Viola si fermò a guardare l’uomo steso sul suo letto. Guardò
il sangue che gli fluiva fuori dal viso e dal petto attraverso i vestiti laceri,
riversandosi sulle lenzuola bianche di cotone. Si sentì infastidita più per le
lenzuola che per averlo ucciso, mentre un senso di calma la pervadeva, come se secoli
di odio e vendetta covati nel buio della sua coscienza avessero trovato
finalmente pace in quella sentenza di morte.
Andò in bagno e si fece una doccia. Indossò una tuta
vecchia, pensando che “dopo” l’avrebbe dovuta buttare, e uscì di casa. Salì le
scale e bussò al campanello dell’appartamento situato proprio sopra il suo.
«Didi sono io, Viola. Per favore apri, è importante!» urlò
dietro la porta, dopo aver scampanellato più volte e bussato con la mano contro
il legno marcio e traballante, immaginando che l’amica fosse impegnata con un
cliente. «Didi, apri, per favore, lo so che ci sei...»
La porta si aprì, ma la catena era fissata e Viola vide la
spalla nuda della donna fare capolino.
«Che vuoi?
Non posso adesso...» le sussurrò Didi.
«Molla
tutto, per favore, ho bisogno di te giù, e subito...»
«Viola ne ho
uno qui che mi paga un sacco di soldi. Ne ho per mezz’ora, non di più. Mi
servono quei soldi, devo pagare il biglietto per tornare a casa a Natale...»
«Va bene, ma
fai presto, mi raccomando. Non so quanto tempo posso aspettare...»
«Ma non eri
anche tu con un cliente?»
«Appunto,
“ero”. Sbrigati... a dopo!» disse Viola, allontanandosi e iniziando a scendere
la rampa di scale per tornare al suo appartamento.
«Hai già finito o è successo
qualcosa? Ehi Viola?» bisbigliò sottovoce Didi.
Poi chiuse
la porta e tornò al suo cliente.
Viola rientrò nel suo appartamento. Si sedette sulla sedia
davanti al letto e tornò a guardare l’uomo. Non riusciva a capacitarsi di
esserci riuscita, ma qualcosa dentro di lei ribolliva ancora. Non poteva ancora
archiviare nella sua memoria quel ricordo, ma presto se ne sarebbe liberata e con
lui avrebbe finalmente potuto smettere con quella “vita”.
Ricordava la prima volta che si era fatta pagare da un uomo
per andarci a letto: era un grassone di cinquant’anni che si riduceva a
comprarsi le ore d’amore quando non ce la faceva più a trattenere l’istinto
animale nelle mutande. Aveva provato vergogna e un profondo senso di disgusto
prima per quella carne flaccida ed eccitata, poi per se stessa. Lui l’aveva
presa in cinque minuti, l’aveva pagata e se n’era andato e lei aveva quasi
ringraziato il cielo che fosse stato così veloce, perchè non avrebbe resistito
oltre a sentirlo muovere dentro di sé con la volgarità e le movenze di una
bestia in calore.
Poi l’aveva fatto ancora, e ne era rimasta sempre più
nauseata: eppure sapeva che doveva continuare, che non le era consentito
smettere. Non fino a quel giorno.
L’uomo l’aveva abbordata al solito posto, nel privé di una
discoteca. Aveva trent’anni più di lei ma era ancora piuttosto piacente.
Avevano trattato un po’ sul prezzo e poi lei gli aveva dato l’indirizzo
dell’appartamento dove trovarsi. Lui era arrivato piuttosto eccitato e non
l’aveva nemmeno fatta spogliare. L’aveva subito sbattuta sul letto e le aveva
alzato la gonna. Quindi aveva iniziato a slacciarsi i pantaloni con una mano,
mentre la frugava con l’altra. Lei aveva cercato di calmarlo, prendendolo verso
di sé ed affondandogli baci alla base del collo. Poi lo aveva fermato e gli
aveva offerto da bere. Lui aveva accettato, senza sapere che stava firmando la
sua condanna a morte. Viola aveva preso un rompighiaccio, era salita su di lui
a cavalcioni, con i due bicchieri in mano ed il rompighiaccio infilato nella
gonna, appoggiato alla schiena. Appena l’uomo aveva preso il bicchiere, lei
aveva afferrato l’arma e lo aveva colpito dritto nel petto e sul viso. Si era
accanita su di lui, sfogando una violenza che muoveva da dentro, dal profondo
di lei, da un posto buio e lontano che sapeva esserci, ma che credeva si fosse
un po’ acquietato con il tempo. Lo aveva colto di sorpresa e lui non aveva
nemmeno fatto in tempo a capire cosa gli stesse urlando disperata, che era già
steso sul letto, morto.
Seduta sulla sedia, Viola alzò il bicchiere verso l’uomo e brindò
alla sua salute. Sentì la sua bocca sul bicchiere, come se fosse qualcosa di
esterno a sé e assaporò il dolce del Baileys. Un leggero e dolce bruciore
iniziò a picchiarle in testa e una vena di euforia in lei iniziò ad avere
voglia di crescere e sfogarsi. Si accese una sigaretta e si lasciò scivolare
nella bocca un secondo sorso. Il liquido le pizzicò intorno alla lingua, ma era
dolce, così lo fece scivolare lungo la
gola e sentì che il petto le si riscaldava, e poi quel calore tornava su fino a
prenderle gli occhi. La testa iniziò a girare e tirò un’altra boccata di fumo.
Poi fu la volta del terzo sorso, che ingoiò subito, sentendo il calore salirle
dalla bocca dello stomaco fino ad afferrarle gli occhi. Tirò ancora una boccata
e sputò il fumo fuori tossendo. Appoggiò di nuovo le labbra al bicchiere per il
quarto sorso ed una goccia si fermò sulle labbra, poi la fece pian piano
scivolare nella bocca, sentendone il fuoco e lo stomaco le urlò dal basso di
mandarglielo giù. Così fece ed il calore le si diffuse su tutto il petto. Sentì
caldo e si spogliò, restando solo in reggiseno. Poi chiuse gli occhi e riappoggiò
le labbra al bicchiere, fece scivolare il Baileys fino alla fine della gola,
trattenendolo per un attimo prima di spingerlo giù, come una discesa di una
montagna russa, prima che tornasse su verso il cervello, che sentiva ora libero
e senza briglie. Sentiva che quella era una discesa nei bassifondi del suo
cuore e della sua mente, dove era solita rinchiudersi. Era la sua discesa
nell’inferno, ma voleva godersela tutta, come si gode un peccato quando sei
conscio di stare per abbattere tutte le regole che ti hanno imposto fino a quell’ultimo
istante.
«Porco, hai smesso di fare del male» gli disse, come se lui
fosse in grado di ascoltarla e perdonarla.
Il campanello irruppe nei suoi pensieri. Doveva essere Didi,
pensò. Si alzò traballando sulle gambe, con gli occhi che sentiva accalorati ed
il petto che bussava forte dentro il suo corpo. Il sapore dolciastro in gola la
invitò a buttar giù ancora un po’ di alcool, per darsi la forza di vincere
quelle poche resistenze della ragione che ancora non avevano ceduto. Aprì la
porta e fece segno a Didi di entrare, accennandole un inchino.
«Che hai
Viola?» disse Didi entrando nell’appartamento e subito si fermò, incrociando
appena con gli occhi l’uomo, nella camera di fronte l’ingresso, riversato sul
letto e immerso nel sangue. «Dio mio, Vivi, che è successo? Ma è... morto?»
«Stecchito...»
disse Viola, alzando di nuovo il bicchiere e brindando verso il corpo inerte.
«Perchè? Che
ti ha fatto? Che ti voleva fare?»
«Fidati,
quel porco se lo meritava. Mi aiuti, adesso? Devo disfarmi del corpo...»
«Ma perchè
non fai una denuncia? Per legittima difesa non ti fanno nulla, Vivi... Chiama
la polizia...»
«Non posso
spiegarti, Didi. Mi aiuti, o no?»
«E dove lo
portiamo?»
«Lo portiamo
a Genova e lo gettiamo nel porto. Conosco un posto tranquillo, a quest’ora non
dovrebbe vederci nessuno.»
«A Genova?
Ma Vivi, ci sei con la testa o no?»
«Se non la smetti di fare
domande, mi arrangio da sola... vuoi aiutarmi, sì o no?»
Didi fece cenno di sì con la testa. Non approvava la scelta
di Viola, ma in fondo si fidava di lei e conosceva fin troppo bene gli uomini,
per non immaginare come fossero andate le cose.
Avvolsero il corpo in lenzuola e coperte e lo legarono con
una corda abbastanza robusta. Pulirono l’appartamento e si cambiarono, poi Viola
prese le chiavi dell’auto e trascinarono il sacco giù per le scale. Lo
caricarono in macchina e Viola si mise alla guida. Uscirono dalla città e
presero la tangenziale, quindi l’autostrada verso Genova.
Viola non parlava e Didi rispettava il suo silenzio, pur
essendo sinceramente preoccupata per quanto aveva spinto Viola ad uccidere
quell’uomo. Viola sintonizzò la radio sul suo canale preferito e si concentrò
alla guida. Didi al suo fianco spiava i suoi occhi, che ogni tanto vedeva
lacrimare e le sue labbra, che ogni tanto vedeva mordere. Cosa ci fosse dietro
quel gesto non le era dato di comprendere, non in quel momento. Così si assopì
lungo le note della musica. Quando si svegliò, lesse su un cartello Isola del Cantone e chiese a Viola dove
fossero. Viola le rispose che non mancava molto e di continuare a dormire. Didi
spinse ancora lo sguardo fuori dal finestrino, riuscendo ad intuire le colline
intorno a sè, appena spruzzate della neve di dicembre, poi si rinchiuse nella
sua testa, accendendo una sigaretta e rinunciando a qualsiasi conversazione con
Viola.
Arrivarono a Genova dopo circa mezz’ora. Viola si diresse
verso il porto e imboccò una stradina isolata verso un molo. Solo un ubriaco
ciondolava lungo il camminamento che portava verso il mare. Viola e Didi scaricarono
il corpo e lo gettarono in mare, poi rientrarono in macchina e Viola finalmente
parlò:
«Vieni, ti offro la colazione.»
L’alba sembrava coprire di dolcezza quella mattinata e cancellare
i ricordi terribili della notte. Seduta a tavolino, con lo sguardo perso nelle
onde del mare che si impigliavano sull’orizzonte, rubandogli i colori del
mattino, Viola era ferma davanti al suo
cappuccino, la briosche in mano ancora intatta e lo stomaco chiuso. Didi la
guardò, senza fendere il silenzio dal quale Viola aveva scelto di farsi
avvolgere.
Poi all’improvviso, non furono parole a squartare quell’impalpabile
imbarazzo tra di loro, bensì un pianto a dirotto e lacrime che sapevano più di
dolore che di rimorso.
Didi abbracciò Viola e le disse: «Sto andando in Brasile per
le feste. Vieni con me, piccola?»
Vai Pavone Bianco, qui sei veramente scatenata...
RispondiEliminaSpettacolare la partenza! Coraggio, vediamo il seguito, che si preannuncia intrigante!
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