Cosa stava succedendo? Tutte quelle informazioni, tutte quelle storie, tutti quegli intrecci mi stavano fondendo il cervello. Sentivo la testa come se la stessi tenendo sott’acqua. Respiravo a fatica. Il mio corpo era paralizzato. Percepivo ogni singolo battito del mio cuore rimbombarmi nella testa.
Marcos aveva un figlio, ma era una bugia. Non ne aveva mai avuti. Dovevo portare droga in Italia, una missione seguita e senza rischi, ma avrei dovuto ingoiare ovuli con dell’esplosivo. Marcos non aveva mai avuto figli, era tutore del figlio di Hernan, nato per stupro. La donna stuprata si chiamava Sabrina Almodez, e Almodez era il cognome dell’uomo per cui avevo lavorato anni prima. Avevo conosciuto Sabrina, me la ricordavo era una donna bellissima, con capelli lunghi e neri…
Un lampo mi passò negli occhi. Io avevo conosciuto Sabrina.
Come poteva aver avuto figli ed essere sparita? Cosa diamine mi stava raccontando?
-Tutto a posto?- mi chiese Marcos. Annuii senza alzare lo sguardo dal pavimento. Mentiva, di nuovo. Ma che senso aveva mentirmi adesso? Lo guardai negli occhi e lui mi sorrise leggermente.
-Dobbiamo andarcene di qui, Cat.- annuii e gli chiesi di uscire, così potevo sistemarmi. Appena chiusi la porta altri mille dubbi e mille domande mi invasero la testa.
Cosa era successo? Perché mi mentiva? Perché ovunque mi trovassi era il posto sbagliato? E soprattutto, cosa dovevo fare? La mia fronte sbatté contro la porta, mentre le mie spalle si rilassavano di colpo. Ero esausta. Non ce la facevo più, quella storia mi stava prosciugando ogni energia fisica e mentale. Inspirai a fondo e pensai a casa mia. A mia madre, mia sorella e a tutte le persone che contavano su di me e me lo dicevano sorridendo. Dovevo farcela. In un modo o nell’altro dovevo mettere fine a quell’incubo. Alzai la testa e mi passai una mano tra i capelli. Si, dovevo farcela. Recuperai un borsone da viaggio impolverato dall’armadio e vi buttai dentro dei vestiti scelti in fretta, un pacchetto di sigarette già incominciato e la mia pistola di riserva, già carica. Chiusi la borsa e la guardai. La riaprii con le mani tremanti e la svuotai ancora più velocemente, ridussi il carico e lo chiusi in uno zainetto che mi caricai in spalla. Indossai un cappello nero che abbassai fino a coprire quasi gli occhi, presi il mazzo di chiavi appoggiato sul comodino e cercando di muovermi il più velocemente e silenziosamente possibile uscii dalla finestra, raggiunsi la scala antincendio e corsi giù, fino al parcheggio. Raggiunsi la mia moto, una Ducati Hypermotard usata si e no tre volte, e partii spingendola al massimo per allontanarmi il prima possibile, prima che Marcos potesse rendersene conto.
In pochi minuti raggiunsi il centro della città e proprio mentre puntavo verso l’unica strada che poteva portarmi fuori città, mi accorsi di una macchina nera dietro di me, che accelerava a vista d’occhio.
Maledizione, è una delle auto di Hernan.
Accelerai anche io e alla prima curva svoltai, facendo perdere il controllo ad una altra moto che arrivava dalla direzione opposta. Sentivo la moto soffrire, sapevo che la stavo tirando troppo, ma non avevo altra scelta. L’auto mi stava dietro e si avvicinava sempre di più. Poi improvvisamente cominciò a rallentare e a mantenere un percorso rettilineo.
Dio, no, no, NO!
Bruscamente portai la moto sull’altra corsia, un istante prima di udire lo sparo. Ero sotto tiro. Cominciai a muovermi a zig zag sulla strada, cercando di evitare le altre auto e soprattutto di mantenere in piedi la Ducati. Sentii un proiettile sfiorarmi l’orecchio destro e poi un bruciore si diffuse dove prima era passato il colpo. Gli occhi mi si riempirono istintivamente di lacrime, proprio mentre piegavo la moto per portarmi sull’altro lato. Sentii lo stridore della carena sull’asfalto, e un secondo dopo rotolavo sulla strada. Quando mi fermai avevo in bocca il sapore del sangue misto a terra. Aprii debolmente un occhio e notai che ero finita sul prato a lato della strada.
Poggiai le mani a terra e provai ad alzarmi, ma un colpo sulla schiena mi rimandò stesa a terra. Avevo fiato corto e la pelle appiccicosa per colpa del sangue, iniziavo a sentire il dolore diffondersi in tutto il corpo, partendo dal punto in cui mi avevano colpito alla schiena. Chiusi gli occhi e lasciai scorrere le lacrime, mentre venivo alzata di peso e caricata con malagrazia in un’auto che odorava di cibo stantio, birra e marijuana.
L’auto ripartì e sentivo il vociare allegro delle persone all’interno: commentavano la mia moto, il mio stupido tentativo di fuga, il mio corpo.
Animali schifosi. Pensai stringendo i denti per non urlare dal dolore. Probabilmente mi ero rotta un braccio, e sanguinavo ovunque, sentivo il sangue bagnare i miei abiti e appiccicarli al corpo.
Dopo un lasso di tempo indeterminato l’auto si fermò e il motore si spense. Ovunque fossimo, eravamo arrivati. Venni trascinata fuori dall’auto e costretta a sorreggermi sulle mie gambe malferme. Quando le braccia dell’uomo che mi sostenevano mi lasciarono crollai a terra come un neonato, suscitando le risate del gruppo. Altre braccia mi alzarono e mi portarono all’interno di un edificio. Tenevo gli occhi chiusi, poiché il sangue, la terra e il sudore mi rendevano impossibile aprirli. E poi che senso avrebbe avuto aprirli? Cosa avrei visto di nuovo? Corruzione, droga, denaro sporco, menzogne e morte.
Questo era il mondo di De La Roca e io ci ero finita dentro per bene. Ma, diamine, dove erano gli altri della mia squadra? Mi era stato assicurato che sarei stata monitorata giorno e notte. Che il microchip sottocutaneo al quale ero fortemente contraria era di vitale importanza, ma adesso che ce l’avevo, dove erano loro? Perché nessuno si era preoccupato di controllarmi? Che razza di lavoro era quello?
Venni scaraventata a terra, con altre risate e commenti idioti. La mia guancia premeva contro un pavimento freddo, un freddo che entrava nel corpo e mi dava brividi ovunque.
Aprii debolmente gli occhi e vidi un paio di scarpe lucide nel mio campo visivo. Una mano mi strinse i capelli sulla nuca e mi alzò il volto, mettendomi faccia a faccia con…
Marcos.
-Marcos…- lui mi sorrise, poi mi sbuffò del fumo sul volto.
-Ciao, Cat. O Eva, come preferisci.-
-Cosa sta succedendo Marcos?- chiesi debolmente, rassegnata e sofferente.
-Io vinco, tu perdi. Semplice Cat.-
-Io ti ho dato tutto Marcos.- sussurrai mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Mi sentii incredibilmente stupida mentre parlavo, o meglio frignavo come una bambina, implorandolo di svegliarmi da quell’incubo. Volevo sentirmi dire che mi avrebbe salvata e protetta, che saremmo usciti da quella storia insieme. Smise di ridere, una risata scaturita dalle mie parole sussurrate e mi guardò negli occhi, tenendomi una mano sul volto.
-E mi sei stata incredibilmente d’aiuto Cat. Sei stata proprio brava, hai fatto tutto quello che dovevi fare e senza battere ciglio.- rise di nuovo e mi diede un ceffone in pieno volto, continuando a ridere.
-Eri pronta a buttar giù dell’esplosivo, povera cretina. È bastato prometterti il minimo per usarti a mio piacimento. Voi donne, quanto siete stupide.- le lacrime adesso scorrevano sul volto. Le sue parole mi colpivano come pugni nello stomaco. Erano vere, aveva ragione. Mi ero lasciata andare troppo facilmente. E per cosa? Per un niente. Per un braccio rotto, un viso sfregiato e, molto probabilmente, una pallottola in testa.
-Mi hai mentito. Mi hai mentito sempre. La storia di tuo figlio, che poi era figlio di Hernan, il carico di droga, la sparatoria, le bombe. Sapevi tutto.- mi sorrise pietoso.
-Tutti mentono, Cat.-
-Hai detto di amarmi una volta.- rise di nuovo.
-E tu hai accettato di portare abbastanza cocaina da rimanerci secca se solo starnutivi. Come hai fatto a non accorgerti del collegamento, bimba?-
-Io mi fidavo di te.- l’uomo che mi teneva il volto alzato mi lasciò andare bruscamente e io ricaddi a terra, con una guancia sul piede di Marcos, che mi allontanò con un movimento brusco.
-Portatela di là.- la sua voce suonò fredda e piatta mentre dava l’ordine agli uomini che mi avevano trascinato in quell’edificio. Quando mi tirarono in piedi vidi i loro volti in uno specchio sulla parete di fronte.
-Andreas? Diego?- la mia voce strozzata uscì come uno squittio.
Andreas Ruìz, vicedirettore dell’ufficio dell’antidroga per cui lavoravo.
Diego Vázquez, addetto alla creazione di alias, detto anche “Questo microchip sarà l’unica cosa che ti salverà il culo, chica.”Loro si guardarono per un momento, poi abbassarono lo sguardo e venni trascinata nella stanza accanto e buttata a terra.
Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci
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Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a
superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata
e un...
1 mese fa
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