Sono un uomo di quarantadue anni, separato. Mi chiamo – o sarebbe più giusto dire mi chiamavo – Sergio. Vivevo a Milano. Lavoravo a Milano. La mia vita era stata distrutta dalla separazione. Niente più famiglia, niente più orari regolari, niente più giochi e sorrisi. Solo le classiche menate dei separati: a che ora vieni a prendere i ragazzi, perchè hai fatto tardi, lo hai fatto apposta perchè sapevi che dovevo uscire, questo week-end per favore puoi tenerli tu perchè ho da fare, ti prego dammeli questo week-end perchè ho prenotato l’albergo in montagna per andare a sciare. Figli, che sono piccoli pacchi postali alla mercè di due che sono diventati sconosciuti egoisti.
Tutto ciò che davvero conta, quello che provi, quello che ti fa piangere o ridere o sognare o incazzare, ad un certo punto cessa di contare, travolto da una marea di banalità. Però sai che in fondo è colpa tua, che non hai saputo fare funzionare come si deve il matrimonio, tu che sei l’eterno Peter Pan e sfarfalleggi in giro con le altre mentre tua moglie fa andare avanti la famiglia a denti stretti. Sì. Questa è la mia fotografia, il solito stronzo che qualunque moglie separata dipinge sono io. Mi vedi di fronte, di lato, da dietro: sono proprio quello lì.
Detto questo, ho da raccontarvi una storia. L’ultima storia della mia vita. Quella più importante, quella che ti spezza il filo che tiene l’anima al corpo e la fa volare.
Era un periodo che ero stufo di tutto. La mattina mi veniva da vomitare al pensiero di andare a lavorare in un ufficio dove rimanevo rinchiuso a guardare numeri tutto il giorno, fatta eccezione per quelle due ore che il capo mi chiamava e mi strigliava per bene perchè non avevo ancora fatto la mia parte di quota. Quando uscivo dopo dodici ore di quell’inferno, il meglio che poteva capitarmi era di rinchiudermi a casa davanti alla tv, sdraiato sul divano a vedermi qualche stupida intervista politica. Due volte a settimana vincevo il premio dei figli, due strafottenti giovanotti di quindici e diciotto anni – perchè sì, io mi sono sposato presto – che non facevano altro che darmi dello stronzo per quello che avevo fatto alla loro madre. Senza sapere che in fondo la loro madre mi aveva tradito ben tre volte ed io ero semplicemente stufo di passare per l’idiota che si beve tutte le scuse di questo mondo. Ma non potevo dire nulla a loro, senza distruggere nella loro adolescenza la figura della madre e creare qualche strano complesso psicologico.
Fu così che un sabato mattina, uno dei week-end che ero libero dai ragazzi, salii in macchina e misi in moto senza pensarci troppo su. Erano circa le cinque di mattina e mi ero alzato incavolato dopo due ore che non riuscivo a prendere sonno, avevo messo un cambio, un costume ed un asciugamani in valigia ed ero partito per il mare. Avevo titubato un attimo in tangenziale, indeciso se andare verso il Tirreno o verso l’Adriatico e poi avevo deciso per Bologna, visto che oramai la Liguria la conoscevo fino allo scoglio più lontano sul confine con la Francia.
L’autostrada era deserta a quell’ora e si guidava tranquilli. Il sole era già abbastanza alto nel cielo, anche se non così tanto da non infastidirti proprio nel punto dove l’aletta parasole finisce e non riesce più a proteggerti. Infilai gli occhiali da sole ma era peggio e così decisi semplicemente di tirarmi su sul sedile, superando così il limite oltre il quale il sole riusciva a beffarmi, spingendo la sua luce nei miei occhi. Verso le sette ero a Bologna, fermo in una stazione di servizio a bere un caffè doppio bollente e a mangiare una briosche di quelle surgelate e riscaldate. Sempre meglio di quei quattro biscotti secchi che recuperavo dalla mia credenza la mattina.
Appena dopo l’uscita di Imola, dove inizia il raccordo per Ravenna, vidi scritto il suo nome, appena al di là del guard-rail, in lettere gigantesche su un cartellone pieno di fuochi di artificio e pensai... “Perchè no?”, così misi la freccia a destra e girai verso Ravenna.
Circa un’ora e mezzo dopo ero fermo in un enorme parcheggio. Scesi e mi diressi verso l’ingresso. Non c’era nessuno e capii anche che sarei stato lì ancora un po’ da solo, perchè l’apertura era prevista per le dieci. Mirabilandia. Vivi il divertimento.
Chiusi gli occhi e mi appisolai fino a quando il vociare di bambini non mi svegliò all’improvviso. Guardai l’orologio e mi accorsi di avere dormito per più di due ore. Bevvi un goccio d’acqua dalla bottiglietta che avevo preso alla stazione di servizio e arricciai il naso quando le bolle si infilarono dritte in gola raschiando le tonsille. Per fortuna – pensai – che è lievemente frizzante!
Pagai il biglietto ed entrai. Era un giorno di scuola e quindi non c’era molta gente. Meglio così: non avrei fatto code e mi sarei goduto la mia giornata senza rottura di scatole da parte di bambinetti con il moccio sotto il naso urlanti dietro alle loro noiosissime madri petulanti.
Seguii il percorso sulla destra, verso il Discovery ed il Columbia, due ascensori che ti portano l’uno con un’accelerazione pazzesca fino ai sessanta metri per poi scendere a balzi verso terra ed l’altro che sale piano ma poi ti precipita giù come un peccatore verso l’inferno. Nulla di particolare, se non il cuore che ti rimbalza in petto e qualche fitta che non ti aspetti. Un tuffo nel Niagara e poi il mal di pancia che spunta da dietro l’angolo quando incroci il Katun. Restai a guardarlo da sotto per più di mezz’ora. Vedevo queste navicelle di cinque o sei file, per quattro posti l’una, salire lentamente su un binario e poi scendere in picchiata lungo un percorso lungo più di un chilometro, con dislivelli da cinquanta metri a centodieci chilometri orari e giri della morte. Quando torni a terra, non sei più lo stesso uomo che è partito. Vedevo la gente con la faccia verde scendere da quelle navicelle e camminare verso l’uscita sorridendo ebeti. Decisi che non era per me. Non ero fatto per quelle spinte, quelle accelerazioni, quei viaggi a velocità folle dove non sai mai quando sei a testa in giù e quando con gli occhi al cielo.
Continuai così a gironzolare per il parco, mangiando dello zucchero filato, facendomi qualche gioco stupido come l’antro dei fantasmi o la ruota panoramica. Guardai lo spettacolo degli stuntmen per ben due volte, affascinato da quel mondo a metà tra lo spettacolo e la morte. Forse avrei potuto cimentarmi anche io – pensavo – e fu così che per gioco mi fermai a chiacchierare dopo lo spettacolo con qualcuno di loro per scoprire il limite tra stelle e realtà.
Fu così, verso il primo pomeriggio, che arrivai al gioco più pubblicizzato del momento. Stand rossi trionfavano davanti a me, richiamando il rosso del Cavallino più famoso che l’I-Speed ricordava. Autoscontro, prove di calcio e basket attiravano i ragazzini più dell’attrazione che a molti di loro era vietata per limiti di età o altezza. Forse più per curiosità che per altro mi misi in coda. Volevo capire, nè più nè meno come avevo cercato di capire come funzionava Katun. Non avevo intenzione di salire su quella macchina infernale che prometteva un’accelerazione da zero a cento chilometri all’ora in due secondi. Eppure la coda non era tanta e girando per i cancelletti mi avvicinai troppo all’ingresso proprio nel momento in cui un gruppo di ragazze sui venticinque anni stava salendo. Mi ritrovai seduto in quell’aggeggio infernale vicino ad una bionda davvero carina che sorrideva, mentre mi metteva una mano sulla coscia e iniziava a risalire verso le mie parti più intime. “Hai paura?” sembrava chiedermi ed io - dopo un attimo di perplessità, quando realizzai che si riferiva al gioco e non alla sua mano, non potetti fare altro che rispettare le sue aspettative dichiarando che “No, non ho paura. Perchè tu sì?”.
Non ricordo più nulla. Ricordo di aver lasciato il cuore alla partenza. Le orecchie piene delle urla di quelle ragazzine. Il vento sparato in faccia e le mani bloccate da qualche parte. Infine, negli occhi il buio. Nel petto uno squarcio. E infine una luce. Finalmente si scende, signori. Prego da questa parte.
Sono Peter Pan. Ricordate? Sono volato via così, verso l’Isola che non c’è.
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Dal Corriere della Sera – Edizione di Bologna – Domenica 12 settembre 2010
“Quarantaduenne milanese stroncato da un infarto su I-speed”.
Sergio Rocchi, dirigente di una nota società di consulenza informatica, è deceduto ieri sulla attrazione di Mirabilandia I-speed. Il suo cuore non ha retto alla accelerazione che viene imposta alla partenza e che fa raggiungere i cento chilometri orari in due secondi e due decimi. Il dirigente è stato ritrovato senza vita all’arrivo. Gli assistenti hanno notato che l’uomo non si alzava una volta rientrato alla base e quando si sono accostati a lui ne hanno constatato la morte. Accertamenti sono in corso sul suo stato di salute ed è stata disposta un’autopsia che sarà effettuata appena possibile.
dire che sei unica?
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