lunedì 26 settembre 2011

Cinque pezzi meno facili - Sliding Doors - L’isola magica


Premessa 

Cinque pezzi meno facili è l’ultimo pezzo dei Giochi a quattro pubblicato. Lo trovate a questo Link

Abbiamo voluto replicare l’esperienza dello Sliding Doors, come già fatto per Alice, perchè ci piaceva immaginare un finale diverso. Le nostre fantasie non sempre coincidono, ciascuno vive le storie in modo diverso e a volte le conclusioni di un autore “spiazzano” la trama che l’autore precedente o successivo aveva in mente. Da qui nasce l’idea di ripartire da un certo punto della storia ed immaginare uno svolgimento diverso.

Questo Sliding Doors è stato scritto da Il Pavone Bianco, MakaylaReed e Snowflake, partendo dai primi quattro capitoli originali (il capitolo di Bart in realtà è stato diviso in due per esigenze “tecniche”). I capitoli “originali” sono scritti in blu per evidenziare il corpo iniziale della storia. In nero sono presentati i capitoli dello Sliding Doors.

Ripassiamo velocemente la storia per chi non la ricordasse e...
Il racconto nuovo inizia alle 11:00. Ci ritroviamo qui... siate puntuali!!!

E per Sabato, Signori e Signore, vi aspetta una sorpresa!

Il Pavone Bianco


[clicka su Leggi tutto per leggere i capitoli originali]



Capitolo 1 (originale di Gomez)

Roberto aveva ventiquattro anni, si era laureato da meno di trentasei ore e non sapeva quello che avrebbe combinato nella vita – “da grande” era un modo di dire che gli era sempre stato sulle palle.
Primo, perché tecnicamente lui era già “grande”; secondo, perché gli sembrava che mettere sotto quell’etichetta il suo futuro trasmettesse un’immagine sminuente di quella era stata la sua vita fino a quel momento.
Poteva essere stato più giovane, ma non per questo si era mai sentito “piccolo” – e non conosceva molta gente che a dodici anni sapesse suonare Baba O’Riley degli Who sulla Fender di suo fratello Simone. Come sapeva roteare il braccio destro teso quando chiudeva il riff principale col Si bemolle! Proprio come Townshend. Un unico gesto intriso di potenza e di grazia, un fluido movimento rotatorio che portava il plettro a schiantarsi contro le corde della Fender mentre a gambe divaricate assumeva la posizione di un giovane guerriero rock.
Ma quello era il suo passato, per quanto breve e ravvicinato. Ora il futuro era davvero una macchia indistinta davanti ai suoi occhi.
Roberto sapeva solo, in modo assolutamente generico ed istintivo, che il suo futuro avrebbe avuto (probabilmente) meno a che fare con la musica e più con la pratica legale, che le serate al Trottoir con gli amici sarebbero diventate sempre meno frequenti e che con ogni probabilità le All Star le avrebbe calzate solo dal venerdì sera alla domenica.
Poco male, era la metà di luglio e aveva ancora due mesi d’estate davanti a sé.
Anche in questo caso, Roberto sapeva sarebbe stata probabilmente l’ultima volta che poteva concedersi un periodo di vacanza così prolungato. Sarebbe presto entrato nella maggioranza silenziosa delle formule “due settimane ad agosto, una intorno a Natale” e il resto sparso tra weekend lunghi e appuntamenti e commissioni di vario genere. Occasionalmente, qualche trasferta per un concerto.
Si strinse nelle spalle e infilò un’altra polo nel borsone dell’Adidas con il quale di lì a cinque ore sarebbe salito sulla macchina di Martino per partire alla volta della Spagna. Dove, esattamente non ricordava. Martino gli aveva genericamente parlato di diverse località che componevano un reticolo astratto sulla sua cartina della Spagna, e che nessuno avrebbe mai potuto ricondurre ad un percorso logico. Non che da Martino ci si potesse aspettare una qualche forma di pianificazione, accurata o meno, di un viaggio o di qualsiasi altra cosa.
Lui e Roberto si conoscevano dalle medie, e il massimo che poteva dire di Martino è che non rientrava facilmente all’interno degli schemi. Aveva cambiato un sacco di scuole superiori (due licei, un istituto tecnico, poi si era diplomato privatamente facendo qualcosa come tre anni in uno) e adesso aveva iniziato a seguire lo stesso iter anche all’università. Da economia a lettere, da sociologia a matematica: continui cambiamenti, test di ingresso brillantemente superati ed esami che non occupavano neppure tre righe del suo libretto universitario.
Roberto sorrise e scosse la testa. Era quasi buffo che lui rappresentasse la “mente” di un viaggio del quale Martino aveva “pianificato” le tappe come se avesse estratto dei bussolotti con i nomi delle località da un’urna di quelle che riempivano le pagine degli eserciziari dei libri di statistica.
Aggiunse anche una t-shirt dei Sex Pistols e il caricatore per l’iPod. Saggiò il peso del borsone sollevandolo di qualche centimetro dal letto, constatò che era sopportabile, lo riappoggiò e tirò violentemente le cerniere per chiuderlo.
Si sedette ai piedi del letto, e imprecò quando gli sovvenne del pacchetto morbido di Marlboro infilato in tasca. Lo estrasse e osservò le sigarette spiegazzate e contorte mentre bricioline di tabacco si spargevano sui jeans chiari. Estrasse una sigaretta e la accese, inspirando una lunga boccata mentre con gli occhi cercava il soffitto.
E poi c’era Silvia.
Silvia, che Roberto non aveva invitato ad andare in vacanza con lui ma alla quale aveva preferito il periplo della penisola iberica con il suo amico d’infanzia. Silvia, che non l’aveva presa molto bene. Silvia, che non rispondeva alle sue chiamate (tre, per la verità) da due giorni, e il cui ultimo messaggio recitava, lapidario: “vaffanculo”.
E vaffanculo pure tu, pensò Roberto tirando un’altra boccata. Si alzò in piedi, gettò uno sguardo carico solo d’abitudine all’iPhone per vedere se fosse arrivato un messaggio o ci fosse un avviso di chiamata non risposta. Ovviamente niente.
Scosse la testa, spense la sigaretta nel portacenere rubato all’Arci Bellezza due anni prima e aprì la finestra, cercando di minimizzare la futura, probabile geremiade di sua madre circa la sua esecrabile abitudine di fumare in camera. Esecrabile, così l’avrebbe definita sua madre. Da buona ex insegnante di lettere al liceo classico, aveva l’abitudine di utilizzare un lessico composto di termini spesso sesquipedalmente (così avrebbe detto lei, pensava sogghignando tra sé Roberto) desueti che alle volte obbligavano i suoi interlocutori a nascondersi dietro sorrisi imbarazzati o risatine nervose nel vano tentativo di non tradire la loro incapacità di comprendere cosa lei stesse effettivamente dicendo.
Le prime note di Jump lo avvisarono che qualcuno lo stava chiamando. Afferrò il telefono con un’avidità che lui stesso non si sarebbe aspettato, e fu altrettanto sorpreso della sua sottile delusione quando sul display non apparve il volto che si aspettava, ma l’espressione etilica di Martino dopo una serata devastante al Club Fifty.

Capitolo 2 (originale di Snowflake)

Roberto esitò un istante prima di rispondere, quella chiamata non presagiva nulla di buono: “ cosa avrà mai da dirmi? Pronto…”
Dall’altro capo del filo, solo silenzio.
“ Pronto Marti, mi senti? ”
“ Si Si ci sono, o quasi, Roby scusa, ma non ho dormito un cazzo, non so come, ma ieri sera ero con degli amici dalle parti del Naviglio e  mi  hanno convinto a fare un salto al Trottoir, lo sai che è uno dei miei locali preferiti! C’erano i The Dragons  in concerto, insomma, musica niente male, vecchi amici, belle donne  e poi sai come va a finire quando sei li, una birra, un chupito, una tequila…”
Nuovamente una lunga pausa di silenzio
“ Hei Marti ci sei?”
“… e poi, un amico aveva della maria fantastica e tu sai che io non riesco a dire di no a certe cose, va beh, in poche parole sono ancora fuorissimo e non sono in grado di guidare, i casi sono due o rimandiamo la partenza a domani oppure mi vieni a prendere tu e guidi finche io non mi riprendo.”
Un smorfia di disapprovazione comparve sul volto di Roberto.
“ Fammi pensare cinque minuti e ti richiamo ,“.
 Chiuse il telefono.
“ Cazzo! lo sapevo, di Martino non ci si può proprio fidare, ed ora? “
Mille pensieri passarono nella testa di Roberto, da una parte non aveva un cazzo di voglia di dover guidare da solo per un sacco di ore, e sarebbe stato sicuramente così, perché conosceva bene le serate di Martino, e sicuramente una decina di ore per riprendersi forse non gli sarebbero nemmeno bastate. D’altro canto ormai il borsone era pronto, le speranze di sentire Silvia svanite e la cosa più importante, da non sottovalutare assolutamente, era che sua madre stava per ritornare a casa e sinceramente non aveva alcuna voglia di incontrarla per sorbirsi le sue solite raccomandazioni.
Deciso.
L’indice iniziò a digitare il numero di Marti sul touch screen del suo iPhone nuovo fiammante. 
333 2131443
Con un filo di voce dall’altro capo del telefono si sentì un ” siii “, che pareva arrivare dall’oltretomba.
“ Ok Marti tra meno di mezzora ti passo a prendere, fatti trovare pronto e… non addormentarti adesso, preparati, dormirai in macchina, ciao.”
“ Ok. Ciao”
Roberto prese il borsone, il giubbotto di jeans, fece un ultimo check delle cose che gli erano indispensabili per viaggiare, recuperò le chiavi della macchina e uscì.
In meno di venti minuti fu sotto casa di Martino. Lui lo stava aspettando appollaiato sul suo borsone, le sue mani sorreggevano a stento la testa che chiedeva disperatamente di potersi poggiare da qualche parte, per  finalmente lasciarsi andare e cadere in un sonno profondo.
“ Ciao Marti, dai, sali dietro, così potrai dormire “
Marti biascicò un : “ Grazie Roby “.
Martino si trascinò fino alla macchina, caricò il suo borsone, che pareva pesare una tonnellata, nel bagagliaio della C3 blu cielo del suo amico e si accasciò sul sedile posteriore.
“ Hei Marti prima di perdere completamente i sensi, dimmi qual era  esattamente la meta a cui pensavi! “
Silenzio.
“ Marti‼! “
Nessuna risposta.
Roberto decise di iniziare il suo viaggio verso la Spagna e una volta raggiunto il confine spagnolo, avrebbero deciso il da farsi.
Prese il cavo dell’ IPhone e lo collegò all’autoradio.
Un viaggio non è un viaggio senza poter ascoltare della buona musica. 
Martino abitava al quartiere Feltre nella zona est di Milano, così Roberto imboccò la Cassanese e si diresse in tangenziale, direzione Genova- Ventimiglia.
Da qui cominciò la loro avventura “ on the road”, alla maniera degli hobo.
Roberto da quel momento iniziò a sentirsi un po’ vagabondo, pronto ad affrontare questo viaggio con semplicità e spirito d’adattamento,  alla ricerca del suo io più profondo, per capire se quello che realmente voleva era  passare il resto della sua vita intrappolato in un abito scuro.
Con la musica a palla il tempo scorse velocemente e senza che se ne rendessero conto si trovarono a Ventimiglia.
Ogni tanto Martino alzava il capo mugugnando qualche cosa e facendo dei lunghi sorsi d’acqua, ( si sa che la “ resaca “ causa mal di testa e una gran sete!), per poi tornare a schiantarsi come senza vita sul sedile posteriore.
Superato il confine con la Francia abbandonarono la A10 per immergersi nel dolce panorama della costa meridionale francese, lungo la N113, arrivando così all’interno, verso Arles.
Quando vide il cartello stradale che indicava Arles, Roberto, non potè fare a meno di pensare a Silvia.
Silvia adorava Van Gogh e sicuramente passando per quei luoghi le sarebbe piaciuto fermarsi in questo paese che fu fonte d’ispirazione per alcuni dei suoi quadri più belli e senza ombra di dubbio avrebbe voluto che la portassi a vedere il famoso ponte di Langlios.
E che dire de “i Girasoli” che oltre ad essere uno dei quadri di Van Gogh che amava di più, erano anche i suoi fiori preferiti.
“ Ma perché diavolo stò pensando a lei!”
Parlando a voce alta si disse:” Dai Roby lo sai, è ormai un capitolo chiuso! Che t’importa di lei!”
Da Arles proseguirono lungo la A54 fino a raggiungere Nimes dove si immisero sulla  A9 che porta direttamente al confine spagnolo.
Visto che Martino ancora non era resuscitato dal suo coma profondo, Roberto dovette prendere una decisione… proseguire poi sulla A7, che li avrebbe condotti direttamente a Barcellona?  O cambiare rotta verso la costa, in direzione Roses, per arrivare alla mitica Cadaques?
Cadaques magico paesino sul mare, un mix tra un villaggio di pescatori e un ritrovo per edonisti. Qui decise di vivere per lunghi anni Salvador Dalì e come lui lo scelsero per soggiornarvi altri grandi artisti tra i quali Picasso, Mirò e Garcia Lorca.
Roberto decise di proseguire verso la Costa Brava, direzione Cadaques, per potersi immergere nel mistero di quella affascinante e ridente cittadina affacciata sul mare.
In quell’esatto istante un velo di malinconia pervase i suoi sensi, la colonna sonora che aveva fino ad ora accompagnato il suo viaggio con musicisti del calibro degli Who o di Jimi Hendrix, iniziò a renderlo un pochino  nervoso, tanto da decidere di spegnere, per affidarsi alla  famosa stazione radiofonica Cadena Ser.
Poca musica e tante parole, ma ciò non dispiacque a Roberto che così potè dare una rinfrescata al suo spagnolo, rendendosi ben presto conto di capire veramente pochissimo, sopratutto quando parlavano velocemente e in catalano.
Le ore passarono veloci, il tramonto era vicino e Roberto voleva assolutamente essere a Cadaques nel momento in cui il sole si sarebbe tuffato nel mare.
Ormai erano vicini alla meta.
Nell’esatto istante in cui arrivarono a Cadaques, dalla radio partirono le note di una canzone che Roberto conosceva perfettamente, era la voce di Luz Casal che cantava “ un ano de amor ”, la prima volta che la sentì nella colonna sonora di un film di Almodovar, forse Tajones Lejanos, gli rimase nel cuore per qualche recondito motivo.
Concentrato sulle parole della canzone sbagliò strada e si ritrovò su di un promontorio.
Fermò la macchina, cercò di svegliare Martino ancora inerte sul sedile posteriore: “ Marti io vado un po’ più in la a godermi il tramonto, se ne hai voglia, raggiungimi.”
Martino neanche rispose.
Un sentiero contornato da bianchi oleandri, attirò la sua attenzione.
Lo imboccò.
Sentì sprigionare dalle piante incontrate lungo il cammino i loro profumi intensi e selvatici, che fanno riconoscere la presenza di una particolare pianta senza neppure vederla, come capita con l’elicriso, il timo, la lavanda selvatica.
Improvviso un forte odore di salsedine.
I profumi della natura si miscelarono tra loro pervadendo il suo corpo.
La sua anima venne scossa dal ricordo di lei che riaffiorò violentemente nella sua mente.
Il suo corpo venne lacerato dalla passione che in quel momento non trovava dimora.
Troppo forte il desiderio.
Troppo forte la voglia di lei e delle sue calde mani che sapientemente sapevano sfiorare il suo corpo, provocando piaceri indescrivibili.
Troppo forte il dolore.
Meraviglioso il ricordo di lei.
In quel momento il sole si tuffò nel mare ed il cuore di Roberto rimase muto.

Capitolo 3 (originale de il Pavone Bianco)

Il sole fece capolino attraverso le tende di lino bianco. Aveva lasciato le persiane aperte, la sera prima. Non ci aveva badato, perchè era notte quando era salito in camera, stravolto per aver dovuto portare entrambi i bagagli, più il peso morto di Martino, dal parcheggio fin su al primo piano. “La pagherai, vecchio ubriacone” gli aveva sussurrato mentre lo spingeva a calci fuori dalla macchina, e se lo trascinava dietro, impietoso dei suoi mugugni, sostenendolo un po’ con un braccio e un po’ con la spalla destra. In realtà Roberto sperava che dopo quella notte Martino si potesse riprendere ed allora ‘fanculo a tutti i ricordi, si sarebbero davvero divertiti. In realtà quella mattina l’odore che si insinuava nelle sue narici già da un po’ e la scena che si propose ai suoi occhi non appena si levò dal letto, voltando lo sguardo verso l’amico, lo convinsero che avrebbe dovuto ancora aspettare a  godersi il suo divertimento.

Martino giaceva riverso bocconi sul letto, le gambe divaricate, la testa riversa verso terra e le braccia che cadevano parallele affianco ad essa, con le mani immerse in una pozza di vomito. Roberto corse in bagno preso da più di un conato, ma il suo stomaco non aveva ingurgitato nulla dalla sera prima e quindi tirò lo sciacquone per fare scivolare via quel po’ di acido che gli aveva reso amara la bocca e si lavò la faccia e i denti. Quindi tornò in camera, spalancò la finestra e si vestì. Lasciò un biglietto a Martino, nel caso improbabile che avesse aperto gli occhi e si fosse sentito disorientato. Scese nella hall dell’albergo, l’Hotel Port-Lligat, il primo hotel trovato sulla strada la sera precedente, mentre discendeva dal promontorio dove si era fermato a guardare il tramonto. Prese un caffè amaro e uscì, deciso a fare una lunga passeggiata per Cadaqués, giusto per non perdere il suo primo giorno di vacanza.

Si avviò a piedi in direzione del mare e passò la mattinata a girare lungo le stradine interne, affascinato dalle bianche case che caratterizzavano il paesaggio. Quindi scese verso il mare e si buttò in spiaggia. Steso al caldo sole, scrutava il paesaggio intorno, le buffe case bianche con le persiane azzurre che sembravano quelle di una favola, la chiesa che si ergeva dietro di esse e la gente che affollava qualche piccolo baretto sulla spiaggia. Tolse le scarpe, tirò su i jeans e decise di camminare un po’ lungo il bagnasciuga. Camminava con la testa alta, per rubare tutto il caldo che poteva in ogni centimetro di pelle. Eppure l’abbandonarsi al calore del sole sul capo, mitigato dal fresco dell’acqua sulle parti diametralmente opposte ad esso, non riuscivano a togliergli dalla testa il pensiero fisso che continuava ad ossessionarlo da quando era partito: Silvia. Provò a chiamarla, ma nulla. Quella stronza non rispondeva!

La fame iniziò a farsi sentire verso mezzogiorno. Entrò in un bar, prese un aperitivo – rigorosamente alla frutta: ne bastava uno a dover smaltire gli effetti dell’alcool! – e si decise a ripercorrere la strada indietro verso l’albergo, nella speranza di trovare Martino se non sveglio e lucido, almeno parzialmente cosciente e capace di prendere qualche decisione sulla loro vacanza. In fondo, lui non sapeva dove andare. Barcellona era a circa due ore e mezza da lì, aveva visto sulla cartina di fronte al bar dell’albergo, ma una volta arrivati non avrebbe saputo cosa fare. Con quel cadavere puzzolente che russava sui sedili posteriori... no, non sarebbe andato molto lontano.

Salì in camera e trovò Martino seduto, con lo sguardo fisso nel vuoto ed una sigaretta che gli pendeva dalla bocca.
«   Bene... un passo avanti! »

In qualche modo il vomito era stato ripulito e le lenzuola erano state cambiate. La stanza odorava di fumo misto a candeggina e ammoniaca, ma almeno ricordava qualcosa di pulito.
«   Oh, ma mi senti? »

Un mugugnio di affermazione gli giunse alle orecchie. La cosa lo indispettì parecchio: tutto sommato non se l’era immaginata così quella vacanza. Perciò aprì la porta e prima di sbattersela dietro incazzato rivolse poche parole all’amico:
Vado a fare un giro. Se te la senti di uscire, vieni verso il Museo di Salvador Dalì... ma guarda che se quando torno non sei in piedi, giuro che ti riporto a casa!

Uscito dall’albergo seguì le indicazioni per il Museo. Non conosceva molto di Dalì, ma sapeva che in qualche modo era legato a quella città. Il sole iniziava a picchiare alto dal cielo. Cercava di passeggiare all’ombra, quando ce n’era e per il resto si proteggeva gli occhi con un paio di RayBan appena comprati e la testa con il suo inseparabile cappello targato NYC.

Era quasi arrivato, quando la vide. Lo colpì il fatto che lei stesse al sole, seduta, immobile, come se non facesse così caldo, come se ci fosse solo lei, persa davanti ad una tela appena accennata, con di fianco una tela già dipinta. Mentre si muoveva con discrezione verso di lei, la vide piegarsi appena verso una serie di piccole lattine di pittura, ciascuna con un proprio pennello infilato. Le prendeva in mano una per volta, girava il pennello come per mischiava il liquido, lo sollevava appena, poi le rimetteva giù e passava alla successiva.

Le arrivò alle spalle e solo allora la sua attenzione si concentrò sulla donna. Sembrava una ragazza più o meno della sua età, anche se non gli era concesso vederne il viso. I capelli erano lunghi e neri, lasciati correre selvaggi lungo le sue spalle. La schiena era magra, sottile, e finiva sulla sedia. Da lì, due gambe lunghe e strette in un minuscolo pantaloncino di jeans si appoggiavano sul vimini. Si fermò. Non voleva disturbarla, ma era incuriosito. Rimase immobile per circa cinque minuti ad osservarla e lo scosse solo una voce.
«         Te gusta? »

La voce era indubbiamente quella della ragazza. Si voltò per accertarsi che non ci fosse nessuno, quindi iniziò ad avanzare verso di lei.
«         Te gusta? » riprese la ragazza, stavolta voltandosi verso di lui.
«         Ehm... muy muy » le disse senza sapere a cosa lei si stesse riferendo, nel suo spagnolo assolutamente improvvisato.

Lei si voltò. I lunghi capelli neri adornavano un viso ovale abbronzato, dalla fronte alta e spaziosa, due sopracciglia perfette, due occhi castani scuri e profondi, un naso piccolo, una bocca carnosa che sembrava essere nata apposta per incorniciare una fila di denti bianchi e perfetti. La ragazza si alzò, quasi lusingata da quello sguardo che immediatamente scese lungo il collo, i seni piccoli raccolti in un reggiseno a balconcino nero, la vita sottile che faceva da degno preludio a due gambe muscolose e lunghe, che prima aveva intuito quando l’aveva vista seduta.
«         Mariciel, Mariciel Pichot » disse la ragazza tendendogli la mano
«         Ro... Roberto, io... Roberto » si affrettò a dirle quasi con imbarazzo. Si sentiva colto in fallo, e poi per cosa? Per averla semplicemente incontrata per caso, lungo la strada verso un famoso museo?
«         Italiano?
«         Io... sì... italiano? E tu? »
«         Española. Entiendes español, Roberto? »
«         Pochito » disse accompagnando il suo improbabile spagnolo con il gesto della mano che mimava “più o meno”.
«         Que haces aquì? »
«         Eh? Ah... io... passeggiata... cammino... capisci? »
«         Mm... te gusta? »
«         Cosa? »
«         Este... » e indicò il quadro appena iniziato con la mano.
«         No... »
«         No? »
«         No, no... dicevo... Non è molto finido... »
«         Claro que no lo es! »
«         Pidora? – azzardò Roberto, continuando ad indovinare la lingua del posto.
«         Pintora.. Ahah » confermò lei, prendendo un po’ di acqua dalla bottiglietta appoggiata sotto la sedia e rialzandosi portandosela alla bocca, in un movimento che confermò a Roberto che il corpo della ragazza era uno schianto.
«         Donde studi? »
«         No estudio. Yo trabajo... Museo Picasso de Barcelona. Pero estoy de vacaciones. »

La ragazza si sedette nuovamente sulla sedia e continuò a parlare, immaginando che Roberto, pur non parlando spagnolo, lo capisse perfettamente. In realtà non era proprio così, ma comunque Roberto intuì che stava lavorando ad un progetto per il museo e doveva cercare di riprodurre un quadro famoso di Salvador Dalì con una tecnica pittorica particolare in sperimentazione presso il museo dove lavorava.

Era incredibilmente bella e quando parlava del suo lavoro si infiammava. Roberto trotterellava dai suoi occhi infuocati alla sua bocca splendente e fu così, rapito da quel volto mediterraneo eppur straniero, che si inginocchiò affianco a lei, le prese il viso, lo voltò verso di sé e le sfiorò quelle labbra con un bacio.
Mariciel era rimasta inizialmente attonita di fronte a quel gesto, ma si era appena decisa a rispondere a quel bacio, quando una voce alle loro spalle, che Roberto riconobbe immediatamente per via di quell’ancora presente “inflessione da sbornia”,  irruppe tra i due, imponendo loro di fermarsi.

Silvia! Rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi...


Capitolo 4  (originale di Bart, prima parte)

Roberto dissimulò immediatamente nei confronti di Mariciel la sua irritazione per quell'interruzione, causata dal sopraggiungere del redivivo compagno di viaggio, applicandosi sul viso un plateale sorriso che non aveva: quindi si girò verso di lui con giocosa noncuranza e cingendo con il braccio le spalle della donna, gli disse di rimando, come fosse lieto di rivederlo:
- Hei, vecchio troglodita! Ma che ca...volo ti urli, eh?!
Poi sempre tenendo un tono ed un sorriso che avrebbero meritato altre parole, continuò:
-Ti sei svegliato proprio ora, eh? Bravo... Ed adesso vai a farti un bel giro a quel paese e scompari immediatamente, eh?... Già, vai...
Martino sollevò un po' il sopracciglio, e disse:
- Ma... dove devo andare?..
E Roberto, senza perdere il finto sorriso ed il tono giocoso:
- Ma vai... affanculo, no? E magari anche subito, eh, ca-ro A-mi-co mi-o?! Ciao, eh!.. Ciao... A dopo...
Martino annuì, poi raddrizzò il suo corpo ancora ciondolante per i postumi degli stravizi, con gli occhi socchiusi e le mani ben affondate nelle tasche dei jeans tagliati al ginocchio compì un rapido giro d'orizzonte attorno per la plaza, quindi rispose:
- Ok Robi, vado: ciao...  Cena alle otto?
E senza attendere risposta si avviò con passo lento e strascicato, mentre le sue orecchie sentivano l'amico che mormorava alla fantastica mora che aveva appena conosciuto qualcosa del tipo:
- Eh? Ah, no:.. lui... mio... amigo! Sì... Ma dove eravamo rimasti...?

NdR: il capitolo originale riprende dopo il capitolo 5 [Sliding Doors]

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