mercoledì 4 aprile 2012

Il dono di Iemanjà - Capitolo 3


«E se andassimo a pattinare lungo l’Avenida?»

Didi interruppe bruscamente quel silenzio che si faceva sempre più pesante. Provava su di sé il peso del dolore di Viola, sentiva l’oppressione al petto come se quell’amgoscia fosse sua e voleva cercare di spezzare quella lama infilzata nei loro cuori, in qualche modo, in qualunque modo. Voleva che Viola reagisse a quello stato inerte che l’attanagliava fin dalla sera in cui aveva ucciso quell’uomo. Didi era conscia di doverla spingere a parlare, ma nonostante la conoscesse da una vita, in quel momento si sentiva impotente di fronte a qualcosa che non conosceva e che immaginava essere qualcosa di orribile, al punto di averla spinta ad uccidere.

«Non ne ho voglia, Didi... ma tu vai... io ti aspetto qui.» le rispose Viola.
«Dài, come quando eravamo piccole... su, non mi fare andare da sola, non sarebbe la stessa cosa... ti prego...»

Viola guardò Didi con uno sguardo vuoto e Didi percepì che quel richiamo alla loro comune infanzia non era stata una buona idea. Eppure aveva smosso qualcosa dentro Viola e Didi intuì che quella poteva essere la chiave giusta per entrare in quel muto e solitario mondo nel quale Viola si ostinava a rinchiudersi.

«Ho visto la pubblicità di un negozio, giù in reception. Affitta roller per l’intera giornata ad un prezzo davvero stracciato. Passiamo qualche ora lungo l’Avenida. La giornata è bella... non vale la pena star qui dentro a pensare e ripensare a ciò che è successo. Vieni... andiamoci a cambiare...»

Didi la prese per mano e Viola docilmente la seguì, come una bambina che segue sua madre, certa che non le potrebbe fare mai del male. Uscirono poco dopo dalla stanza, si fermarono presso la reception per prendere nota dell’indirizzo del negozio e si incamminarono lungo l’Avenida Atlantica. Si fermarono qualche incrocio più avanti verso sud, affittarono i pattini in un piccolo negozio senza insegna, attraversarono l’Avenida e si portarono sulla zona ciclabile.

Fu Viola a partire per prima, con lo sguardo che viaggiava intrepido e sicuro sulla strada di fronte a sé, e la coda dell’occhio che sbirciava a tratti la spiaggia bianchissima, resa quasi diafana dal sole ed il mare che faceva capolino poco più in là. Ad ogni passo, Viola sentiva tutta la sua rabbia sfogarsi sulla gamba che appoggiava per terra e quando questa si alzava lo slancio sprizzava fuori di lei tutto ciò che di negativo le opprimesse l’anima. Il vento le sferzava il viso accalorato sempre di più dallo sforzo.

Didi quasi faticava a tenere il suo ritmo, e temendo di perdere terreno, era concentrata ad investire tutte le sue forze in ogni singolo movimento. Seguiva Viola chinata in avanti, con le mani sulle rotule, fissando senza tregua l’amica che di fronte a lei procedeva veloce, evitando ciclisti e pedoni, nella sua sicura andatura.


I palazzi bianchi scorrevano alla loro destra, rincorrendosi l’uno dopo l’altro verso sud ed il mare e la spiaggia le accompagnavano sulla sinistra. Didi avrebbe voluto fermarsi a tirare il fiato sotto qualche palma che ogni tanto incrociavano lungo il percorso, ma Viola non era pronta a fermarsi, così Didi continuava ostinatamente a pattinarle dietro, con il sudore che oramai infradiciava il suo top aderente e imperlava la sua pelle color cioccolato. Quando Viola si fermò, davanti al Museu Histórico do Exército e Forte de Copacabana, Didi si arrestò contro di lei e le si appoggiò completamente addosso.

«Hai deciso di non farmi arrivare all’anno prossimo, tesoro?» Didi chiese a Viola.
«Scusa, Didi, ma... avevi ragione, ne avevo davvero bisogno. Che ne dici, entriamo?» le rispose candidamente Viola, indicando verso il museo, senza nemmeno capire in quali condizioni fisiche fosse l’amica. Entrarono e appena superato l’ingresso monumentale, sentirono della musica provenire da un edificio sulla loro destra. Viola chiese informazioni a un guardiano e questi disse loro che all’Auditório Santa Bárbara stavano facendo le prove per il concerto di fine anno.

Didi e Viola entrarono nell’auditorio e si sedettero all’ultima fila. I ragazzi sul palco erano vestiti casual e scherzavano tra di loro. Era un concerto un po’ particolare, organizzato per la sera di Capodanno in ricordo dei concerti ben più famosi che si erano rincorsi nel tempo a Rio quella stessa magica notte: Rod Stewart, Lenny Kravitz, Rolling Stones, Live Earth. Nei loro corpi la tensione si rendeva palpabile attraverso le mascelle serrate, i visi rossi, le mani che si concentravano sul naso e sulla bocca, ora su uno, ora sull’altro volto, le labbra mordicchiate, le unghie tormentate. Viola guardava fisso davanti a sé, nel vuoto riempito dai fantasmi che solo lei conosceva, mentre Didi svolazzava da un concertista ad un altro, ne spiava i sorrisi e le tensioni e commentava ad alta voce, pur nella certezza che Viola non la stesse per nulla ascoltando.

La musica iniziò, Didi rincorreva le canzoni una dopo l’altra, ora canticchiandone solo la musica, talvolta accompagnandola con le parole. Fu sulle note di “Smile”, il remake di Rod Stewart di una famosa canzone di Charlie Chaplin, che la tensione si sciolse inaspettatamente per entrambe: Viola si tese in avanti, ascoltando il ritmo della chitarra e riconoscendo subito le note della canzone che sua madre le canticchiava sempre quando era piccola. Didi si concentrò su di lei senza riuscire a smettere di guardarla, mentre il suo viso si illuminava.

Vedeva le labbra di Viola pronunciare le parole della canzone come se le conoscesse benissimo. Il suo sguardo si tendeva verso il basso, come se si stesse guardando dentro, come se si stesse rivolgendo a se stessa, per  convincersi che il sorriso potesse sistemare tutto, riportandola verso uno stato nel quale il dolore fosse in grado di liquefarsi e scomparire, lasciando spazio ad un sentimento più tiepido. Gli occhi di Viola erano lucidi, Didi sapeva che qualcosa stava accadendo in lei e non voleva fermare quel processo che, immaginava, la stava portando fuori di sé, di nuovo al mondo.

Appena le note finirono, Viola si alzò e scappò fuori. Didi la seguì, fino alla Cúpula dos Canhões. Viola si sedette nel punto più vicino al mare. Si portò le ginocchia al petto e vi affondò la testa. Didi non sapeva cosa fare, ma alla fine si sedette dietro di lei in ginocchio e l’afferrò in un lunghissimo abbraccio materno. Non disse nulla, lasciò che il suo pianto sfogasse la rabbia ed il dolore e quando Viola alzò gli occhi spenti e lucidi, guardando dritto davanti a sé, Didi le parlò.

«Conoscevi quell’uomo, vero Viola?»
«Sì» sussurrò Viola, quasi come se avesse paura di confessarlo.
«Chi era? Vuoi dirmelo?»
«No, non posso. Credimi, non posso...»
«Viola, non posso aiutarti se non mi spieghi... questo lo sai, vero?»
Viola guardò Didi, con la voglia di raccontarle tutto quello che si era accartocciato per anni dentro di sé e la opprimeva ancora. Allo stesso tempo sentiva che quello che provava era un dolore atroce ed insopportabile per poterglielo versare addosso tutto d’un colpo, un dolore talmente forte che avrebbe agito su di lei come acido e le avrebbe sciolto il cuore. Era decisa a tenere dentro di sé il suo segreto, per farlo marcire lì dove non avrebbe più fatto male a nessuno.

«Viola, chi era quell’uomo? Se non me lo dici, ora, me ne vado e non mi vedi più.»

Viola sentì che Didi era risoluta. Era stata sempre più forte di lei. Forse perchè era abituata a combattere contro il mondo, per motivi di sopravvivenza. Era nata in quei sobborghi poveri di una città che gli stranieri osannano, quelli che impari sui libri che si chiamano favelas,  tra quei visi di bimbi quasi nudi dalla pelle color cioccolata, che ti sorridono ignari che per loro sia possibile una esistenza diversa, lontano dalla crudeltà che la miseria impone. Ogni giorno era un inferno dal quale potevi uscire o morto o vivo e solo un miracolo poteva salvarti. Quel miracolo, per Didi, c’era stato, quella notte di Capodanno nella quale aveva conosciuto Viola. I loro genitori si erano conosciuti e la mamma di Viola che lavorava come assistente sociale si era offerta di portare Didi in Italia: avrebbe frequentato lì la scuola e d’estate sarebbe tornata a casa in Brasile. I suoi avrebbero avuto una bocca in meno da sfamare e Didi avrebbe avuto un’opportunità. Didi sarebbe stata ospitata da una famiglia che viveva nello stabile dove viveva Viola: non avevano figli e non avevano più l’età per adottare un bambino.

Così Didi si era trasferita dal settembre successivo in Italia. Viola era la sua migliore amica e spesso passavano il pomeriggio insieme, cenavano insieme e dormivano insieme. Didi raccontava storie che a Viola sembravano impossibili, quasi di un altro mondo, di un Brasile che Viola immaginava a metà strada tra i quartieri bassi di Napoli che una volta aveva visto e l’Africa delle foto dei missionari che le propinavano ogni Natale a catechismo. A Viola piaceva ascoltare per ore le storie di Didi fino a che non crollava, tenendole la mano stretta stretta come solo i bambini sanno fare, e la testa appoggiata sul suo petto, per carpirne il battito e le emozioni.

Viola guardò negli occhi Didi e iniziò a piangere. Didi le portò la testa sulla sua spalla e le carezzò i capelli, baciandole la chioma ogni tanto, come se volesse rassicurarla che tutto sarebbe andato bene. Fu lì, in quell’abbraccio tenero e disperato d’amore, tenerezza e dolore, che Viola svuotò il suo segreto più grande:

«Era... era mio padre.»

1 commento:

  1. Ma che razza d'uomo può essere quello che non riconosce la figlia nel mestiere più vecchio della terra? Eh, già, White... Forse la chiave sta proprio lì... Comunque bello, brava, molto intenso...

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