Premessa
Cinque pezzi meno facili è l’ultimo pezzo dei Giochi a quattro pubblicato. Lo trovate a questo Link
Abbiamo
voluto replicare l’esperienza dello Sliding Doors, come già fatto per Alice, perchè ci piaceva immaginare un finale
diverso. Le nostre fantasie non sempre coincidono, ciascuno vive le storie in modo
diverso e a volte le conclusioni di un autore “spiazzano” la trama che l’autore
precedente o successivo aveva in mente. Da qui nasce l’idea di ripartire da un
certo punto della storia ed immaginare uno svolgimento diverso.
Questo
Sliding
Doors è stato scritto da Il Pavone
Bianco, MakaylaReed e Snowflake, partendo dai primi quattro capitoli originali
(il capitolo di Bart in realtà è stato diviso in due per esigenze “tecniche”). I
capitoli “originali” sono scritti in blu per evidenziare il corpo iniziale
della storia. In nero sono presentati i capitoli dello Sliding Doors.
Ripassiamo
velocemente la storia per chi non la ricordasse e...
Il
racconto nuovo inizia alle 11:00. Ci ritroviamo qui... siate puntuali!!!
E per
Sabato, Signori e Signore, vi aspetta una sorpresa!
Il Pavone Bianco
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Capitolo 1 (originale
di Gomez)
Roberto aveva ventiquattro anni, si era laureato da meno di
trentasei ore e non sapeva quello che avrebbe combinato nella vita – “da
grande” era un modo di dire che gli era sempre stato sulle palle.
Primo, perché tecnicamente lui era già “grande”; secondo,
perché gli sembrava che mettere sotto quell’etichetta il suo futuro
trasmettesse un’immagine sminuente di quella era stata la sua vita fino a quel
momento.
Poteva essere stato più giovane, ma non per questo si era
mai sentito “piccolo” – e non conosceva molta gente che a dodici anni sapesse
suonare Baba O’Riley degli Who sulla Fender di suo fratello Simone. Come sapeva
roteare il braccio destro teso quando chiudeva il riff principale col Si
bemolle! Proprio come Townshend. Un unico gesto intriso di potenza e di grazia,
un fluido movimento rotatorio che portava il plettro a schiantarsi contro le
corde della Fender mentre a gambe divaricate assumeva la posizione di un
giovane guerriero rock.
Ma quello era il suo passato, per quanto breve e
ravvicinato. Ora il futuro era davvero una macchia indistinta davanti ai suoi
occhi.
Roberto sapeva solo, in modo assolutamente generico ed
istintivo, che il suo futuro avrebbe avuto (probabilmente) meno a che fare con
la musica e più con la pratica legale, che le serate al Trottoir con gli amici
sarebbero diventate sempre meno frequenti e che con ogni probabilità le All
Star le avrebbe calzate solo dal venerdì sera alla domenica.
Poco male, era la metà di luglio e aveva ancora due mesi
d’estate davanti a sé.
Anche in questo caso, Roberto sapeva sarebbe stata
probabilmente l’ultima volta che poteva concedersi un periodo di vacanza così
prolungato. Sarebbe presto entrato nella maggioranza silenziosa delle formule
“due settimane ad agosto, una intorno a Natale” e il resto sparso tra weekend
lunghi e appuntamenti e commissioni di vario genere. Occasionalmente, qualche
trasferta per un concerto.
Si strinse nelle spalle e infilò un’altra polo nel borsone
dell’Adidas con il quale di lì a cinque ore sarebbe salito sulla macchina di Martino
per partire alla volta della Spagna. Dove, esattamente non ricordava. Martino
gli aveva genericamente parlato di diverse località che componevano un reticolo
astratto sulla sua cartina della Spagna, e che nessuno avrebbe mai potuto
ricondurre ad un percorso logico. Non che da Martino ci si potesse aspettare
una qualche forma di pianificazione, accurata o meno, di un viaggio o di
qualsiasi altra cosa.
Lui e Roberto si conoscevano dalle medie, e il massimo che
poteva dire di Martino è che non rientrava facilmente all’interno degli schemi.
Aveva cambiato un sacco di scuole superiori (due licei, un istituto tecnico,
poi si era diplomato privatamente facendo qualcosa come tre anni in uno) e
adesso aveva iniziato a seguire lo stesso iter anche all’università. Da
economia a lettere, da sociologia a matematica: continui cambiamenti, test di
ingresso brillantemente superati ed esami che non occupavano neppure tre righe
del suo libretto universitario.
Roberto sorrise e scosse la testa. Era quasi buffo che lui
rappresentasse la “mente” di un viaggio del quale Martino aveva “pianificato”
le tappe come se avesse estratto dei bussolotti con i nomi delle località da
un’urna di quelle che riempivano le pagine degli eserciziari dei libri di
statistica.
Aggiunse anche una t-shirt dei Sex Pistols e il caricatore
per l’iPod. Saggiò il peso del borsone sollevandolo di qualche centimetro dal
letto, constatò che era sopportabile, lo riappoggiò e tirò violentemente le
cerniere per chiuderlo.
Si sedette ai piedi del letto, e imprecò quando gli
sovvenne del pacchetto morbido di Marlboro infilato in tasca. Lo estrasse e
osservò le sigarette spiegazzate e contorte mentre bricioline di tabacco si
spargevano sui jeans chiari. Estrasse una sigaretta e la accese, inspirando una
lunga boccata mentre con gli occhi cercava il soffitto.
E poi c’era Silvia.
Silvia, che Roberto non aveva invitato ad andare in vacanza
con lui ma alla quale aveva preferito il periplo della penisola iberica con il
suo amico d’infanzia. Silvia, che non l’aveva presa molto bene. Silvia, che non
rispondeva alle sue chiamate (tre, per la verità) da due giorni, e il cui
ultimo messaggio recitava, lapidario: “vaffanculo”.
E vaffanculo pure tu, pensò Roberto tirando un’altra
boccata. Si alzò in piedi, gettò uno sguardo carico solo d’abitudine all’iPhone
per vedere se fosse arrivato un messaggio o ci fosse un avviso di chiamata non
risposta. Ovviamente niente.
Scosse la testa, spense la sigaretta nel portacenere rubato
all’Arci Bellezza due anni prima e aprì la finestra, cercando di minimizzare la
futura, probabile geremiade di sua madre circa la sua esecrabile abitudine di
fumare in camera. Esecrabile, così l’avrebbe definita sua madre. Da buona ex
insegnante di lettere al liceo classico, aveva l’abitudine di utilizzare un
lessico composto di termini spesso sesquipedalmente (così avrebbe detto lei,
pensava sogghignando tra sé Roberto) desueti che alle volte obbligavano i suoi
interlocutori a nascondersi dietro sorrisi imbarazzati o risatine nervose nel
vano tentativo di non tradire la loro incapacità di comprendere cosa lei stesse
effettivamente dicendo.
Le prime note di Jump lo avvisarono che qualcuno lo stava
chiamando. Afferrò il telefono con un’avidità che lui stesso non si sarebbe
aspettato, e fu altrettanto sorpreso della sua sottile delusione quando sul
display non apparve il volto che si aspettava, ma l’espressione etilica di
Martino dopo una serata devastante al Club Fifty.
Capitolo 2 (originale
di Snowflake)
Roberto esitò un istante prima di rispondere, quella chiamata
non presagiva nulla di buono: “ cosa avrà mai da dirmi? Pronto…”
Dall’altro capo del filo, solo silenzio.
“ Pronto Marti, mi senti? ”
“ Si Si ci sono, o quasi, Roby scusa, ma non ho dormito un
cazzo, non so come, ma ieri sera ero con degli amici dalle parti del Naviglio
e mi
hanno convinto a fare un salto al Trottoir, lo sai che è uno dei miei
locali preferiti! C’erano i The Dragons
in concerto, insomma, musica niente male, vecchi amici, belle donne e poi sai come va a finire quando sei li, una
birra, un chupito, una tequila…”
Nuovamente una lunga pausa di silenzio
“ Hei Marti ci sei?”
“… e poi, un amico aveva della maria fantastica e tu sai
che io non riesco a dire di no a certe cose, va beh, in poche parole sono
ancora fuorissimo e non sono in grado di guidare, i casi sono due o rimandiamo
la partenza a domani oppure mi vieni a prendere tu e guidi finche io non mi
riprendo.”
Un smorfia di disapprovazione comparve sul volto di
Roberto.
“ Fammi pensare cinque minuti e ti richiamo ,“.
Chiuse il telefono.
“ Cazzo! lo sapevo, di Martino non ci si può proprio
fidare, ed ora? “
Mille pensieri passarono nella testa di Roberto, da una
parte non aveva un cazzo di voglia di dover guidare da solo per un sacco di
ore, e sarebbe stato sicuramente così, perché conosceva bene le serate di
Martino, e sicuramente una decina di ore per riprendersi forse non gli
sarebbero nemmeno bastate. D’altro canto ormai il borsone era pronto, le
speranze di sentire Silvia svanite e la cosa più importante, da non
sottovalutare assolutamente, era che sua madre stava per ritornare a casa e
sinceramente non aveva alcuna voglia di incontrarla per sorbirsi le sue solite
raccomandazioni.
Deciso.
L’indice iniziò a digitare il numero di Marti sul touch
screen del suo iPhone nuovo fiammante.
333 2131443
Con un filo di voce dall’altro capo del telefono si sentì
un ” siii “, che pareva arrivare dall’oltretomba.
“ Ok Marti tra meno di mezzora ti passo a prendere, fatti
trovare pronto e… non addormentarti adesso, preparati, dormirai in macchina,
ciao.”
“ Ok. Ciao”
Roberto prese il borsone, il giubbotto di jeans, fece un
ultimo check delle cose che gli erano indispensabili per viaggiare, recuperò le
chiavi della macchina e uscì.
In meno di venti minuti fu sotto casa di Martino. Lui lo
stava aspettando appollaiato sul suo borsone, le sue mani sorreggevano a stento
la testa che chiedeva disperatamente di potersi poggiare da qualche parte,
per finalmente lasciarsi andare e cadere
in un sonno profondo.
“ Ciao Marti, dai, sali dietro, così potrai dormire “
Marti biascicò un : “ Grazie Roby “.
Martino si trascinò fino alla macchina, caricò il suo
borsone, che pareva pesare una tonnellata, nel bagagliaio della C3 blu cielo
del suo amico e si accasciò sul sedile posteriore.
“ Hei Marti prima di perdere completamente i sensi, dimmi
qual era esattamente la meta a cui
pensavi! “
Silenzio.
“ Marti‼! “
Nessuna risposta.
Roberto decise di iniziare il suo viaggio verso la Spagna e
una volta raggiunto il confine spagnolo, avrebbero deciso il da farsi.
Prese il cavo dell’ IPhone e lo collegò all’autoradio.
Un viaggio non è un viaggio senza poter ascoltare della
buona musica.
Martino abitava al quartiere Feltre nella zona est di
Milano, così Roberto imboccò la Cassanese e si diresse in tangenziale,
direzione Genova- Ventimiglia.
Da qui cominciò la loro avventura “ on the road”, alla
maniera degli hobo.
Roberto da quel momento iniziò a sentirsi un po’ vagabondo,
pronto ad affrontare questo viaggio con semplicità e spirito
d’adattamento, alla ricerca del suo io
più profondo, per capire se quello che realmente voleva era passare il resto della sua vita intrappolato
in un abito scuro.
Con la musica a palla il tempo scorse velocemente e senza
che se ne rendessero conto si trovarono a Ventimiglia.
Ogni tanto Martino alzava il capo mugugnando qualche cosa e
facendo dei lunghi sorsi d’acqua, ( si sa che la “ resaca “ causa mal di testa
e una gran sete!), per poi tornare a schiantarsi come senza vita sul sedile
posteriore.
Superato il confine con la Francia abbandonarono la A10 per
immergersi nel dolce panorama della costa meridionale francese, lungo la N113,
arrivando così all’interno, verso Arles.
Quando vide il cartello stradale che indicava Arles,
Roberto, non potè fare a meno di pensare a Silvia.
Silvia adorava Van Gogh e sicuramente passando per quei
luoghi le sarebbe piaciuto fermarsi in questo paese che fu fonte d’ispirazione
per alcuni dei suoi quadri più belli e senza ombra di dubbio avrebbe voluto che
la portassi a vedere il famoso ponte di Langlios.
E che dire de “i Girasoli” che oltre ad essere uno dei
quadri di Van Gogh che amava di più, erano anche i suoi fiori preferiti.
“ Ma perché diavolo stò pensando a lei!”
Parlando a voce alta si disse:” Dai Roby lo sai, è ormai un
capitolo chiuso! Che t’importa di lei!”
Da Arles proseguirono lungo la A54 fino a raggiungere Nimes
dove si immisero sulla A9 che porta
direttamente al confine spagnolo.
Visto che Martino ancora non era resuscitato dal suo coma
profondo, Roberto dovette prendere una decisione… proseguire poi sulla A7, che
li avrebbe condotti direttamente a Barcellona?
O cambiare rotta verso la costa, in direzione Roses, per arrivare alla
mitica Cadaques?
Cadaques magico paesino sul mare, un mix tra un villaggio
di pescatori e un ritrovo per edonisti. Qui decise di vivere per lunghi anni
Salvador Dalì e come lui lo scelsero per soggiornarvi altri grandi artisti tra
i quali Picasso, Mirò e Garcia Lorca.
Roberto decise di proseguire verso la Costa Brava,
direzione Cadaques, per potersi immergere nel mistero di quella affascinante e
ridente cittadina affacciata sul mare.
In quell’esatto istante un velo di malinconia pervase i
suoi sensi, la colonna sonora che aveva fino ad ora accompagnato il suo viaggio
con musicisti del calibro degli Who o di Jimi Hendrix, iniziò a renderlo un
pochino nervoso, tanto da decidere di
spegnere, per affidarsi alla famosa
stazione radiofonica Cadena Ser.
Poca musica e tante parole, ma ciò non dispiacque a Roberto
che così potè dare una rinfrescata al suo spagnolo, rendendosi ben presto conto
di capire veramente pochissimo, sopratutto quando parlavano velocemente e in
catalano.
Le ore passarono veloci, il tramonto era vicino e Roberto
voleva assolutamente essere a Cadaques nel momento in cui il sole si sarebbe
tuffato nel mare.
Ormai erano vicini alla meta.
Nell’esatto istante in cui arrivarono a Cadaques, dalla
radio partirono le note di una canzone che Roberto conosceva perfettamente, era
la voce di Luz Casal che cantava “ un ano de amor ”, la prima volta che la
sentì nella colonna sonora di un film di Almodovar, forse Tajones Lejanos, gli
rimase nel cuore per qualche recondito motivo.
Concentrato sulle parole della canzone sbagliò strada e si
ritrovò su di un promontorio.
Fermò la macchina, cercò di svegliare Martino ancora inerte
sul sedile posteriore: “ Marti io vado un po’ più in la a godermi il tramonto,
se ne hai voglia, raggiungimi.”
Martino neanche rispose.
Un sentiero contornato da bianchi oleandri, attirò la sua
attenzione.
Lo imboccò.
Sentì sprigionare dalle piante incontrate lungo il cammino
i loro profumi intensi e selvatici, che fanno riconoscere la presenza di una
particolare pianta senza neppure vederla, come capita con l’elicriso, il timo,
la lavanda selvatica.
Improvviso un forte odore di salsedine.
I profumi della natura si miscelarono tra loro pervadendo
il suo corpo.
La sua anima venne scossa dal ricordo di lei che riaffiorò
violentemente nella sua mente.
Il suo corpo venne lacerato dalla passione che in quel
momento non trovava dimora.
Troppo forte il desiderio.
Troppo forte la voglia di lei e delle sue calde mani che
sapientemente sapevano sfiorare il suo corpo, provocando piaceri
indescrivibili.
Troppo forte il dolore.
Meraviglioso il ricordo di lei.
In quel momento il sole si tuffò nel mare ed il cuore di
Roberto rimase muto.
Capitolo 3 (originale de il Pavone
Bianco)
Il sole fece capolino attraverso le tende di lino bianco.
Aveva lasciato le persiane aperte, la sera prima. Non ci aveva badato, perchè
era notte quando era salito in camera, stravolto per aver dovuto portare
entrambi i bagagli, più il peso morto di Martino, dal parcheggio fin su al
primo piano. “La pagherai, vecchio ubriacone” gli aveva sussurrato mentre lo
spingeva a calci fuori dalla macchina, e se lo trascinava dietro, impietoso dei
suoi mugugni, sostenendolo un po’ con un braccio e un po’ con la spalla destra.
In realtà Roberto sperava che dopo quella notte Martino si potesse riprendere
ed allora ‘fanculo a tutti i ricordi, si sarebbero davvero divertiti. In realtà
quella mattina l’odore che si insinuava nelle sue narici già da un po’ e la
scena che si propose ai suoi occhi non appena si levò dal letto, voltando lo
sguardo verso l’amico, lo convinsero che avrebbe dovuto ancora aspettare a godersi il suo divertimento.
Martino giaceva riverso bocconi sul letto, le gambe
divaricate, la testa riversa verso terra e le braccia che cadevano parallele
affianco ad essa, con le mani immerse in una pozza di vomito. Roberto corse in
bagno preso da più di un conato, ma il suo stomaco non aveva ingurgitato nulla
dalla sera prima e quindi tirò lo sciacquone per fare scivolare via quel po’ di
acido che gli aveva reso amara la bocca e si lavò la faccia e i denti. Quindi
tornò in camera, spalancò la finestra e si vestì. Lasciò un biglietto a
Martino, nel caso improbabile che avesse aperto gli occhi e si fosse sentito
disorientato. Scese nella hall dell’albergo, l’Hotel Port-Lligat, il primo
hotel trovato sulla strada la sera precedente, mentre discendeva dal
promontorio dove si era fermato a guardare il tramonto. Prese un caffè amaro e
uscì, deciso a fare una lunga passeggiata per Cadaqués, giusto per non perdere
il suo primo giorno di vacanza.
Si avviò a piedi in direzione del mare e passò la mattinata
a girare lungo le stradine interne, affascinato dalle bianche case che caratterizzavano
il paesaggio. Quindi scese verso il mare e si buttò in spiaggia. Steso al caldo
sole, scrutava il paesaggio intorno, le buffe case bianche con le persiane
azzurre che sembravano quelle di una favola, la chiesa che si ergeva dietro di
esse e la gente che affollava qualche piccolo baretto sulla spiaggia. Tolse le
scarpe, tirò su i jeans e decise di camminare un po’ lungo il bagnasciuga.
Camminava con la testa alta, per rubare tutto il caldo che poteva in ogni
centimetro di pelle. Eppure l’abbandonarsi al calore del sole sul capo,
mitigato dal fresco dell’acqua sulle parti diametralmente opposte ad esso, non
riuscivano a togliergli dalla testa il pensiero fisso che continuava ad
ossessionarlo da quando era partito: Silvia. Provò a chiamarla, ma nulla.
Quella stronza non rispondeva!
La fame iniziò a farsi sentire verso mezzogiorno. Entrò in
un bar, prese un aperitivo – rigorosamente alla frutta: ne bastava uno a dover
smaltire gli effetti dell’alcool! – e si decise a ripercorrere la strada indietro
verso l’albergo, nella speranza di trovare Martino se non sveglio e lucido,
almeno parzialmente cosciente e capace di prendere qualche decisione sulla loro
vacanza. In fondo, lui non sapeva dove andare. Barcellona era a circa due ore e
mezza da lì, aveva visto sulla cartina di fronte al bar dell’albergo, ma una
volta arrivati non avrebbe saputo cosa fare. Con quel cadavere puzzolente che
russava sui sedili posteriori... no, non sarebbe andato molto lontano.
Salì in camera e trovò Martino seduto, con lo sguardo fisso
nel vuoto ed una sigaretta che gli pendeva dalla bocca.
«
Bene... un passo
avanti! »
In qualche modo il vomito era stato ripulito e le lenzuola
erano state cambiate. La stanza odorava di fumo misto a candeggina e ammoniaca,
ma almeno ricordava qualcosa di pulito.
«
Oh, ma mi senti? »
Un mugugnio di affermazione gli giunse alle orecchie. La
cosa lo indispettì parecchio: tutto sommato non se l’era immaginata così quella
vacanza. Perciò aprì la porta e prima di sbattersela dietro incazzato rivolse
poche parole all’amico:
Vado a fare un giro. Se te la senti di uscire, vieni verso
il Museo di Salvador Dalì... ma guarda che se quando torno non sei in piedi,
giuro che ti riporto a casa!
Uscito dall’albergo seguì le indicazioni per il Museo. Non
conosceva molto di Dalì, ma sapeva che in qualche modo era legato a quella
città. Il sole iniziava a picchiare alto dal cielo. Cercava di passeggiare
all’ombra, quando ce n’era e per il resto si proteggeva gli occhi con un paio
di RayBan appena comprati e la testa con il suo inseparabile cappello targato
NYC.
Era quasi arrivato, quando la vide. Lo colpì il fatto che
lei stesse al sole, seduta, immobile, come se non facesse così caldo, come se
ci fosse solo lei, persa davanti ad una tela appena accennata, con di fianco
una tela già dipinta. Mentre si muoveva con discrezione verso di lei, la vide
piegarsi appena verso una serie di piccole lattine di pittura, ciascuna con un
proprio pennello infilato. Le prendeva in mano una per volta, girava il
pennello come per mischiava il liquido, lo sollevava appena, poi le rimetteva
giù e passava alla successiva.
Le arrivò alle spalle e solo allora la sua attenzione si
concentrò sulla donna. Sembrava una ragazza più o meno della sua età, anche se
non gli era concesso vederne il viso. I capelli erano lunghi e neri, lasciati
correre selvaggi lungo le sue spalle. La schiena era magra, sottile, e finiva
sulla sedia. Da lì, due gambe lunghe e strette in un minuscolo pantaloncino di
jeans si appoggiavano sul vimini. Si fermò. Non voleva disturbarla, ma era
incuriosito. Rimase immobile per circa cinque minuti ad osservarla e lo scosse
solo una voce.
«
Te gusta? »
La voce era indubbiamente quella della ragazza. Si voltò
per accertarsi che non ci fosse nessuno, quindi iniziò ad avanzare verso di
lei.
«
Te gusta? » riprese la
ragazza, stavolta voltandosi verso di lui.
«
Ehm... muy muy » le
disse senza sapere a cosa lei si stesse riferendo, nel suo spagnolo
assolutamente improvvisato.
Lei si voltò. I lunghi capelli neri adornavano un viso
ovale abbronzato, dalla fronte alta e spaziosa, due sopracciglia perfette, due
occhi castani scuri e profondi, un naso piccolo, una bocca carnosa che sembrava
essere nata apposta per incorniciare una fila di denti bianchi e perfetti. La
ragazza si alzò, quasi lusingata da quello sguardo che immediatamente scese
lungo il collo, i seni piccoli raccolti in un reggiseno a balconcino nero, la
vita sottile che faceva da degno preludio a due gambe muscolose e lunghe, che
prima aveva intuito quando l’aveva vista seduta.
«
Mariciel, Mariciel
Pichot » disse la ragazza tendendogli la mano
«
Ro... Roberto, io...
Roberto » si affrettò a dirle quasi con imbarazzo. Si sentiva colto in fallo, e
poi per cosa? Per averla semplicemente incontrata per caso, lungo la strada
verso un famoso museo?
«
Italiano?
«
Io... sì... italiano?
E tu? »
«
Española. Entiendes
español, Roberto? »
«
Pochito » disse accompagnando il suo improbabile spagnolo con il
gesto della mano che mimava “più o meno”.
«
Que haces aquì? »
«
Eh? Ah... io...
passeggiata... cammino... capisci? »
«
Mm... te gusta? »
«
Cosa? »
«
Este... » e indicò il
quadro appena iniziato con la mano.
«
No... »
«
No? »
«
No, no... dicevo...
Non è molto finido... »
«
Claro que no lo es! »
«
Pidora? – azzardò Roberto, continuando ad indovinare la lingua
del posto.
«
Pintora.. Ahah »
confermò lei, prendendo un po’ di acqua dalla bottiglietta appoggiata sotto la
sedia e rialzandosi portandosela alla bocca, in un movimento che confermò a
Roberto che il corpo della ragazza era uno schianto.
«
Donde studi? »
«
No estudio. Yo
trabajo... Museo Picasso de Barcelona. Pero estoy de vacaciones. »
La ragazza si sedette nuovamente sulla sedia e continuò a
parlare, immaginando che Roberto, pur non parlando spagnolo, lo capisse
perfettamente. In realtà non era proprio così, ma comunque Roberto intuì che
stava lavorando ad un progetto per il museo e doveva cercare di riprodurre un
quadro famoso di Salvador Dalì con una tecnica pittorica particolare in
sperimentazione presso il museo dove lavorava.
Era incredibilmente bella e quando parlava del suo lavoro
si infiammava. Roberto trotterellava dai suoi occhi infuocati alla sua bocca
splendente e fu così, rapito da quel volto mediterraneo eppur straniero, che si
inginocchiò affianco a lei, le prese il viso, lo voltò verso di sé e le sfiorò
quelle labbra con un bacio.
Mariciel era rimasta inizialmente attonita di fronte a quel
gesto, ma si era appena decisa a rispondere a quel bacio, quando una voce alle
loro spalle, che Roberto riconobbe immediatamente per via di quell’ancora
presente “inflessione da sbornia”,
irruppe tra i due, imponendo loro di fermarsi.
Silvia! Rimembri
ancora quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi
ridenti e fuggitivi...
Capitolo 4 (originale di Bart, prima parte)
Roberto dissimulò immediatamente nei confronti di Mariciel
la sua irritazione per quell'interruzione, causata dal sopraggiungere del
redivivo compagno di viaggio, applicandosi sul viso un plateale sorriso che non
aveva: quindi si girò verso di lui con giocosa noncuranza e cingendo con il
braccio le spalle della donna, gli disse di rimando, come fosse lieto di rivederlo:
- Hei, vecchio troglodita! Ma che ca...volo ti urli, eh?!
Poi sempre tenendo un tono ed un sorriso che avrebbero
meritato altre parole, continuò:
-Ti sei svegliato proprio ora, eh? Bravo... Ed adesso vai a
farti un bel giro a quel paese e scompari immediatamente, eh?... Già, vai...
Martino sollevò un po' il sopracciglio, e disse:
- Ma... dove devo andare?..
E Roberto, senza perdere il finto sorriso ed il tono
giocoso:
- Ma vai... affanculo, no? E magari anche subito, eh, ca-ro
A-mi-co mi-o?! Ciao, eh!.. Ciao... A dopo...
Martino annuì, poi raddrizzò il suo corpo ancora
ciondolante per i postumi degli stravizi, con gli occhi socchiusi e le mani ben
affondate nelle tasche dei jeans tagliati al ginocchio compì un rapido giro
d'orizzonte attorno per la plaza, quindi rispose:
- Ok Robi, vado: ciao...
Cena alle otto?
E senza attendere risposta si avviò con passo lento e
strascicato, mentre le sue orecchie sentivano l'amico che mormorava alla
fantastica mora che aveva appena conosciuto qualcosa del tipo:
- Eh? Ah, no:.. lui... mio... amigo! Sì... Ma dove eravamo
rimasti...?
NdR: il
capitolo originale riprende dopo il capitolo 5 [Sliding Doors]
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