giovedì 8 settembre 2011

Cinque pezzi meno facili - Cap.3

Il sole fece capolino attraverso le tende di lino bianco. Aveva lasciato le persiane aperte, la sera prima. Non ci aveva badato, perchè era notte quando era salito in camera, stravolto per aver dovuto portare entrambi i bagagli, più il peso morto di Martino, dal parcheggio fin su al primo piano. “La pagherai, vecchio ubriacone” gli aveva sussurrato mentre lo spingeva a calci fuori dalla macchina, e se lo trascinava dietro, impietoso dei suoi mugugni, sostenendolo un po’ con un braccio e un po’ con la spalla destra. In realtà Roberto sperava che dopo quella notte Martino si potesse riprendere ed allora ‘fanculo a tutti i ricordi, si sarebbero davvero divertiti. In realtà quella mattina l’odore che si insinuava nelle sue narici già da un po’ e la scena che si propose ai suoi occhi non appena si levò dal letto, voltando lo sguardo verso l’amico, lo convinsero che avrebbe dovuto ancora aspettare a godersi il suo divertimento.
Martino giaceva riverso bocconi sul letto, le gambe divaricate, la testa riversa verso terra e le braccia che cadevano parallele affianco ad essa, con le mani immerse in una pozza di vomito. Roberto corse in bagno preso da più di un conato, ma il suo stomaco non aveva ingurgitato nulla dalla sera prima e quindi tirò lo sciacquone per fare scivolare via quel po’ di acido che gli aveva reso amara la bocca e si lavò la faccia e i denti. Quindi tornò in camera, spalancò la finestra e si vestì. Lasciò un biglietto a Martino, nel caso improbabile che avesse aperto gli occhi e si fosse sentito disorientato. Scese nella hall dell’albergo, l’Hotel Port-Lligat, il primo hotel trovato sulla strada la sera precedente, mentre discendeva dal promontorio dove si era fermato a guardare il tramonto. Prese un caffè amaro e uscì, deciso a fare una lunga passeggiata per Cadaqués, giusto per non perdere il suo primo giorno di vacanza.

Si avviò a piedi in direzione del mare e passò la mattinata a girare lungo le stradine interne, affascinato dalle bianche case che caratterizzavano il paesaggio. Quindi scese verso il mare e si buttò in spiaggia. Steso al caldo sole, scrutava il paesaggio intorno, le buffe case bianche con le persiani azzurre che sembravano quelle di una favola, la chiesa che si ergeva dietro di esse e la gente che affollava qualche piccolo baretto sulla spiaggia. Tolse le scarpe, tirò su i jeans e decise di camminare un po’ lungo il bagnasciuga. Camminava con la testa alta, per rubare tutto il caldo che poteva in ogni centimetro di pelle. Eppure l’abbandonarsi al calore del sole sul capo, mitigato dal fresco dell’acqua sulle parti diametralmente opposte ad esso, non riuscivano a togliergli dalla testa il pensiero fisso che continuava ad ossessionarlo da quando era partito: Silvia. Provò a chiamarla, ma nulla. Quella stronza non rispondeva!
 
La fame iniziò a farsi sentire verso mezzogiorno. Entrò in un bar, prese un aperitivo – rigorosamente alla frutta: ne bastava uno a dover smaltire gli effetti dell’alcool! – e si decise a ripercorrere la strada indietro verso l’albergo, nella speranza di trovare Martino se non sveglio e lucido, almeno parzialmente cosciente e capace di prendere qualche decisione sulla loro vacanza. In fondo, lui non sapeva dove andare. Barcellona era a circa due ore e mezza da lì, aveva visto sulla cartina di fronte al bar dell’albergo, ma una volta arrivati non avrebbe saputo cosa fare. Con quel cadavere puzzolente che russava sui sedili posteriori... no, non sarebbe andato molto lontano.
 
Salì in camera e trovò Martino seduto, con lo sguardo fisso nel vuoto ed una sigaretta che gli pendeva dalla bocca.
- Bene... un passo avanti!

In qualche modo il vomito era stato ripulito e le lenzuola erano state cambiate. La stanza odorava di fumo misto a candeggina e ammoniaca, ma almeno ricordava qualcosa di pulito.
- Oh, ma mi senti?
 
Un mugugnio di affermazione gli giunse alle orecchie. La cosa lo indispettì parecchio: tutto sommato non se l’era immaginata così quella vacanza. Perciò aprì la porta e prima di sbattersela dietro incazzato rivolse poche parole all’amico:
- Vado a fare un giro. Se te la senti di uscire, vieni verso il Museo di Salvador Dalì... ma guarda che se quando torno non sei in piedi, giuro che ti riporto a casa!
 
Uscito dall’albergo seguì le indicazioni per il Museo. Non conosceva molto di Dalì, ma sapeva che in qualche modo era legato a quella città. Il sole iniziava a picchiare alto dal cielo. Cercava di passeggiare all’ombra, quando ce n’era e per il resto si proteggeva gli occhi con un paio di RayBan appena comprati e la testa con il suo inseparabile cappello targato NYC.
 
Era quasi arrivato, quando la vide. Lo colpì il fatto che lei stesse al sole, seduta, immobile, come se non facesse così caldo, come se ci fosse solo lei, persa davanti ad una tela appena accennata, con di fianco una tela già dipinta. Mentre si muoveva con discrezione verso di lei, la vide piegarsi appena verso una serie di piccole lattine di pittura, ciascuna con un proprio pennello infilato. Le prendeva in mano una per volta, girava il pennello come per mischiava il liquido, lo sollevava appena, poi le rimetteva giù e passava alla successiva.
 
Le arrivò alle spalle e solo allora la sua attenzione si concentrò sulla donna. Sembrava una ragazza più o meno della sua età, anche se non gli era concesso vederne il viso. I capelli erano lunghi e neri, lasciati correre selvaggi lungo le sue spalle. La schiena era magra, sottile, e finiva sulla sedia. Da lì, due gambe lunghe e strette in un minuscolo pantaloncino di jeans si appoggiavano sul vimini. Si fermò. Non voleva disturbarla, ma era incuriosito. Rimase immobile per circa cinque minuti ad osservarla e lo scosse solo una voce.
- Te gusta?

La voce era indubbiamente quella della ragazza. Si voltò per accertarsi che non ci fosse nessuno, quindi iniziò ad avanzare verso di lei.
- Te gusta? – riprese la ragazza, stavolta voltandosi verso di lui.
- Ehm... muy muy – le disse senza sapere a cosa lei si stesse riferendo, nel suo spagnolo assolutamente improvvisato.
 
Lei si voltò. I lunghi capelli neri adornavano un viso ovale abbronzato, dalla fronte alta e spaziosa, due sopracciglia perfette, due occhi castani scuri e profondi, un naso piccolo, una bocca carnosa che sembrava essere nata apposta per incorniciare una fila di denti bianchi e perfetti. La ragazza si alzò, quasi lusingata da quello sguardo che immediatamente scese lungo il collo, i seni piccoli raccolti in un reggiseno a balconcino nero, la vita sottile che faceva da degno preludio a due gambe muscolose e lunghe, che prima aveva intuito quando l’aveva vista seduta.
- Mariciel, Mariciel Pichot – disse la ragazza tendendogli la mano
- Ro... Roberto, io... Roberto – si affrettò a dirle quasi con imbarazzo. Si sentiva colto in fallo, e poi per cosa? Per averla semplicemente incontrata per caso, lungo la strada verso un famoso museo?
- Italiano?
- Io... sì... italiano? E tu?
- Española. Entiendes español, Roberto?
- Pochito – disse accompagnando il suo improbabile spagnolo con il gesto della mano che mimava “più o meno”.
- Que haces aquì?
- Eh? Ah... io... passeggiata... cammino... capisci?
- Mm... te gusta?
- Cosa?
- Este... – e indicò il quadro appena iniziato con la mano.
- No...
- No?
- No, no... dicevo... Non è molto finido...
- Claro que no lo es!
- Pidora? – azzardò Roberto, continuando ad indovinare la lingua del posto.
- Pintora.. Ahah – confermò lei, prendendo un po’ di acqua dalla bottiglietta appoggiata sotto la sedia e rialzandosi portandosela alla bocca, in un movimento che confermò a Roberto che il corpo della ragazza era uno schianto.
- Donde studi?
- No estudio. Yo trabajo... Museo Picasso de Barcelona. Pero estoy de vacaciones.
 
La ragazza si sedette nuovamente sulla sedia e continuò a parlare, immaginando che Roberto, pur non parlando spagnolo, lo capisse perfettamente. In realtà non era proprio così, ma comunque Roberto intuì che stava lavorando ad un progetto per il museo e doveva cercare di riprodurre un quadro famoso di Salvador Dalì con una tecnica pittorica particolare in sperimentazione presso il museo dove lavorava.

Era incredibilmente bella e quando parlava del suo lavoro si infiammava. Roberto trotterellava dai suoi occhi infuocati alla sua bocca splendente e fu così, rapito da quel volto mediterraneo eppur straniero, che si inginocchiò affianco a lei, le prese il viso, lo voltò verso di sé e le sfiorò quelle labbra con un bacio.

Mariciel era rimasta inizialmente attonita di fronte a quel gesto, ma si era appena decisa a rispondere a quel bacio, quando una voce alle loro spalle, che Roberto riconobbe immediatamente per via di quell’ancora presente “inflessione da sbornia”, irruppe tra i due, imponendo loro di fermarsi.
 
Silvia! Rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi...

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