Liliana si specchiò negli occhi di Virginia e scambiò in
quello sguardo tutto quello che provava nel cuore. La paura, per un attacco
inatteso, improvviso, che aveva gettato le loro giovani vite nel cuore di una
guerra dalla quale si erano sentite estranee fino al momento in cui i Lancaster
avevano iniziato a gettar giù i loro pacchetti infiocchettati di nastro funebre.
Il terrore, per i rumori che giungevano assordanti da sopra le loro teste e che
lasciavano ben poco all’immaginazione. La disperazione, che leggevano negli
occhi degli adulti e che non lasciava loro scampo. La speranza, i sogni, i
desideri, esplosi con le bombe che fuori stavano distruggendo il loro passato,
il loro presente ed il loro futuro. E percepì in lei un dolore intenso, forte,
che non riusciva a riscontrare in sé e che voleva scoprire.
Liliana guardava gli occhi di Virginia e si chiedeva come
potessero due semplici globi esprimere quello che tremava nel cuore. Si
chiedeva se anche i suoi occhi stessero trasmettendo quelle sensazioni, se
anche Virginia stesse percependo dentro di sé quello che lei provava.
Fu Virginia che distolse per prima lo sguardo, rendendosi
conto che la ragazza di fronte a sé stava tremando. Pensò che fosse per
l’umidità che le stava penetrando nella pelle attraverso i pochi indumenti che
aveva indosso: quella giornata era stata mite e lei non viveva da quelle parti,
non l’aveva mai vista. Sicuramente non aveva avuto il tempo di tornare a casa,
arraffare un cappotto o qualcosa di caldo per proteggersi nel rifugio. E aveva
paura, una fottuta paura come lei. Aveva bisogno di affetto, lì da sola, senza
i suoi cari. Probabilmente si stava chiedendo dove fossero i suoi genitori, si
stava preoccupando all’idea che anche loro potessero essere in pensiero per
lei, non avendola vista nel rifugio.
Virginia si tolse il cappotto e si mise affianco a Liliana,
usandolo come coperta per proteggere entrambe.
«Grazie...» sussurrò Liliana.
«Come ti chiami?»
«Liliana. E tu?»
«Virginia. Non sei di qua, vero?»
«Sono di Milano, sì. Ma non sono
di questa zona. Abito in fondo a via Padova. Ero andata in corso Buenos Aires a
fare una commissione a mia madre. Stavo tornando a casa. Ho sentito la sirena,
ma sinceramente pensavo fosse il solito stupido allarme che non ha nessun
seguito. Poi, ho sentito un fortissimo rumore, ho guardato in alto, ho visto
gli aerei e all’improvviso qualcuno mi ha tirato qui dentro. E tu? Abiti qui?»
«Sì. Con mia madre. Mio padre e
mio fratello sono morti il 13 agosto. Eri a Milano quella notte?»
«Sì. Terribile. Da... da quanto
tempo siamo qui? Ho perso il conto...»
«Non lo so, ma non deve essere
passato molto tempo... forse cinque o dieci minuti... non so. Su continuano...
li senti? »
«Sì. Oramai so che devo stare
attenta ai sibili e non alle detonazioni. E li conto uno per uno, sperando che
continuino sopra la mia testa e vadano a scoppiare altrove. Mio Dio, è
bruttissimo da dirsi: “ti prego, prendi un altro, non me”.»
«Lo so. Io li odio. Odio questa
guerra, non la capisco. Mi ha portato via mio padre e mio fratello. E mia madre
è rimasta talmente sconvolta che devo badare io a lei. L’ho dovuta portare io qui, lei sarebbe
rimasta in casa ad aspettare di vedersi scoppiare una bomba davanti al naso.
Non vede l’ora di morire...»
«Mi spiace, Virginia. Tu... stai
tremando, rinfilati il cappotto. Grazie, io mi sono riscaldata... ti prego...»
«Non se ne parla nemmeno.»
«Allora vieni qui» le disse, e la strinse a sé, portandola
con la testa al caldo sotto il cappotto, stretto intorno al collo.
Virginia si assopì dopo un po’, quando il fragore delle
bombe cessò, e tutti erano ancora nei rifugi, aspettando il suono della sirena
che segnalava che gli aerei nemici se ne erano andati.
Liliana fissò davanti a sé i visi ignoti che condividevano
con lei quel piccolo rifugio. Guardava gli uomini, che dopo che le bombe erano
cessate, si erano allontanati dalle loro donne e stavano in piedi a gruppetti,
cercando di indovinare quali tipi di aerei avessero volato sulle loro teste,
quali disastri avessero provocato ancora, quali edifici era più probabile che
fossero caduti. I bambini avevano ricominciato a scherzare e a raccontarsi
storie incredibili. Le donne ancora pregavano sgranando i loro rosari, nella
speranza che Dio potesse avere un briciolo di pietà per loro e per le loro
famiglie.
La sirena si fece sentire potente e liberatoria. Quando la
maggior parte delle persone fu uscita dal rifugio, Liliana svegliò Virginia.
«Virginia, è finita. Possiamo tornare su... svegliati...»
Virginia aprì lentamente gli occhi, poi realizzò dove erano
e il primo pensiero fu per sua madre.
«Mamma... Mamma... mio Dio Liliana, hai visto mia madre?
Aveva un cappottino verde ed una gonna nera... dove sarà andata?»
«Non l’ho vista, ma vieni, dài, la cerchiamo insieme.
Infilati il cappotto. Io sto bene, tu ti sei appena svegliata... »
Virginia si alzò e Liliana l’aiutò ad infilarsi il cappotto.
Fece una piccola giravolta e si trovò occhi negli occhi con Liliana. I loro sguardi
si fermarono per un istante ed i loro cuori incrociarono le loro paure.
Poi improvvisamente
Virginia appoggiò le labbra sulle guance di Liliana e si soffermò un secondo.
Quindi si staccò, riappoggiò lo sguardo dentro gli occhi della sua nuova amica
e le disse piano, con la voce rotta dalle lacrime: «Grazie... io... io non ho
nessun altro se non lei... e te...».
Brava White! Leggendo le tue righe, riascolto il fluire della tua modalità di narrazione, sempre bellissima, dopo tanto tempo.
RispondiEliminaGrazie, ragazze, mi state facendo risvegliare.
Adesso aspetto domani!
Bart,
RispondiEliminasarebbe un piacere se oltre al piacere di leggere si risvegliasse in te il tuo piacere di scrivere...
Noi siamo qui, come sempre.