Liliana si svegliò di soprassalto, sentendo la madre girare
frettolosamente per casa. Andava dalla sua camera al tinello. Sentiva che
frugava nel suo armadio e poi con passi svelti usciva. Tornava, frugava ancora
e poi usciva.
Rimase con gli occhi chiusi per almeno un quarto d’ora,
cercando di convincersi che non stava accadendo davvero, ma quando aprì gli
occhi constatò che il suo armadio era stato svuotato. Sollevò di scatto le
coperte e corse nel tinello, dove un paio di valigie si presentarono ai suoi
occhi, pronte per essere portate via, da qualche parte, lontano da Milano.
«Io non
voglio andare via! Io voglio restare qui...» disse, scoppiando a piangere.
Sua madre la guardò immobile, incerta se rimproverarla o se
stringerla al petto come faceva quando era piccola e piangeva inconsolabile per
qualche capriccio o qualche piccola ferita. Non si erano mai separate da quando
era nata: quella sarebbe stata la prima volta, ma era l’unica cosa giusta da
fare in quella maledetta guerra... Liliana non doveva rimanere a Milano, non
doveva vedere la morte e la distruzione, doveva starne fuori e non
immagazzinare ricordi che l’avrebbero ferita anche a decine di anni di distanza.
La guardò serena, le si avvicinò e l’abbracciò piangendo: «Piccola mia, credimi, non lo
farei se non fosse necessario. Io e tuo padre dobbiamo restare qui, non
possiamo venire con te. Andrai dallo zio Eustachio. Starai bene con loro,
fidati. Ci sono Giorgia, Nella... sono le tue cugine, non starai male,
piccola... e poi appena potremo, verremo a riprenderti. Non puoi stare qui
adesso, è pericoloso... Non puoi... Non voglio...»
Liliana le urlò contro: «E
non conta quello che voglio io, mamma?» e scoppiò a piangere ancora più forte,
mentre sua madre la traeva al petto e le accarezzava i capelli. Rimasero
abbracciate, strette l’una all’altra, singhiozzando e gettandosi addosso il
dolore di quella inconcepibile separazione. Poi la madre si staccò da Liliana e
le disse: «Ora vai a
vestirti, lo zio arriverà tra poco.»
Liliana si asciugò le lacrime. Si vestì, tornò nel tinello e
si sedette al tavolo dove sua madre stava sistemando delle carte per il
viaggio.
«Mamma...»
«Dimmi, tesoro...»
«Mamma, ti prego... posso andare
verso Corso Buenos Aires? Torno presto, te lo prometto...»
«A fare cosa, Liliana? Tuo zio
vuole rientrare subito a casa...»
«Devo
salutare una persona. Ti prego, mamma, è importante...»
In quel momento bussarono alla porta. La madre guardò
Liliana con tristezza.
«Devi
andare, mi spiace Liliana. E’ lo zio.»
Liliana partì. Con i due occhi di cioccolata fumante fissi
nella sua mente ed il cuore a pezzi. Il viaggio fu lungo, su un carretto che si
trascinava su strade dissestate, piene di sfollati che lasciavano Milano, con
la paura negli occhi ed il dolore di addii consumati tra le lacrime. Il rumore
delle ruote sul pietrisco accompagnava quel lento incedere di uomini, donne,
vecchi e bambini. Liliana guardava i visi cercando tra di loro quello di
Virginia. Non faceva altro che pensare a lei, alla promessa di tornare che le
aveva fatto. Una promessa che non era riuscita a mantenere e che le bruciava
sulle labbra strette che si morsicava di continuo, quasi come se volesse
punirsi.
Gli zii abitavano a Castiglione d’Adda, nel Lodigiano. Molti
degli sfollati di Milano si erano rifugiati lì. Rimase con gli zii fino al
maggio del 1945, quando a guerra finita i suoi genitori andarono a
riprendersela. Furono anni duri, difficili, nei quali si era dovuta adattare ad
ogni genere di privazione, nei quali aveva imparato a razionare il cibo, a fare
lunghe code per il pane, le patate, lo zucchero, persino i vestiti. Di tanto in
tanto i suoi genitori l’andavano a trovare, ma le visite prima più frequenti
erano diventate con il tempo sempre più difficili: le strade erano
impraticabili e la paura di muoversi spesso aveva spinto sua madre e suo padre
a rinunciare a quei viaggi. Sua madre le scriveva ogni giorno: le raccontava
che scriveva di sera, al lume di candela. Scriveva per sfogarsi, si perdeva nei
particolari della sua giornata. E non parlava mai di sentimenti. Le sue lettere
erano solo pura cronaca, nemmeno un piccolo riferimento a quanto le mancasse la
piccola Liliana. La guerra aveva chiuso il cuore: dovevano sopravvivere, non
c’era spazio per le emozioni, nè quelle di gioia, nè quelle di dolore. Liliana
ne soffriva, ma era abbastanza grande da capire che il dolore, a volte, chiude
ogni spiraglio di vita e di speranza.
Per sopravvivere, Liliana si chiudeva la sera nella sua
stanza e leggeva libri inglesi del primo novecento, che sua zia Adelina le
aveva regalato. Le era piaciuta moltissimo Virginia Woolf: si nutriva delle sue
parole, delle sue lunghe frasi, delle sue intense emozioni e, quando poteva,
provava a scrivere in quello strano modo che aveva imparato chiamarsi lo “stream of consciousness”. Si sentiva
affine a lei, si sentiva come lei orfana di madre, orfana delle persone a lei
più chiare. Si sentiva affascinata dalla sua vita, dalla sua storia con Vita
Sackwell-West, si chiedeva se fosse davvero possibile un amore tra due donne o se
non fosse da scacciare come peste, se non fosse da ripulire dal corpo
spulciandone ogni singolo sentore all’apparire. Rilesse Una stanza tutta per sé almeno un paio di volte, per impossessarsi
ogni volta di più della fiducia che la scrittrice aveva nelle donne. Sperava di
diventare un giorno come lei, sperava di scrivere sempre di più e per questo si
cibava di parole, quando non poteva mangiare altro. Non si stancava mai di
leggere “Perché una volta che il male di
leggere si è impadronito dell'organismo, lo indebolisce tanto da farne facile
preda dell'altro flagello, che si annida nel calamaio e che suppura nella
penna.” E lei aveva bisogno di scrivere per liberarsi dei sentimenti che le
opprimevano il cuore. E più sentiva il bisogno di scrivere, più leggeva e cercava nei libri quei sentimenti
che la guerra le aveva portato via.
Fu per caso che scoprì
Orlando, la bellissima lettera
d’amore che Virginia Woolf aveva scritto per la sua amante. Lo teneva sul comodino,
ed ogni sera lo sfogliava, ne ripercorreva i pensieri. Imparò intere frasi a
memoria e iniziò a scrivere poesie. Riuscì a recuperare persino un piccolo
diario dal prete del paese, e sulla prima pagina scrisse una piccola frase di
Virginia Wolf riferita ad una ipotetica sorella di Shakespeare: “Chi mai potrà misurare il fervore e la
violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo
di donna?”
Virginia. Quel nome di donna le era caro. Forse era stato il
destino, forse una banale coincidenza, che una scrittrice famosa si chiamasse
proprio come colei che le occupava la mente ed il cuore con un solo piccolo
ricordo. Non c’era sera che non pensasse a quegli occhi scuri che le avevano
trasmesso sentimenti talmente unici e forti, che erano riusciti a suscitare in
lei una passione indicibile e inconfessabile, della quale aveva paura e
vergogna allo stesso tempo. Si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse restata
a Milano, e poi distraeva vergognosa il suo pensiero su altri ricordi della sua
infanzia, quasi a recuperare la purezza che sentiva di perdere quando pensava a
Virginia.
Si chiedeva se un giorno avrebbe ritrovato la “sua”
Virginia, cosa le avrebbe detto, cosa avrebbero fatto. Allontanava da sé con
orrore il pensiero che Virginia potesse non essere più viva.
Fu una domenica di maggio del 1945 che, mentre era ferma nel
prato a giocare con le cugine, Liliana vide sua madre e suo padre correrle
incontro. Abbandonò i giochi per riversarsi con gli occhi pieni di lacrime
nelle braccia spalancate di sua madre. Rimasero ferme a lungo, l’una dentro
l’altra, grate di potersi di nuovo toccare. La madre le afferrò il viso e lo
riempì di baci e all’improvviso la scostò da sé e la guardò raggiante: «Mio Dio Liliana, sei diventata
una donna! Piccola mia...». Suo padre la guardò fiera e, timoroso di accostarsi,
rimase lontano finchè Liliana non si staccò da sua madre e gli corse incontro
come quando faceva da piccola. «Papà,
posso tornare con voi stavolta?» gli chiese, ansiosa di sapere la risposta.
Partirono per Milano due giorni dopo. La città era
stravolta, cambiata. Alcuni quartieri erano irriconoscibili, straziatamente
diversi rispetto a come Liliana se li ricordava. Non capiva se fosse cambiata
così tanto la città o se fossero cambiati i suoi occhi che la scrutavano. Riempì
di vestiti il suo armadio, ricordando il triste giorno della sua partenza in
cui sua madre lo aveva svuotato. Sentì dentro di sé, forte come allora,
l’angoscia di partire senza poter vedere la sua nuova amica.
All’improvviso una luce illuminò i suoi occhi.
“Domani cercherò Virginia”, pensò.
Quella sera si addormentò con il sorriso sulle labbra, che
nemmeno il pensiero che le cose potessero andare diversamente da come le stava
sognando riuscì a cancellarle. Aveva fiducia, la guerra era finita, doveva
ricostruire la sua vita e voleva cominciare proprio da lei: Virginia.
"...una volta che il male di leggere si è impadronito dell'organismo, lo indebolisce tanto da farne facile preda dell'altro flagello, che si annida nel calamaio e che suppura nella penna.." Come è vero!
RispondiEliminaE confesso che non vedo l'ora che arrivi domani. Il prossimo capitolo, intendo...
Brava, bello!
Ogni volta che leggo un capitolo mi dico:questo è ancora più bello del precedente...in realtà è stata la narrazione a conquistarmi e quindi ogni pezzo in più mi fa entrare nel fluire del racconto facendomi apprezzare gli eventi,ma anche i particolari descrittivi.
RispondiEliminaNon sono solita leggere racconti brevi,ma devo dire che avvicinandomi a questo genere grazie a "l'amore proibito" sono stupita di quanto,in poche pagine, uno scritto possa emozionare.
Complimenti alle due scrittrici!
Aspetto il quinto capitolo...
Laura