dentro come un bambino e sapeva di non poterselo permettere, non quel giorno.
Scendemmo dalla macchina solo quando la confusione intorno cessò e l'ingresso era libero. Guardavo quel portone maestoso, in legno massiccio, perso tra pietre bianche e grigie levigate e la torre affianco che si stagliava alta nel cielo azzurro. Dentro era buio e quando entrai feci fatica a vedere cosa fosse nascosto lì al chiuso. Quando gli occhi si sciolsero alla penombra sussultai, colta da una irrazionale voglia di scappare e l'avrei forse fatto se non mi avessero trattenuto due cose: la mia mano aggrappata al braccio di mio padre, con le unghie piantate nella sua giacca, che non si sarebbero mai staccate senza lacerarla ed i tuoi occhi, che intuivo fanali lontano, luci più verdi del bosco che trionfava fuori nella valle.
Quando tutto fu finito, tolsi il vestito color champagne e infilai i miei jeans ed una maglietta. Arrivammo a destinazione che era forse l'una o l'una e mezza, spossati di felicità. Entrammo in albergo e godemmo della vista della veranda sul mare di Portofino, sognando la notte stellata più lunga della nostra vita.
Eppur non era ancora tempo di chiudere gli occhi su quel giorno. Uscimmo e prendemmo un viale tra siepi brune, su fino a quella luce che continuava a girare aprendo il passaggio alle barche. Stretti in cima abbracciati vicino al faro, con la brezza del mare che accarezzava la pelle nuda delle braccia, ci baciammo e ripetemmo le parole che non ci stancavamo mai di ripetere, immaginando di trovarci dopo mille anni, a fare i guardiani di quello stesso faro, come se quella luce fosse il nostro amore.
"Sí". Sono le uniche parole che ricordo di quella giornata piena dei tuoi occhi, delle tue mani, dei tuoi sorrisi. "Sì" pronunciati a metà tra terra e cielo, dov'eravamo confinati insieme, le mani l'una nell'altra per darsi coraggio davanti a quella promessa che quando pronunci non sai mai quanto sarà difficile tenere.
È difficile, certo, mantenerla. È difficile tra le paure di ogni giorno, tra il sentirsi isolati, il non capirsi a volte, il viaggiare su binari differenti. È difficile quando la sera si è stanchi e si vorrebbe poter non parlare ma essere capiti al volo. È difficile quando ognuno è preso dai propri problemi e responsabilità e si rifiuta di condividerle. E’ difficile quando il dolore ti attanaglia e chi ti sta davanti non lo capisce o lo condivide senza che tu lo sappia.
Eppure si può, giorno dopo giorno, continuare a cercarsi e ad amarsi, in modo diverso, mai uguale, con l'affetto che solo una vita insieme aggiunge all'amore, con la speranza di trovarsi ancora sotto quel faro, in una notte fresca di metà settembre, davanti al mare, sotto un cielo di stelle.
Sniff di commozione.
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