mercoledì 8 giugno 2011

MARCELLA - cap. 1

1.
Quando si guarda allo specchio, Marcella si ritrova a fissare un volto dall’espressione rabbiosa in cui spiccano gli occhi neri e lucidi per il pianto.
Non doveva andare così quella sera.
Si passa una mano tra i capelli scarmigliati, chiude gli occhi e sente tintinnare i braccialetti al polso destro mentre osserva il suo seno alzarsi ed abbassarsi accompagnando il respiro ad un ritmo che non le piace, che non le appartiene.
Inutilmente cerca di trattenere le ultime lacrime, mentre rivoli del mascara che non è colato durante l’amplesso ricominciano a rigarle le guance.
Sente il suo sudore, sente il vago aroma di patchouli che aleggia nel bagno, sente l’odore del fumo della sigaretta di Luca che filtra da sotto la porta – o forse se lo immagina soltanto, ma sa che lui sta fumando, mentre guarda fuori dalla finestra aspettando che lei se ne vada.
Bastardo.
Marcella si sciacqua la faccia e asciuga il viso, cercando di non pensare che ha ancora il sapore di Luca in bocca, l’odore di Luca addosso, e che fra pochi minuti uscirà da casa sua forse per l’ultima volta.
L’ultima volta. Così gli aveva detto Marcella, dopo le frasi urlate al cellulare mentre cercava un taxi in via Moscova. Dopo che Luca ha detto che era stufo di lei. Dopo che le ha detto che non voleva vederla più. Fammi venire per l’ultima volta, gli aveva detto Marcella.
Insieme al fumo da oltre la porta comincia ad arrivare anche una musica. Ecco. Appoggia la fronte contro lo specchio e chiude gli occhi fino a quando venature rosse e danzanti non compaiono nel buio dentro la sua testa. Stringe i denti e li sente quasi scricchiolare, avverte la tensione spasmodica dei muscoli che avvolgono la mandibola, le sembra di vedere gli occhi strizzati in una nuova esplosione di rughe mentre prova ancora a ricacciare indietro le lacrime. Ancora, ancora.
Sta stringendo le mani intorno al bordo del lavandino, e se potesse vederle saprebbe che le sue nocche ora sono bianche.
Respira profondamente, e pian piano distende i muscoli del viso. Indossa la maschera da fine della serata, ma stavolta non riesce a farla calzare come al solito.
Ricomponiti, Marci. Ricomponiti.
Respira ancora, mentre Marvin Gaye continua a cantare di un qualche tipo di Sexual Healing. Marcella pensa che sia ironico, perché quello che di sessuale ha la relazione con Luca (ossia, più precisamente, la relazione con Luca) non è affatto terapeutico, anzi. Marcella si vede magra, invecchiata, orrendamente patetica tra le sbavature di un trucco che sta cercando inutilmente di sistemare.
Bravo, Luca. Continua a giocare con me.
Apre la porta del bagno ed entra in salotto, dove in effetti Luca sta fumando di fronte alla finestra aperta. La stanza è buia e le uniche luci sono quella del display dello stereo e, di fronte a loro, quelle delle gru di City Life.
Pulsano nel buio, proprio come quella cosa che le sta scoppiando in gola e la costringe a respiri spezzati e febbrili.
Com’è stereotipato, Luca. Nudo ad eccezione dei jeans che contempla il panorama della città di notte.
Luca ama queste immagini da film di second’ordine. E’ rimasto fermo al mito di Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo.
Luca ama recitare. Ama recitare perché il suo vero se stesso è talmente infimo ed inutile che viene da chiedersi come possa essere diventato capo dell’ufficio legale di una grossa banca.
Luca sarebbe stato un grande attore. E forse lo è, perché altrimenti non avrebbe convinto Marcella a rischiare la sua famiglia per stare con lui. Per farsi scopare da lui. Anche quell’ultima volta.
Luca l’ha presa in giro fin dall’inizio. Le diceva sei mia, ma non come lo dice un uomo innamorato. Le diceva sei mia perché pensava che Marcella fosse quello – un oggetto di cui disporre quando voleva e per quanto voleva. Non oltre il tempo strettamente necessario.
“Sei pronta?”, chiede Luca voltandosi appena a guardarla con la coda dell’occhio.
Marcella non risponde e si muove verso di lui mentre la canzone sfuma. Luca si sposta silenziosamente e spegne la sigaretta nel portacenere di alabastro al centro del tavolo, tra le riviste di nautica che hanno perso il loro ordine perfetto, maniacale, quando Luca ha cominciato a prenderla lì, all’inizio della serata.
“Sono pronta”, risponde Marcella senza la minima sfumatura nella voce. Avrebbe potuto dire qualsiasi altra cosa. Avrebbe potuto dirgli “addio” in quel momento, ma Marcella è abituata ad essere l’eco delle parole di Luca. Specie quando si trovano a casa sua.
In ufficio no. I dipendenti sono incoraggiati a mostrare la loro individualità, a proporre alternative che mettono in discussione gli schemi abituali, a pensare out of the box. E luca apprezza i pensatori indipendenti – in ufficio. Forse ha notato Marcella per quello. O forse ha visto le sue gambe. Ha belle gambe, Marcella. Da ragazza non lo credeva, non lo sapeva – o fingeva di non saperlo: Marcella ha sempre finto, specialmente con se stessa. Ma adesso sa che ha belle gambe, e lunghe, e lisce, e sa che Luca ama sentirle serrate intorno al suo bacino, ama guardarle, ama sfiorarle con le mani. E a Marcella piace che Luca faccia così.
“Non monterei un caso, Marci”, dice Luca. Le sembra di vedere perfettamente la sua espressione, anche al buio. Ha un finto mezzo sorriso che non arriva minimamente a sfiorargli gli occhi. “Ti ho solo detto che non ti avrei riaccompagnato a casa stasera”.
Marcella sposta il peso del corpo da un piede all’altro e scuote la testa.
“Mi hai detto che mi davi i soldi per un taxi”, dice. Si accorge che sta sibilando la replica. Odia quel tono. “Come se fossi una puttana”.
E mi hai detto che non ne volevi più sapere di me, che dovevamo smetterla, e solo dopo che mi hai scopata ancora mi hai detto ‘ci rivediamo martedì’.
Luca sbuffa e si stringe nelle spalle. “Questo lo stai dicendo tu, non io”.
“Io lo dico ma tu mi ci fai sentire”, replica Marcella. Ha le dita serrate come artigli, e sente che la voce si sta incrinando. Cristo non piangere di nuovo. “Solo perché non sono un pezzo grosso del tuo ufficio di merda non significa che non possa pagarmi il taxi, cazzo”. Si rende conto che quello che dice è completamente insensato rispetto alla loro situazione ma in questo momento Marcella non riesce ad essere lucida.
Non quando pensa che venti minuti prima stava scopando con l’uomo che la sa manipolare come nessuno è mai riuscito a fare in trentacinque anni; non quando pensa che l’uomo che conosce meglio di chiunque altro ogni più recondito meccanismo della sua mente è anche quello più disinteressato a tutto quello che lei davvero è, a quello che lei veramente vuole; non quando pensa che durante il ritorno dovrà nuovamente inventare una storia di quelle che ha scoperto di essere sufficientemente brava da raccontare periodicamente a Maurizio. Una di quelle storie che giustificano rientri a tarda ora e i suoi laconici “solo voglia di una doccia e di dormire”.
“Ti ricordo che so perfettamente quanto guadagni”, ironizza Luca. “Non vuoi che ti paghi il taxi, ok. Non è un problema. La prossima volta…”
“Non so se ci sarà una prossima volta, Luca”. Le parole le escono così, e ancora una volta Marcella sente il proprio tono incolore. Quelle parole sono un miasma che si confonde con il fumo rimasto nella stanza. “Non so se voglio… Se posso andare avanti così”.
Luca appare dubitativo, ma solo per un istante. Si stringe di nuovo nelle spalle. “Sei tu che hai voluto venire qui stasera. Io avevo chiuso prima. Al telefono”.
Luca si infila le mani in tasca, la fronteggia. Ha un fare beffardo, sbruffone. Il suo solito modo di fare. “Sei tu che hai voluto tornare qui, stasera. Come vuoi tu. La chiudiamo qui allora. Da domani, di nuovo colleghi e basta”. Si avvicina allo stereo e preme un tasto. La musica si arresta, e Luca torna a fissare la crescita cancerosa di City Life. Aspetta che se ne vada. Come se fosse uno dei tanti cingalesi che vendono rose fuori dai locali.
La sua indifferenza la colpisce con un dolore sordo dentro, come quello del suo ciclo problematico. “Colleghi e basta”, ripete quasi senza sentirsi. Ancora una volta, è l’eco delle parole di Luca.
“A domani”, dice Luca.
Si domanda se Luca può vedere il suo riflesso emergere dalla parte più buia e avventarsi verso di lui prima di colpirlo la prima volta sulle spalle ancora leggermente sudate. Altri piccoli colpi seguono il primo, altri piccoli pugni mentre Luca si gira e le afferra entrambi i polsi. Luca non sorride. Luca non ha espressione.
I braccialetti mordono la carne sotto la pressione delle dita di Luca, probabilmente lasceranno un segno. Qualcos’altro da giustificare, ma adesso Marcella non ci pensa, perché lo sta insultando, gli dice che è un bastardo e un pezzo di merda e che non vuole vederlo mai più e che lo ammazza e poi Marcella piange di nuovo e mentre Luca non si muove di un millimetro lei rinuncia ad ogni sforzo e cerca di appoggiargli la testa sul petto. Luca si ritrae, le sue braccia piegate impediscono di accorciare la distanza tra loro.
Sta ansimando. Di nuovo quel ritmo, quella pulsazione così detestabile.
Infine, quando capisce che lei si è calmata, Luca distende lentamente le braccia, e lei è leggera come una bambola quando lui la allontana da sé. Leggera come una bambola. Ha la volontà di una bambola. Il viso inespressivo e striato di mascara e i capelli scomposti di una bambola gettata nell’angolo di una qualche discarica.
“Adesso ti dai una calmata e te ne vai, e domani in ufficio sarà tutto come prima”, dice Luca. Il suo tono è calmo, determinato. Il tono che utilizza nelle riunioni in ufficio, nei meeting con i clienti, nei colloqui con i superiori e coi collaboratori. Il tipo di tono che non ammette repliche, che non mostra la minima esitazione, il minimo ripensamento. “Capito?”. Sputa l’ultima parola.
Marcella annuisce, e Luca allarga le dita e le libera gli avambracci. Forse è solo una sua impressione, ma a Marcella pare anche che Luca si sia ritratto impercettibilmente, come se provasse ribrezzo nell’avere un qualsiasi tipo di contatto fisico con lei – adesso.
Sente ancora la voce di Luca, sta dicendo qualcosa a proposito del saper gestire quella situazione e Marcella coglie il significato senza distinguere le parole. Perché adesso è Luca ad essere l’eco di quelle parole che lei riserva a se stessa, mentre fa la doccia, mentre si addormenta, mentre è a letto con Maurizio e cerca di non fargli capire che non sta pensando a lui, mentre accarezza la fronte di Nicolò e Manuele al mattino, durante la colazione.
Non sai gestire questa situazione Marcella non sei in grado non sei mai stata in grado ti è piaciuta ti ha intrigato vuoi credere sia stato un gioco ma comunque l’hai giocato fino in fondo adesso ti chiami fuori perché non sai gestirlo non sei mai stata in grado non sai comportarti e non credere che sia colpa mia se a trentacinque anni ti infili in questi casini nel letto di un altro e adesso torna pure da quel cornuto di tuo marito torna da lui tanto non sa niente non saprà mai niente ma tu lo sai vero che lo sai Marcella oh sì lo sai bene l’hai sempre saputo
Luca è fermo, davanti a lei. Restituisce uno sguardo fisso e acuminato come un punteruolo al suo, vagamente catatonico.
Marcella gli volta le spalle, un po’ incerta sui tacchi come dopo certe sbornie quando era giovane, e si muove verso la porta. Incede ad un ritmo incostante, come se avesse un tacco rotto, ma in realtà sta solo pregando che le ginocchia non le cedano prima di essere sul pianerottolo.
Ha avuto esattamente quello per cui era andata da Luca, dopotutto.
Ha avuto Luca. Luca ha avuto lei. Era quello che voleva – chi? Marcella, Marcella lo ha voluto. Poteva tirarsi indietro quando Luca le stava offrendo una via d’uscita onorevole, come fa sempre ai suoi avversari in giudizio. Ma Marcella non ha resistito.
Ha voluto andare da lui, perché voleva sentirsi viva un’altra volta. Perché voleva sentirsi sporca un’altra volta.
Chiama l’ascensore e mentre scende dall’attico di Luca verso il livello della strada pensa che in fondo non merita altro che quello. Che non può avere altro che quello.
Non è vero, hai Maurizio. Maurizio non è così. Non è come Luca.
Le porte si aprono con uno sbuffo sommesso, e l’atrio del palazzo è vuoto. Oltre una stretta lingua di mattonelle autobloccanti sulle quali Marcella inciamperà, il cancello è aperto.
Marcella sente il ticchettio dei tacchi sul porfido, e riflette che per quello è stata lì. Perché Luca non è come Maurizio. Respira, l’aria è fresca. Sul marciapiede di quella via interna si ferma per un istante, mentre comincia a frugare nella borsa. Estrae con violenza il cellulare dal groviglio di chiavi, trucco, agendina, un libro gualcito. Sente qualcosa che cade tra i suoi piedi, ma decide che non le interessa.
Mentre accende il cellulare, quasi si augura che cominci a ronzare (Marcella tiene sempre il cellulare in modalità vibrazione) e che segnali una o due chiamate, magari da parte di Maurizio.
Ma non ci sono chiamate, e sul display si vede solo 23:13. Nessun messaggio, campo pieno, batteria al 90%.
Chiama il taxi, e riappende non appena la voce metallica recita Napoli 94 in sei minuti.
Sei minuti.
Una sigaretta. Fruga ancora, estrae il pacchetto di Gold e le dita sottili e pallide, nervose incespicano sulla rotella dell’accendino, una volta, due volte, tre volte. E’ agitata, e sente l’odore di un capello strinato che si mischia insieme a quello un po’ più acre della sigaretta. Fa uscire il fumo dalle narici di quel naso lungo e affilato sul quale Luca faceva scorrere le sue dita mentre i loro respiri rallentavano dopo l’orgasmo.
Abbiamo lavorato alla memoria difensiva per la class action, si ripete Marcella e si rende conto che sta annuendo. E’ un casino, rischiamo di avere una causa per milioni di euro. Da non dormirci la notte. Annuisce ancora. Luca è preoccupato e ci mette sotto pressione. Non sa gestire la tensione, quello stronzo. E vuole vistare ogni virgola. Non ho neanche mangiato, ma non ho fame, tesoro.
Si fa schifo, Marcella. Non ho fame tesoro. Quelle parole in bocca sanno di carne avariata. Avariata come lei, che butta la sigaretta a due tiri dal filtro e ne accende un’altra e intanto spera che non arrivi ancora quel cazzo di taxi. Guarda l’ora sul cellulare. Ancora due minuti, ma tanto i taxi non sono mai puntuali. Inspira. Espira.
Rimane lì ad aspettare di vedere lampeggiare i fari del taxi contro il muro della casa di fronte, e si domanda se Luca non sia uscito dal terrazzo e non stia guardando giù, verso di lei. Non sente il suo sguardo addosso. Vorrebbe sentirlo ma sa che lui non la sta osservando. Starà già facendo la doccia, o starà ascoltando la sua musica, o starà bevendo, o fumando – ma di sicuro non è sul terrazzo.
Getta la sigaretta ed entra nel taxi.

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