Il pendolo del soggiorno smise di emettere il suo noioso
ticchettio, gli uccellini uscirono dalla loro casetta e iniziarono a pigolare
per dodici volte. Liliana si distrasse dai suoi pensieri remoti nel tempo e si
guardò in giro. Scrutò la sala intorno a sé, concentrandosi su alcuni pezzi del
suo passato: il suo primo articolo su un libro di Idiers, composto nel 1947, a
soli ventun anni, per il Nuovo Corriere
della Sera, posto tra due vetri oramai opachi ed impolverati, retti da una
cornice color noce; un piccolo regalo della segretaria di direzione che la
seguiva in quegli anni; una serie di quadernetti neri con le pagine oramai
ingiallite che la seguivano fedeli sempre, ovunque andasse; infine, qualche
boccetta dell’inchiostro che fermava sulla carta i suoi pensieri.
Si alzò dalla poltrona di velluto azzurro e aprì la credenza
dove si trovava “quel” quadernino. Lo prese e lo sfogliò velocemente, quasi
volesse sincerarsi di non aver sbagliato, e cercò le pagine di quel maggio
della sua adolescenza. Non aveva sbagliato, e come avrebbe potuto? Era il
libricino più consumato fra tutti gli altri, quello sul quale aveva pianto
mille volte, quello che aveva stretto a sé molte notti, non solo quando la sua
fanciullezza poteva permetterle certe debolezze, ma anche dopo, quando la natura aveva imposto una certa dignità ai suoi
sentimenti.
Si recò in cucina, prese dell’uva, ripose gli acini in una
ciotola e tornò in soggiorno. Sul tavolinetto affianco la poltrona appoggiò la
ciotola di porcellana blu con gli acini, si sedette, chiuse un attimo gli occhi
e poi li riaprì. Aprì il libretto a quel giorno di maggio e iniziò a leggere,
spiluccando un acino alla volta.
Una lacrima le scendeva di tanto in tanto sul viso, che si
corrugava ora di rabbia, ora di angoscia, ora di tormento, man mano che le sue
stesse parole le rammentavano quei forti sentimenti che aveva provato. No, non
aveva dimenticato nulla: nè la speranza che l’aveva accompagnata in quel
viaggio in tram, nè la profonda delusione dello scoprire che aveva perso
Virginia per sempre, nè quel sentimento di felicità che le aveva dato guardare
quell’albero, un albero enorme, gigantesco, di fronte al quale aveva pensato
che qualcosa di così grande non può morire. E proprio perdendosi tra le sue fronde,
incespicando nei rami e tra le foglie rosso scuro, aveva percepito in sé la
certezza che un giorno avrebbe rivisto Virginia.
Era accaduto il 25 aprile 1948. Il suo capo l’aveva spedita
dalle parti di piazzale Loreto per commentare il corteo non autorizzato che si
muoveva per le strade di Milano, per andare a deporre fiori sul luogo dove
erano stati fucilati quindici partigiani il 10 agosto 1944. La Questura aveva
vietato la manifestazione, ma la gente non aveva accettato quel divieto e
intendeva presentarsi lo stesso, per urlare contro il fascismo che l’aveva
perseguitata ed onorare i partigiani morti: figli, mariti, nonni. C’erano in
strada le madri, le mogli, i figli, chiunque avesse conosciuto uno di quei
partigiani. Si prevedevano scontri, tutti i giornali avevano mandato qualcuno.
Avrebbe dovuto andarci Marino, il suo collega che seguiva la cronaca, ma gli
era nata una figlia e il suo capo aveva deciso di mandare lei, nonostante fosse
un po’ pericoloso. «Sei
coraggiosa, tu, lo so. E hai voglia di scrivere. E sai farlo. E io ho bisogno
di qualcuno che sappia cogliere l’emozione che palpita nel cuore di quel
corteo. Ho bisogno di qualcuno che raccolga i visi di quei quindici partigiani
negli occhi dei loro familiari. Se te la senti, vai.» Non aveva saputo
rinunciare a quell’occasione. Aveva provato a scrivere libri sulla guerra,
aveva tanto da raccontare, ma i ricordi erano ancora troppo vivi e dolorosi per
poterli tramutare in parole, facevano ancora male nel profondo, non erano
ancora risaliti sufficientemente a galla
da trapassarle la mano e giungere attraverso il pennino appuntito sulla carta.
Adesso aveva un motivo per spingere i suoi ricordi fuori da sé, unirli e
mescolarli a quelli degli altri, forse avrebbe fatto meno male. Così era
andata.
Gli animi erano surriscaldati. La gente era inferocita
contro la polizia che minacciosa avanzava contro di loro per bloccarli.
Urlavano “nuovi fascisti”, alzavano il pugno sinistro contro di loro, mentre la
loro mano destra brandiva in alto
cartelli con le foto dei loro morti. La polizia alla fine caricò, e la strada
si riempì di polvere e sangue. Liliana era dalla parte dei partigiani, decise
che non poteva essere una giornalista neutrale, sentì di doversi schierare e
così fece, iniziando ad urlare anche lei, a lanciare pietre contro le uniformi.
Fino a che qualcosa non la colpì in fronte e cadde a terra svenuta.
Quando riaprì gli occhi, le sembrò di vedere un angelo.
Quell’angelo era tornato, ma non capiva se stesse sognando o se fosse davvero
lì davanti a lei, come la prima volta. Era Virginia e il suo viso, ancora giovane,
dai lineamenti che avrebbe riconosciuto perfino attraverso le rughe del tempo,
davanti a lei le sorrideva. Era radiosa, si vedeva che anche Virginia era felice
di averla ritrovata e nonostante tutto il sangue che le colava dalla fronte,
Liliana mosse la bocca in un sorriso luminoso e aperto e poi si protese verso
di lei per abbracciarla. Virginia le prese le braccia e l’aiutò a tirarsi su,
le porse un fazzoletto per asciugarsi il viso bagnato e le pose un braccio
intorno alla vita. «Cerchiamo
di allontanarci, Liliana. Ce la fai?» “Ce la faccio?” aveva pensato Liliana. E
per fugare ogni dubbio sulla sua contentezza le disse: «Virginia, con te camminerei per anni in un deserto
senz’acqua, né riparo.» «Non
dire sciocchezze, togliamoci di qui, presto!»
Riuscirono a trovare una piccola stradina riparata, dove
Virginia sistemò per terra Liliana e con un fazzoletto iniziò a pulirle il viso
rigato di sangue: «Dov’eri finita?
Ti ho cercata...» «Oh
Virginia, anche io... mia madre mi impose di sfollare, non riuscii ad
avvisarti. Fu il giorno dopo che c’eravamo conosciute. E ti ho cercata, ti ho
cercata appena sono rientrata a Milano, ma tu non c’eri più...» «Sono dovuta andare via, dopo che
mia madre era morta. Ho dovuto lasciare l’appartamento, non riuscivo a pagarlo,
non riuscivo comunque a starci, troppi ricordi, troppo dolore... e così ho
raggiunto una zia a Rimini e lì sono rimasta fino a un anno fa, quando mio zio
mi ha trovato un piccolo lavoro a Milano, presso una biblioteca privata.» «Quanto mi sei mancata,
Virginia... tu non sai...» «Sì,
Liliana, lo so.» E si fermò. Fermò la sua mano sulla sua guancia e la carezzò
dolcemente. Liliana d’istinto chiuse i suoi occhi e rimase sospesa nel vuoto e
nel silenzio.
Ricordava ancora con colori vividi quelle emozioni profonde.
L’attimo in cui le labbra di Virginia avevano sfiorato le sue. Con delicatezza,
con timore, quasi avesse paura che Liliana non condividesse quel desiderio così
lontano dalla normale morale. Le aveva sentite morbide sulle sue, appoggiarsi
appena al centro e poi estendersi verso la piega del sorriso. E lei si era
abbandonata a quel bacio tenero, al quale ne seguì un altro ed un altro ancora,
fino a che Virginia non l’abbracciò, traendola verso il suo corpo, con tutta la
forza di un’emozione che ti sconvolge quando la riconosci, che cerchi di negare
perchè non è nell’accezione del comune amore ed alla quale alla fine ti arrendi,
perchè la riconosci come la vita che ti sostiene ogni giorno, la meta verso la
quale hai camminato per tanti anni e l’unica speranza che ti rinfranca per il
futuro.
Quattro robusti poliziotti le staccarono prima ancora che
potessero riaprire gli occhi, e le allontanarono deridendole, sbeffeggiandole e
palpandole nelle parti intime, accusandole di essere lesbiche e peccaminose.
Ricordava ancora l’ultimo sguardo di Virginia, che le trafisse i polmoni,
facendo fuoriuscire tutta l’aria che c’era in essi.
Il suo capo firmò il suo rilascio in Questura e la sbatté di
nuovo alle recensioni letterarie, accusandola di aver perso l’occasione della
sua vita. Aveva ragione, pensava Liliana, ma lei non pensava al lavoro, pensava
a Virginia e non riusciva a perdonarsi di averla persa ancora. Tornò più volte
in Questura per chiedere di lei, ma un muro di burocrazia le impedì di sapere
come si chiamasse di cognome, dove vivesse e che fine avesse fatto dopo
l’arresto.
La sua vita era andata avanti. Come va avanti la vita di
tutti quando muore una persona cara. Con un vuoto dentro, che difficilmente le
cose di tutti i giorni possono riempire. Con la mente offuscata da ricordi e
dalla paura che essi possano sbiadire da un giorno all’altro e con essi
scompaia il viso, scompaia la voce e scompaia tutto quello che è stato. Con la
rabbia contro se stessi per non aver saputo trattenere la persona amata e
quella contro gli altri che l’hanno portata via.
Avrebbe dovuto sposarsi. Un bravo giovane, Massimiliano, che
lavorava al suo stesso giornale le aveva fatto una corte spietata. Si era
illusa di amarlo, si era illusa che Virginia fosse stata solo uno sprazzo
eccessivo di amore e gioventù deviato dalla guerra. Voleva convertirsi
all’etica tradizionale e aveva cercato per anni di dimenticare ciò che aveva
provato con Virginia e che non riusciva a provare nemmeno con Massimiliano. Ma
alla fine non ce la fece e Massimiliano si stancò, chiudendo nel suo cuore ogni
passione che provava e lasciando Liliana al suo destino.
Lavorava sempre per il giornale e a casa scriveva, spesso di
notte. Si svegliava di soprassalto con un’immagine ferma nella mente e il
desiderio di scrivere era più forte di lei. Si alzava, andava in soggiorno e
accendeva una candela. Tirava fuori dalla credenza, quella stessa credenza che
ora le era di fronte, i suoi quaderni e scriveva: piccole poesie, racconti nei
quali le sue emozioni fluivano svuotandole l’animo. Ne sentiva il bisogno, ogni
sera, e quando non lo faceva la mattina si alzava con un peso sul cuore e le
parole continuavano a ronzarle per la testa tutto il giorno. Un giorno li
avrebbe messi insieme e li avrebbe pubblicati, ne era certa. Aveva l’abitudine
di rileggere il diario del maggio del 1945 prima di mettersi a scrivere, per
legare le sue emozioni a quel viso bello e pulito, per rispecchiare la sua
coscienza negli occhi immensi e scuri di Virginia, per avvinghiarsi di nuovo a
quelle labbra e opporsi con forza al loro destino.
Fu nel 1965 che quel destino le squarciò il cuore con
un’altra emozione. Liliana era sempre andata ogni anno in Piazzale Loreto, dopo
l’aprile del 1947. Ogni 25 aprile aveva camminato per le strade vicino la
piazza, aveva cercato la stradina nella quale Virginia l’aveva portata, ma non
l’aveva mai riconosciuta, perchè la sua mente era confusa dalle botte, dal
sangue e dai battiti che maciullavano il suo cuore per la felicità. Sperava di
incontrarla, ma nessuno dei visi che incrociava le ricordava lei. Ogni anno
cercava in stradine diverse, cercando di ripercorrere il suo passato, tentando
di orientarsi nei suoi ricordi per riconoscere quei pezzi di realtà davanti a
lei. E fu proprio quell’anno, il 25 aprile 1965, mentre si aggirava in piazza
Loreto, una piazza gremita di gente felice perchè finalmente poteva celebrare
ufficialmente la Liberazione, che la sua vita ritrovò un senso.
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