Roberto aveva ventiquattro anni, si era laureato da meno di trentasei ore e non sapeva quello che avrebbe combinato nella vita – “da grande” era un modo di dire che gli era sempre stato sulle palle.
Primo, perché tecnicamente lui era già “grande”; secondo, perché gli sembrava che mettere sotto quell’etichetta il suo futuro trasmettesse un’immagine sminuente di quella era stata la sua vita fino a quel momento.
Poteva essere stato più giovane, ma non per questo si era mai sentito “piccolo” – e non conosceva molta gente che a dodici anni sapesse suonare Baba O’Riley degli Who sulla Fender di suo fratello Simone. Come sapeva roteare il braccio destro teso quando chiudeva il riff principale col Si bemolle! Proprio come Townshend. Un unico gesto intriso di potenza e di grazia, un fluido movimento rotatorio che portava il plettro a schiantarsi contro le corde della Fender mentre a gambe divaricate assumeva la posizione di un giovane guerriero rock.
Ma quello era il suo passato, per quanto breve e ravvicinato. Ora il futuro era davvero una macchia indistinta davanti ai suoi occhi.
Roberto sapeva solo, in modo assolutamente generico ed istintivo, che il suo futuro avrebbe avuto (probabilmente) meno a che fare con la musica e più con la pratica legale, che le serate al Trottoir con gli amici sarebbero diventate sempre meno frequenti e che con ogni probabilità le All Star le avrebbe calzate solo dal venerdì sera alla domenica.
Poco male, era la metà di luglio e aveva ancora due mesi d’estate davanti a sé.
Anche in questo caso, Roberto sapeva sarebbe stata probabilmente l’ultima volta che poteva concedersi un periodo di vacanza così prolungato. Sarebbe presto entrato nella maggioranza silenziosa delle formule “due settimane ad agosto, una intorno a Natale” e il resto sparso tra weekend lunghi e appuntamenti e commissioni di vario genere. Occasionalmente, qualche trasferta per un concerto.
Si strinse nelle spalle e infilò un’altra polo nel borsone dell’Adidas con il quale di lì a cinque ore sarebbe salito sulla macchina di Martino per partire alla volta della Spagna. Dove, esattamente non ricordava. Martino gli aveva genericamente parlato di diverse località che componevano un reticolo astratto sulla sua cartina della Spagna, e che nessuno avrebbe mai potuto ricondurre ad un percorso logico. Non che da Martino ci si potesse aspettare una qualche forma di pianificazione, accurata o meno, di un viaggio o di qualsiasi altra cosa.
Lui e Roberto si conoscevano dalle medie, e il massimo che poteva dire di Martino è che non rientrava facilmente all’interno degli schemi. Aveva cambiato un sacco di scuole superiori (due licei, un istituto tecnico, poi si era diplomato privatamente facendo qualcosa come tre anni in uno) e adesso aveva iniziato a seguire lo stesso iter anche all’università. Da economia a lettere, da sociologia a matematica: continui cambiamenti, test di ingresso brillantemente superati ed esami che non occupavano neppure tre righe del suo libretto universitario.
Roberto sorrise e scosse la testa. Era quasi buffo che lui rappresentasse la “mente” di un viaggio del quale Martino aveva “pianificato” le tappe come se avesse estratto dei bussolotti con i nomi delle località da un’urna di quelle che riempivano le pagine degli eserciziari dei libri di statistica.
Aggiunse anche una t-shirt dei Sex Pistols e il caricatore per l’iPod. Saggiò il peso del borsone sollevandolo di qualche centimetro dal letto, constatò che era sopportabile, lo riappoggiò e tirò violentemente le cerniere per chiuderlo.
Si sedette ai piedi del letto, e imprecò quando gli sovvenne del pacchetto morbido di Marlboro infilato in tasca. Lo estrasse e osservò le sigarette spiegazzate e contorte mentre bricioline di tabacco si spargevano sui jeans chiari. Estrasse una sigaretta e la accese, inspirando una lunga boccata mentre con gli occhi cercava il soffitto.
E poi c’era Silvia.
Silvia, che Roberto non aveva invitato ad andare in vacanza con lui ma alla quale aveva preferito il periplo della penisola iberica con il suo amico d’infanzia. Silvia, che non l’aveva presa molto bene. Silvia, che non rispondeva alle sue chiamate (tre, per la verità) da due giorni, e il cui ultimo messaggio recitava, lapidario: “vaffanculo”.
E vaffanculo pure tu, pensò Roberto tirando un’altra boccata. Si alzò in piedi, gettò uno sguardo carico solo d’abitudine all’iPhone per vedere se fosse arrivato un messaggio o ci fosse un avviso di chiamata non risposta. Ovviamente niente.
Scosse la testa, spense la sigaretta nel portacenere rubato all’Arci Bellezza due anni prima e aprì la finestra, cercando di minimizzare la futura, probabile geremiade di sua madre circa la sua esecrabile abitudine di fumare in camera. Esecrabile, così l’avrebbe definita sua madre. Da buona ex insegnante di lettere al liceo classico, aveva l’abitudine di utilizzare un lessico composto di termini spesso sesquipedalmente (così avrebbe detto lei, pensava sogghignando tra sé Roberto) desueti che alle volte obbligavano i suoi interlocutori a nascondersi dietro sorrisi imbarazzati o risatine nervose nel vano tentativo di non tradire la loro incapacità di comprendere cosa lei stesse effettivamente dicendo.
Le prime note di Jump lo avvisarono che qualcuno lo stava chiamando. Afferrò il telefono con un’avidità che lui stesso non si sarebbe aspettato, e fu altrettanto sorpreso della sua sottile delusione quando sul display non apparve il volto che si aspettava, ma l’espressione etilica di Martino dopo una serata devastante al Club Fifty.
Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci
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Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a
superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata
e un...
3 mesi fa
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