lunedì 2 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Capitolo 1


Viola si fermò a guardare l’uomo steso sul suo letto. Guardò il sangue che gli fluiva fuori dal viso e dal petto attraverso i vestiti laceri, riversandosi sulle lenzuola bianche di cotone. Si sentì infastidita più per le lenzuola che per averlo ucciso, mentre un senso di calma la pervadeva, come se secoli di odio e vendetta covati nel buio della sua coscienza avessero trovato finalmente pace in quella sentenza di morte.

Andò in bagno e si fece una doccia. Indossò una tuta vecchia, pensando che “dopo” l’avrebbe dovuta buttare, e uscì di casa. Salì le scale e bussò al campanello dell’appartamento situato proprio sopra il suo.

«Didi sono io, Viola. Per favore apri, è importante!» urlò dietro la porta, dopo aver scampanellato più volte e bussato con la mano contro il legno marcio e traballante, immaginando che l’amica fosse impegnata con un cliente. «Didi, apri, per favore, lo so che ci sei...»

La porta si aprì, ma la catena era fissata e Viola vide la spalla nuda della donna fare capolino.

«Che vuoi? Non posso adesso...» le sussurrò Didi.
«Molla tutto, per favore, ho bisogno di te giù, e subito...»
«Viola ne ho uno qui che mi paga un sacco di soldi. Ne ho per mezz’ora, non di più. Mi servono quei soldi, devo pagare il biglietto per tornare a casa a Natale...»
«Va bene, ma fai presto, mi raccomando. Non so quanto tempo posso aspettare...»
«Ma non eri anche tu con un cliente?»
«Appunto, “ero”. Sbrigati... a dopo!» disse Viola, allontanandosi e iniziando a scendere la rampa di scale per tornare al suo appartamento.
«Hai già finito o è successo qualcosa? Ehi Viola?» bisbigliò sottovoce Didi.
Poi chiuse la porta e tornò al suo cliente.

Viola rientrò nel suo appartamento. Si sedette sulla sedia davanti al letto e tornò a guardare l’uomo. Non riusciva a capacitarsi di esserci riuscita, ma qualcosa dentro di lei ribolliva ancora. Non poteva ancora archiviare nella sua memoria quel ricordo, ma presto se ne sarebbe liberata e con lui avrebbe finalmente potuto smettere con quella “vita”.


Ricordava la prima volta che si era fatta pagare da un uomo per andarci a letto: era un grassone di cinquant’anni che si riduceva a comprarsi le ore d’amore quando non ce la faceva più a trattenere l’istinto animale nelle mutande. Aveva provato vergogna e un profondo senso di disgusto prima per quella carne flaccida ed eccitata, poi per se stessa. Lui l’aveva presa in cinque minuti, l’aveva pagata e se n’era andato e lei aveva quasi ringraziato il cielo che fosse stato così veloce, perchè non avrebbe resistito oltre a sentirlo muovere dentro di sé con la volgarità e le movenze di una bestia in calore.
Poi l’aveva fatto ancora, e ne era rimasta sempre più nauseata: eppure sapeva che doveva continuare, che non le era consentito smettere. Non fino a quel giorno.

L’uomo l’aveva abbordata al solito posto, nel privé di una discoteca. Aveva trent’anni più di lei ma era ancora piuttosto piacente. Avevano trattato un po’ sul prezzo e poi lei gli aveva dato l’indirizzo dell’appartamento dove trovarsi. Lui era arrivato piuttosto eccitato e non l’aveva nemmeno fatta spogliare. L’aveva subito sbattuta sul letto e le aveva alzato la gonna. Quindi aveva iniziato a slacciarsi i pantaloni con una mano, mentre la frugava con l’altra. Lei aveva cercato di calmarlo, prendendolo verso di sé ed affondandogli baci alla base del collo. Poi lo aveva fermato e gli aveva offerto da bere. Lui aveva accettato, senza sapere che stava firmando la sua condanna a morte. Viola aveva preso un rompighiaccio, era salita su di lui a cavalcioni, con i due bicchieri in mano ed il rompighiaccio infilato nella gonna, appoggiato alla schiena. Appena l’uomo aveva preso il bicchiere, lei aveva afferrato l’arma e lo aveva colpito dritto nel petto e sul viso. Si era accanita su di lui, sfogando una violenza che muoveva da dentro, dal profondo di lei, da un posto buio e lontano che sapeva esserci, ma che credeva si fosse un po’ acquietato con il tempo. Lo aveva colto di sorpresa e lui non aveva nemmeno fatto in tempo a capire cosa gli stesse urlando disperata, che era già steso sul letto, morto.

Seduta sulla sedia, Viola alzò il bicchiere verso l’uomo e brindò alla sua salute. Sentì la sua bocca sul bicchiere, come se fosse qualcosa di esterno a sé e assaporò il dolce del Baileys. Un leggero e dolce bruciore iniziò a picchiarle in testa e una vena di euforia in lei iniziò ad avere voglia di crescere e sfogarsi. Si accese una sigaretta e si lasciò scivolare nella bocca un secondo sorso. Il liquido le pizzicò intorno alla lingua, ma era dolce, così  lo fece scivolare lungo la gola e sentì che il petto le si riscaldava, e poi quel calore tornava su fino a prenderle gli occhi. La testa iniziò a girare e tirò un’altra boccata di fumo. Poi fu la volta del terzo sorso, che ingoiò subito, sentendo il calore salirle dalla bocca dello stomaco fino ad afferrarle gli occhi. Tirò ancora una boccata e sputò il fumo fuori tossendo. Appoggiò di nuovo le labbra al bicchiere per il quarto sorso ed una goccia si fermò sulle labbra, poi la fece pian piano scivolare nella bocca, sentendone il fuoco e lo stomaco le urlò dal basso di mandarglielo giù. Così fece ed il calore le si diffuse su tutto il petto. Sentì caldo e si spogliò, restando solo in reggiseno. Poi chiuse gli occhi e riappoggiò le labbra al bicchiere, fece scivolare il Baileys fino alla fine della gola, trattenendolo per un attimo prima di spingerlo giù, come una discesa di una montagna russa, prima che tornasse su verso il cervello, che sentiva ora libero e senza briglie. Sentiva che quella era una discesa nei bassifondi del suo cuore e della sua mente, dove era solita rinchiudersi. Era la sua discesa nell’inferno, ma voleva godersela tutta, come si gode un peccato quando sei conscio di stare per abbattere tutte le regole che ti hanno imposto fino a quell’ultimo istante.

«Porco, hai smesso di fare del male» gli disse, come se lui fosse in grado di ascoltarla e perdonarla.

Il campanello irruppe nei suoi pensieri. Doveva essere Didi, pensò. Si alzò traballando sulle gambe, con gli occhi che sentiva accalorati ed il petto che bussava forte dentro il suo corpo. Il sapore dolciastro in gola la invitò a buttar giù ancora un po’ di alcool, per darsi la forza di vincere quelle poche resistenze della ragione che ancora non avevano ceduto. Aprì la porta e fece segno a Didi di entrare, accennandole un inchino.

«Che hai Viola?» disse Didi entrando nell’appartamento e subito si fermò, incrociando appena con gli occhi l’uomo, nella camera di fronte l’ingresso, riversato sul letto e immerso nel sangue. «Dio mio, Vivi, che è successo? Ma è... morto?»
«Stecchito...» disse Viola, alzando di nuovo il bicchiere e brindando verso il corpo inerte.
«Perchè? Che ti ha fatto? Che ti voleva fare?»
«Fidati, quel porco se lo meritava. Mi aiuti, adesso? Devo disfarmi del corpo...»
«Ma perchè non fai una denuncia? Per legittima difesa non ti fanno nulla, Vivi... Chiama la polizia...»
«Non posso spiegarti, Didi. Mi aiuti, o no?»
«E dove lo portiamo?»
«Lo portiamo a Genova e lo gettiamo nel porto. Conosco un posto tranquillo, a quest’ora non dovrebbe vederci nessuno.»
«A Genova? Ma Vivi, ci sei con la testa o no?»
«Se non la smetti di fare domande, mi arrangio da sola... vuoi aiutarmi, sì o no?»
Didi fece cenno di sì con la testa. Non approvava la scelta di Viola, ma in fondo si fidava di lei e conosceva fin troppo bene gli uomini, per non immaginare come fossero andate le cose.

Avvolsero il corpo in lenzuola e coperte e lo legarono con una corda abbastanza robusta. Pulirono l’appartamento e si cambiarono, poi Viola prese le chiavi dell’auto e trascinarono il sacco giù per le scale. Lo caricarono in macchina e Viola si mise alla guida. Uscirono dalla città e presero la tangenziale, quindi l’autostrada verso Genova.

Viola non parlava e Didi rispettava il suo silenzio, pur essendo sinceramente preoccupata per quanto aveva spinto Viola ad uccidere quell’uomo. Viola sintonizzò la radio sul suo canale preferito e si concentrò alla guida. Didi al suo fianco spiava i suoi occhi, che ogni tanto vedeva lacrimare e le sue labbra, che ogni tanto vedeva mordere. Cosa ci fosse dietro quel gesto non le era dato di comprendere, non in quel momento. Così si assopì lungo le note della musica. Quando si svegliò, lesse su un cartello Isola del Cantone e chiese a Viola dove fossero. Viola le rispose che non mancava molto e di continuare a dormire. Didi spinse ancora lo sguardo fuori dal finestrino, riuscendo ad intuire le colline intorno a sè, appena spruzzate della neve di dicembre, poi si rinchiuse nella sua testa, accendendo una sigaretta e rinunciando a qualsiasi conversazione con Viola.

Arrivarono a Genova dopo circa mezz’ora. Viola si diresse verso il porto e imboccò una stradina isolata verso un molo. Solo un ubriaco ciondolava lungo il camminamento che portava verso il mare. Viola e Didi scaricarono il corpo e lo gettarono in mare, poi rientrarono in macchina e Viola finalmente parlò:
«Vieni, ti offro la colazione.»

L’alba sembrava coprire di dolcezza quella mattinata e cancellare i ricordi terribili della notte. Seduta a tavolino, con lo sguardo perso nelle onde del mare che si impigliavano sull’orizzonte, rubandogli i colori del mattino, Viola  era ferma davanti al suo cappuccino, la briosche in mano ancora intatta e lo stomaco chiuso. Didi la guardò, senza fendere il silenzio dal quale Viola aveva scelto di farsi avvolgere.

Poi all’improvviso, non furono parole a squartare quell’impalpabile imbarazzo tra di loro, bensì un pianto a dirotto e lacrime che sapevano più di dolore che di rimorso.

Didi abbracciò Viola e le disse: «Sto andando in Brasile per le feste. Vieni con me, piccola?»

2 commenti:

  1. Vai Pavone Bianco, qui sei veramente scatenata...

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  2. Spettacolare la partenza! Coraggio, vediamo il seguito, che si preannuncia intrigante!

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