Il sole era ormai tramontato oltre gli alberi spogli e il cielo già coperto da nuvole scure di pioggia, sembrava minacciare un nuovo acquazzone.
Maledissi il vento freddo che mi correva sul collo, nudo per colpa dei capelli troppo corti, poi mi accesi una sigaretta, l’ultima del pacchetto.
Doveva funzionare, dannazione, era un piano perfetto. Aumentai il passo, scansando quanti più passanti possibile, ma non tutti erano così furbi da evitare per primi di trovarsi nella mia traiettoria per non scontrarsi con me. Una ragazza non troppo alta, bionda e piuttosto giovane che parlava fitto al cellulare, non si preoccupò nemmeno di spostarsi, schiantando direttamente la sua borsa firmata contro la mia mano, facendo cadere la sigaretta dritta in una pozzanghera. Lanciai un’imprecazione, facendo in modo che la sentissero tutti per bene, ma la diretta interessata continuò a squittire con quel tono odioso al cellulare. La seguii un momento con lo sguardo, quasi sorpresa da tanto menefreghismo, poi scossi la testa sbuffando e ricominciai a camminare a passo deciso.
Camminavo veloce, ma riuscii a notare le luminarie natalizie che decoravano tutta la via, addolcendo il grigiore della stagione con tonalità calde.
Il cellulare vibrò per qualche secondo, poi smise. Lo tirai fuori dalla tasca e lo aprii trovandoci una chiamata persa di un numero privato. Era il segnale. Guardai l’ora e rimasi piacevolmente sorpresa di essere in anticipo di quasi un’ora, ma non per questo rallentai il passo. Raggiunsi finalmente la stazione della metro e velocemente saltai oltre la bassa ringhiera in pietra, con uno scatto scesi nella zona delle rotaie e mi arrampicai nuovamente sulla banchina, sotto gli sguardi sorpresi dei presenti. Sorrisi, un sorriso finto, fatto apposta per metterli a disagio e spingerli a togliermi gli occhi di dosso. Dopo pochi minuti arrivò il treno giusto e senza preoccuparmi di chi scendeva e chi saliva, presi il mio posto con qualche spintone e cominciai a fissare il paesaggio correre fuori dal finestrino.
Sentii due anziane signore commentare la mia entrata in scena e augurarmi di incontrare uno dei controllori che spesso si fanno vivi sulle metro. Sorrisi e scossi la testa. Beate loro, che si accontentano di augurarti una brutta giornata, ma più di così non fanno. Sono sagge loro, sanno che aspettarsi il male di una persona porterebbe solo guai, e non solo in questa vita, ma anche più in la. Mi tocca ammettere che nutro un profondo rispetto per le persone anziane, sono l’espressione massima della coerenza a mio avviso. Sanno in quello che credono e continuano a crederci nonostante tutto.
La voce registrata annunciò la mia fermata e mi riportò bruscamente alla realtà. Scattai in piedi ed usci con una camminata decisa dal vagone, superando poi la folla e correndo sulle scale per uscire.
Aveva incominciato a piovere, di nuovo. Mi coprii la testa con il cappuccio della felpa e istintivamente cercai il pacchetto di sigarette, ma trovandolo vuoto lo accartocciai e lo buttai via. Camminai per mezzora, più o meno, lungo quella strada deserta che avevo percorso fin troppe volte nell’ultimo periodo. Mi guarda attorno poi con un movimento il più possibile naturale, feci toccare le mie caviglie, accertandomi che non avessi perso nulla durante la mia rapida camminata e le acrobazie in metropolitana. Raggiunsi l’ingresso di una strada laterale, sporca e male illuminata e mi addentrai nell’oscurità, fino a raggiungere una porta in legno, consumata dal tempo e dall’assenza di cura, sulla quale battei due colpi pesanti e un terzo dopo qualche secondo di attesa. Sentii lo stesso ritmo ripetersi sul vetro della finestra superiore ed entrai.
Per la prima volta in quella giornata ebbi paura.
“E se non funzionasse?” pensai. “No, allontana la negatività. Non sei fatta per essere negativa e tantomeno per avere paura. Andrà tutto bene.”
Salii le scale lentamente, trattenendo il respiro, come se potessero sentirlo. Ma in fondo mi aspettavano, no? Eppure l’ansia cresceva.
Alla fine delle scale mi accorsi di avere i palmi delle mani sudati e li asciugai frettolosamente sulla stoffa dei pantaloni. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli dal volto e dopo aver inspirato profondamente tre volte aprii la porta.
La voce che mi diede il benvenuto era quella di Hernàn de la Roca, boss colombiano della droga, pluriomicida, stupratore.
Il mio nome è Catalina Guilmar, e il mio compito era entrare nel suo mondo e distruggerlo.
Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci
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Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a
superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata
e un...
1 mese fa
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