My Lay non era lontana. Erano passati circa due mesi da quel
giorno, e Liliana aveva ancora sottomano la cronaca che aveva stilato.
Ricordava ogni parola che aveva scritto, ogni fitta che aveva provato
raccontando di quella infame strage. Era stata male, aveva vomitato, aveva
pensato di andare via dal Vietnam e tornare a casa, ma alla fine aveva prevalso
il senso del dovere che la portava a raccontare quello che sentiva, quello che
vedeva, quello che accadeva, perchè tutto il mondo potesse essere conscio di
quello scempio.
Il giornalismo era cambiato rispetto a quando era arrivata
in Vietnam. Quella maledetta guerra l’aveva cambiato. Quando era arrivata negli
altopiani centrali del Vietnam del Sud, le veniva chiesto soltanto di
raccontare storie degli eroi americani, delle loro vite e delle loro imprese.
Era partita da Milano nell’estate del 1965, quando gli Stati Uniti avevano
deciso di acconsentire all’invio di ingenti truppe nel Vietnam del Sud, su
richiesta del generale Westmoreland. Erano poche, allora, le voci che stonavano
nel coro di laudi verso gli eroi della bandiera a cinquanta stelle, quelle voci
tacciate di “comunismo”, solo perchè raccontavano delle morti civili invece che
delle imprese americane.
Nel 1968 il conflitto aveva assunto un risvolto drammatico
che non era più possibile celare dietro la “guerra giusta”, la morte era
entrata in troppe case americane per fingere che quell’impresa fosse un
successo. Liliana sapeva del profondo dissenso civile che stava pian piano
esplodendo nelle piazze e nelle università. Quello che succedeva in America lo
sapeva dai suoi colleghi reporter. Quello che succedeva in Italia lo sapeva
dalle parole di Virginia.
Si erano scritte sempre. Le lettere non venivano consegnate
con regolarità: a volte ne riceveva una al giorno, altre volte non ne riceveva
per mesi e poi in un giorno solo le lasciavano un cartone pieno di buste.
Succedeva soprattutto quando cambiava campo e risultava difficile
rintracciarla. Le teneva chiuse tutte in una piccola cassapanca che teneva
nella sua tenda: aveva quasi più lettere che vestiti, ma non se ne curava.
Quelle lettere erano il suo cibo. Nei momenti più difficili le leggeva una
dietro l’altra, si perdeva dietro i racconti di vita reale che Virginia così
dettagliatamente le faceva. Seguiva giorno dopo giorno la vita di Liliana, la
piccola Liliana, alla quale si era affezionata già dopo poche settimane che
l’aveva conosciuta attraverso i racconti di sua madre. Dal suo canto, Liliana
raccontava a Virginia il dolore, le atrocità alle quali assisteva, le storie
terribili che ascoltava al campo, quelle che non sapevi se fossero frutto di
fantasia o no e quelle che sapevi con certezza che erano realtà, perchè venivano
dalla bocca di un uomo, che non aveva più nulla di umano dopo essere
sopravvissuto alla tortura.
My Lay non era lontana. Due mesi prima, il 16 marzo 1968,
c’era stato il massacro conosciuto come il massacro di Song My. Soldati
statunitensi della Compagnia Charlie, undicesima Brigata di Fanteria
Leggera, agli ordini del tenente William Calley, uccisero
trecentoquarantasette civili. My Lay era una frazione di un villaggio a nord di
Saigon. Un gruppo di soldati americani aveva deciso di vendicarsi per uno
scontro a fuoco con delle truppe di Vietcong, che si erano nascosti tra i
civili. Una vendetta da veri bastardi, perchè se l’erano presa con vecchi,
donne, bambini. Alcuni di loro erano stati torturati. Molte donne erano state
stuprate. Fu un altro gruppo di americani, un equipaggio di un elicottero in
ricognizione in quella zona, che intervenne a fermare il massacro, affrontando
quegli uomini con i quali avevano in comune solo la stessa divisa. Era stato
uno dei pezzi di cronaca più difficili che aveva dovuto scrivere e si era resa
conto allora che quella guerra aveva oltrepassato i limiti della civiltà, che
non avrebbe retto ancora a lungo tra quegli stessi uomini che scherzavano con
te la sera davanti al fuoco ed il giorno dopo si alzavano in volo per spargere
la morte.
Erano alcuni mesi che meditava di tornare a Milano. Non se
la sentiva più di svegliarsi ogni giorno con l’angoscia nel cuore e di vivere
di notte con la paura di assalti dei Vietcong nei loro accampamenti. Raccontavano
di cose terribili delle quali erano capaci quegli uomini e aveva visto il
terrore negli occhi di troppi sopravvissuti. Eppure il desiderio di raccontare
al mondo quelle vergogne era sempre stato più forte di lei, fino al giorno in
cui ricevette una lettera.
Era il 16 giugno del 1968, quando il tenente del campo le
portò personalmente una busta, scusandosi perchè l’avevano consegnata a lui per
errore tra la sua posta.
La busta era la stessa di quelle che usava Virginia, ma non
riconosceva la calligrafia che segnava il nome del destinatario. Aveva imparato
a riconoscere le lettere del suo nome, una per una, così come le scriveva
Virginia, con la “L” tondeggiante ed un ricciolino in fondo, la “i” con il
puntino in alto un po’ spostato verso destra, la “n” con due collinette gemelle
e la “a” che finiva con un trattino verso il basso. Quella che leggeva era sì
una calligrafia elegante, si vedeva che era la calligrafia di una donna, eppure
non era di Virginia. Passò qualche ora prima che si decidesse ad aprirla. E in
quelle ore si affancendò in un articolo che scrisse e riscrisse più volte,
perchè la testa era altrove, a chiedersi chi le stesse scrivendo, perchè non
fosse Virginia stessa.
Quando prese la busta, la annusò per riconoscere almeno un
odore familiare, ma si rese conto che non c’era. Sollevò quindi con cura il
bordo incollato e tremò quando estrasse una busta più piccola, dove c’era solo
il suo nome sopra, in quella che era sì, l’inconfondibile calligrafia di
Virginia.
Gli occhi le si riempirono di lacrime. Sentiva dentro di sé
che qualcosa di terribile era successo, ma si rifiutava di saperlo, non voleva
essere coinvolta. Ricontrollò la calligrafia della prima busta: non era quella
di Virginia, nemmeno se la sua mano fosse stata tremante, nemmeno se avesse
scritto con la sinistra! L’idea che Virginia potesse anche solo stare male la
faceva impazzire: Virginia era l’unico pensiero che la teneva lì, in Vietnam,
lontano dal resto del mondo, almeno dal mondo che si definisce “civile”. Era
lei che l’aveva sempre incoraggiata a restare tra quelle macerie, perchè il
mondo aveva bisogno di una voce che raccontasse la verità e facesse da tramite
tra l’inferno reale e quello delle famiglie che non vedevano tornare i figli o
che li vedevano tornare depredati di ogni possibilità di una vita “normale”.
Era persino stata in America Virginia, le aveva raccontato di cosa succedeva
nelle università. Era stata a trovare le famiglie di alcuni ragazzi che lei,
Liliana, aveva conosciuto e le aveva raccontato della vita di quei ragazzi
quando erano ancora ragazzi e il governo non aveva ancora chiesto loro di
essere uomini, guerrieri.
Passò un pomeriggio intero senza che trovasse il coraggio di
quel piccolo gesto. Cenò e si ritirò nella sua tenda appena dopo, decisa a
conoscere la verità, qualunque essa fosse. Si sedette sulla sua branda, accese
una candela e aprì la piccola busta, estraendo con le mani tremanti il foglio
scritto finemente.
Cara Liliana,
quando riceverai questa lettera, alza gli occhi verso il cielo, quello
stesso cielo nel quale vedi solcare gli aerei che portano la morte e pensa che,
lassù, io sono e sarò sempre viva, anche se avrò abbandonato il mio corpo
oramai straziato.
Ho chiesto a Liliana
di spedirti questa piccola busta quando giungerà il triste momento, ma fino ad
allora, fino che potrò tenere una penna in mano e guidarla sul foglio, io continuerò
a scriverti le solite lettere che so ti tengono compagnia e ti danno la forza
di vivere in quell’inferno.
Questa lettera che
leggi sarà l’ultima, e nonostante io desideri più di ogni altra cosa al mondo vederti
per dirti di persona, guardandoti negli occhi, nei tuoi immensi occhi, quanto
ti sto scrivendo, temo che Qualcun altro abbia deciso per noi.
Da pochi mesi mi hanno
diagnosticato un tumore ai polmoni, e nelle ultime settimane sento che volgo
alla fine. Sento il respiro più lento e le forze che vengono sempre meno. Ho
rifiutato il ricovero in ospedale, perchè so che nulla può salvarmi da questo
orrore e a questo punto vorrei soltanto mettere presto fine alla mia agonia.
Sentendo la fine che
arriva, ho deciso di scriverti io stessa, per rivelarti tutto ciò che mai ti ho
detto, per viltà, forse, o per proteggerci da un mondo che non ci avrebbe mai
capito.
Amore mio.
Finalmente posso
rivolgermi a te con queste parole che avrei voluto urlarti mille volte. Sì,
Amore mio, perchè è amore ciò che io provo ed ho provato in tutti questi anni
per te. Mai come in questo momento mi pento di non avertelo mai detto, ma forse
i tempi non sono mai stati maturi per un amore come il nostro, un amore
“diverso”, un amore “particolare”, di quelli dei quali la gente “normale” si
vergogna, di quelli che viene deriso e perseguitato. Eppure, mi sono chiesta
mille volte se ci siano tanti modi di amare o se l’amore alla fine, guardato
nella sua pura essenza, non sia uno solo, sempre uguale, un battito del cuore,
un pulsare nelle tempie ed una morsa nello stomaco, un desiderio che esplode
dentro di te e ti porta verso l’altro, senza del quale tu sei nulla, senza del
quale ti senti perso ed inutile. E cosa importa, davvero, alla fine, se
l’essere amato è del tuo stesso sesso? Conta davvero? E’ davvero contro natura
o siamo noi uomini che abbiamo reso questo amore impuro, incomprensibile ai
più, invivibile per chi lo prova?
Non ho mai avuto
coraggio, io. So che tu stavi per farlo, per dichiararmi il tuo amore. L’ho
sentito nel mio cuore, amore mio, la prima volta che ci siamo date un bacio,
tra la polvere e il sangue e l’ultima volta che ci siamo viste, quando la
pioggia si confondeva con le nostre lacrime mentre i nostri corpi si univano in
quel bacio il cui sapore ho ancora in bocca. Ma nemmeno questo mi ha dato la
forza di scardinare tutto quello che ci impediva di amarci. Non so perchè, so
solo che è l’unico rimpianto che ho, l’unico rimorso che la mia coscienza
continua a ribattermi in punto di morte.
Mi capita spesso in
questi giorni di ripercorrere i nostri pochi attimi insieme, da quel primo
pomeriggio di ottobre di ventisei anni fa, quando io ero per strada, sola, a
guardare il passeggio sotto casa. Ero scesa per riposarmi un po’ della
stanchezza della vita con mia madre, una donna inerme, vinta dalla guerra
ancora prima che dalla morte. Fu lì che ti notai, mentre camminavi per strada,
un po’ persa con il tuo sguardo in chissà quali pensieri. Mi fissai sui tuoi
occhi, che languivano in una tristezza profonda della quale non conoscevo e mi
chiedevo il motivo. Desideravo conoscerti, desideravo toglierti quel velo dal
cuore, regalarti un piccolo intenso attimo di felicità, ma allo stesso tempo avevo
quasi paura di te, e qualcosa dentro di me mi imponeva di starti lontana.
Quando suonò la sirena, corsi a prendere mia madre e stavo per scendere giù in
cantina quando diedi per caso un altro sguardo per strada e mi accorsi che eri
ancora lì, che quel suono possente aveva tolto ogni traccia di tristezza dai
tuoi occhi per lasciare il posto alla paura. Non potevo lasciare che ti
succedesse qualcosa. E così ti indicai alla signora Claudia, senza parlare e
lei ti afferrò per un braccio e ti portò giù con noi. Ti persi di vista nella
calca di persone che cercavano un posto dove sedersi in attesa che passassero
quei momenti terribili: io dovevo proteggere mia madre, non potevo ancora
cercarti. Fu solo dopo che ti vidi, raggomitolata su te stessa, le mani sulle
orecchie e fu allora che mi avvicinai, fu allora che tu apristi gli occhi e li
trascinasti in fondo al mio cuore. Avevamo entrambe paura, quella guerra era
troppo per le nostre giovani vite, eppure non potrò mai scordare che ti ho
trovato grazie a quel bombardamento e quante volte mi sono sentita in colpa per
averlo benedetto, per avermi concesso di incontrare te. Se qualcuno non avesse
deciso di inviare quei maledetti aerei su Milano, di guidare la loro
traiettoria proprio sopra di noi, io avrei perso l’amore più bello della mia
vita. E forse per questo, inconsciamente, ti ho spinto verso un’altra guerra,
forse per riscattare l’amore che non ti ho saputo dare, sperando che tu potessi
farti una vita che con me non hai mai potuto avere.
Ricordo con tenerezza
quando mi accogliesti sotto il cappotto con te per proteggermi dal freddo e tra
le tue braccia dormii di un riposo sereno, fino a che l’allarme non cessò. Mi
sei rimasta accanto, questo l’ho sempre apprezzato, invece di correre dai tuoi
genitori, per aiutarmi, per sostenermi, in quello che poteva essere per me un
momento terribile, quando credevo che mia madre fossi morta.E poi ti ho perso.
Ti ho cercata a lungo, passeggiando nelle strade del mio quartiere e dei
quartieri vicini. Facevo lunghe camminate spingendomi sempre di più verso la
periferia, ma il mio cuore che pur sperava di incontrarti ancora, in qualche
modo mi fece capire che non ti avrei trovata, non allora, non in quel momento.
Ti amai in silenzio in
quegli anni tristi. Persi anche mia madre, questo lo sai e non mi restò altro
che il tuo ricordo al quale abbarbicarmi, insieme a quel dolce sentimento che
provavo per te e che in certi momenti mi scoppiava nel cuore. Quando mio zio mi
disse che mi avrebbe portato via a Rimini mi sentii morire: fu come se avessero
slegato quel laccio, Milano, che mi legava a te. Le mie giornate passavano ed
io mi spegnevo nel dolore. Leggevo, quanto ho letto in quel periodo! Leggevo di
tutto e fu forse per questa mia passione che lo zio mi propose di andare a
lavorare in una biblioteca di Milano. Fu come se una luce si fosse accesa
ancora nella mia vita. Ogni giorno preparavo un pezzo del cuore, come fosse una
piccola casa da arredare piano piano in attesa che tu arrivassi. Avevo deciso
di dirti tutto, di dirti cosa provavo per te e non m’importava davvero che tu
ne avessi potuto anche ridere! In cuor mio sapevo che non lo avresti fatto,
sapevo di non sbagliarmi. Eppure non sapevo nemmeno quale fosse il tuo cognome,
non potevo cercarti, potevo solo sperare che il destino ci ricongiungesse
ancora. E così fu, pur nella sua crudeltà di farci ritrovare e perdere nello spazio
di un bacio e di un sorriso.
Conobbi un uomo, un
ragazzo giovane e ben educato. Provavo qualcosa per lui. No, non era lo stesso
sentimento che provavo per te, eppure era qualcosa di molto simile e mi lasciai
trascinare dalle sue gentilezze, dai suoi riguardi. Rimasi incinta e così ci
sposammo. Sai bene quanto fosse dura la vita di una madre nubile a quei tempi
ed io non avevo il coraggio di portare addosso quella vergogna.
Liliana. Dolcissima
Liliana, piccola Liliana. Ogni volta che la chiamavo, io pensavo a te. Era il
mio modo di esserti fedele, di ricordarti nei miei sogni, di farti partecipe
della mia vita, di amarti.
Quando ti vidi quel giorno
di aprile nella piazza gremita di gente, a me non sembrò vero. Le mie due
Liliana insieme, l’una affianco all’altra. Gli amori più potenti della mia vita,
uniti, che si tenevano per mano. Vi avrei voluto fotografare allora, perchè
quell’immagine potesse sempre essermi vicina, ma non ce n’è stato bisogno, ce
l’ho ancora nei miei occhi e mi accompagnerà fino a quando questi stessi occhi
si chiuderanno per sempre.
Non ho avuto il
coraggio di dirti nulla. Del resto io oramai non avevo alternative: non potevo
lasciare la mia famiglia, non potevo fare del male a mia figlia togliendole suo
padre per offrirle cosa? Una vita piena di derisione per una colpa non sua,
l’amore di sua madre per un’altra donna? E a te, cosa avrei potuto offrire, io
, piccola bibliotecaria che non aveva altro che un cuore deluso e confuso? Così
ti ho chiesto di non rivelarmi nulla, per lasciarmi almeno un dubbio che tutto
questo fosse solo una mia fantasia. Eppure nonostante tutto il tuo richiamo fu
forte e non riuscii ad oppormi a quel bacio, a quello sfiorare il tuo corpo,
che ancora mi regala brividi profondi quando ci penso.
Adesso sono chiamata
ad andare altrove, lontano, davvero lontano da te. E prima di congedarmi ho
sentito il bisogno di confessarti la mia colpa, che non è quella di amarti,
no!, ma è quella di aver sempre taciuto, impedendoci di vivere quell’amore,
nonostante il mondo contro.
Non tornare a casa per
me, non ce la faresti comunque ad essere presente ai miei funerali. Mi basterà
che tu mi pensi un solo istante, urlando nel tuo cuore ciò che volevi urlarmi
quel giorno nei giardini di Palestro, quando l’albero si colorò dello stesso
colore del nostro amore, dello stesso colore del nostro sangue. Mi basterà
sentire che il tuo cuore batte per me e stai pur certa che da quel cielo sopra
di te, io lo sentirò e ne sarò finalmente felice. Perchè non può esistere un
Dio che punisca l’amore, di qualunque sesso, quando è amore così puro come il
nostro.
Adesso sento che devo
andare. Un’ultima cosa soltanto: ho lasciato a Liliana un pacchetto per te.
Cercala quando rientri in Italia. E’ l’ultima cosa che vorrei lasciarti di me,
una piccola cosa che vorrei tenessi tu per sempre, come pegno del mio amore
infinito.
Ti amo. Tua per
sempre,
Virginia.
....può un racconto suscitare emozioni cosi forti?...a quanto pare si...stupendo... e molto commovente!
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