mercoledì 27 luglio 2011

La pecora nera - Cap. 5

- Oh….Signor Edgardo, ci scusi, stavamo discutendo …e la cosa è degenerata – blaterò Irma con visibile imbarazzo - L’abbiamo disturbata….distolta dal suo lavoro?
- Ah…si parla del diavolo, con quel che segue….comunque avrebbe potuto restarsene anche in camera sua: la sua amica, qui, ha brillantemente preso le sue difese.
Andrea aveva indicato con lo sguardo Irma che,ora, se ne stava dimessa in un angolo, rossa in viso.
No, non si era ancora arreso Andrea, non si dava ancora per vinto….avrebbe continuato a provocare Edgardo all’infinito…ne aveva ancora di rospi nella gola da tirare fuori.
-Non ho autorizzato nessuno a prendere le mie difese - rispose piatto Edgardo rivolgendo uno sguardo interrogativo ad Irma.
– Comunque ora sono qui, La prego, se ha qualcosa da dirmi, non si faccia remore, Le rispondo –
Il tono asciutto, educato e deciso di Edgardo mise, per un attimo, Andrea in difficoltà.
Con l’attenzione dei presenti concentrata sui due, Irma ebbe il tempo di lasciare la sala in tutta tranquillità e indifferenza e si era diretta, pensierosa, nella sua stanza. Varcata e chiusa la porta dietro di sé, si era seduta sulla sedia a dondolo accanto alla finestra e si era avvolta nella sua coperta color lavanda. Nervosamente aveva iniziato a dondolarsi, pensando a quanto era accaduto, alcuni minuti prima, proprio là sotto. La simpatia che nutriva per Edgardo non era più un segreto….se non per Edgardo stesso.
Non era certo innamorata di lui: l’amore tra gli anziani è ben diverso di quello tra i giovani….ma aver preso le sue difese davanti a tutti, forse era stato imbarazzante per Edgardo, in fondo sapeva ben cavarsela da solo…..e allora perché mai l’aveva fatto?
Averlo difeso equivaleva ad ammettere la sua incapacità di farlo…..almeno per lei funzionava proprio così. Ne aveva ancora di energia da elargire….e se qualcuno lo avesse fatto a lei? Come avrebbe reagito?
Mentre si interrogava, la sua mente, i suoi ricordi, andarono alla nonna materna con la quale era, praticamente, cresciuta.
I racconti di fanciulla erano quello che di più caro le era rimasto nel cuore: già…non riusciva a ricordare che cosa avesse bevuto o mangiato a colazione, quello stesso giorno, ma ricordava perfettamente cose accadute diversi decenni prima. Anche questo faceva parte delle cose che accadono solo agli anziani, pensò a malincuore.
Il nonno di Irma era stato catturato dai Tedeschi e deportato in un campo di concentramento, Auswitz o forse Birkenau, il nome non lo ricordava con esattezza, del resto la nonna non era precisa a riguardo: una volta era l’uno e la volta dopo era l’altro. Qualche volta il racconto era ricco di particolari…..e la volta successiva pareva che la nonna si fosse dimenticata tutto e inventasse ogni cosa quasi si trattasse di una favola, di un romanzo.
Irma dapprima aveva pensato che la memoria della nonna giocasse, già allora, a suo sfavore. Col tempo capì quanto dovesse essere penoso per lei, accedere a quei ricordi, e condividerli, soprattutto con una bambina, Irma, tanto curiosa e attenta, ma altrettanto inconsapevole. Aveva iniziato a non fare più domande alla nonna e si accontentava. Quando la nonna se la sentiva e la chiamava per “raccontarle una storia”, si appallottolava nella sedia a dondolo, sgranava occhi, apriva molto bene le orecchie ….e la magia iniziava. Per Irma ricordare un nome era assai importante, ma la nonna sosteneva che un nome non aveva poi così grande importanza.
“Nel campo nulla è importante: il nome che porti, la vita stessa….non ha alcun valore. L’esistenza di ciascuno è riassunta in una sequenza di numeri a cui tocca, peraltro, la medesima sorte. Il nonno fu uno di quelli fortunati: ritornò dai campi di concentramento, ma non fu più lo stesso…..la nostra vita non fu mai più la stessa. Pietro, tuo nonno, era un gran chiacchierone sai….un oratore davvero particolare, ma da quando aveva fatto ritorno mi pareva di avere accanto un altro uomo, qualcuno che nemmeno conoscevo, un’ombra, un fantasma. Non seppi nemmeno come fece a tornare, non me lo disse mai. Una mattina mi svegliai, aprii la porta di casa e lo trovai addormentato sullo zerbino davanti casa….lo chiamai, si svegliò, si alzò ed entrò in casa…senza di nulla.Non parlò per giorni, settimane…mesi…..
Non aveva più nulla da dire, gli avevano succhiato il midollo….quei maledetti, si erano presi la vita, la linfa, avevano spappolato il cuore, lo avevano schiacciato, sfinito e poi glielo avevano rimesso in corpo…in quel che restava di un corpo dalle sembianze umane. A chi lo veniva a salutare rispondeva con un cenno della testa…che poteva voler dire qualsiasi cosa. Un giorno le donne, quelle del paese, arrivarono a massa per chiedere della sorte dei loro mariti…lui prese la giacca e il cappello, attraversò la piccola folla e andò nel campo arato che avevamo dietro casa. Lo raggiunsi e lo trovai seduto nella terra, lo sguardo perso, inespressivo, vuoto.
-Se vuoi….io ti..ascolto..- dissi al nonno
-Non ci sono abbastanza parole per raccontare, abbastanza voci per ricordare, abbastanza lacrime per piangere, non crederesti a ciò che ho visto, che mi hanno fatto, che hanno fatto a tutti, un incubo durerebbe sempre meno di ciò che è stato…..forse col tempo le cose potrebbero cambiare…ma io non potrò mai dimenticare….mai.
Furono le sole cose che riuscì a dire, le uniche che gli uscirono dalle labbra asciutte e stanche. Capii che non era ritornato, ma che era rimasto là dove lo avevano portato e che non sarei mai stata capace di capire fino in fondo….non sarei mai stata capace di capire.
La nonna era rimasta incinta e, – Dio solo sa come – diceva lei, un anno dopo nacque mia madre.
Quella era stata l’unica volta il cui la nonna aveva visto il nonno..non contento né felice…ma semplicemente un po’ più sollevato. Teneva mamma sulle ginocchia, ma non era più in grado di amare o provare il più piccolo ed effimero sentimento nel cuore.
Mia madre aveva ricordi vaghi di un brandello d’uomo, assente, solo, triste.
Come avesse fatto a ritornare rimase un mistero e qualche volta nonna, in preda ad un qualche flusso di coscienza, diceva – tornato così….era come non tornato affatto.
Di mio nonno restavano pezzi di puzzle sparsi chissà dove, manciate di racconti sulla sua attività da partigiano…..e un’unica verità: lui era tornato….tutti quelli partiti con lui erano morti, stremati dalla fame, dal freddo, dal lavoro, dalle esecuzioni, dalla cattiveria, dall’odio, ……dal gas…….
Quando nonna raccontava ad Irma questi “pezzi di vita” lei, anche se piccola, ricordava il moto d’odio e di rabbia verso….il nemico….ricordava quanto detestasse i Tedeschi sulle spiagge della Romagna, detestava il suono duro e crudo della loro lingua, evitava di giocare coi bimbi dai capelli biondi, la carnagione chiara, gli occhi azzurri….la razza “pura” a lei faceva “ribrezzo” .
Ma il tempo aveva rimosso anche questo….e con gli anni aveva perdonato, capito, compreso ed era andata avanti. Se aveva perdonato la nonna, perché non avrebbe potuto perdonare anche lei. In fondo il nonno era morto: aveva passato gli ultimi anni della sua vita in modo tranquillo e sereno, almeno così da fuori si vedeva….ed era morto recitando delle preghiere in Tedesco….forse anche lui, nel suo, aveva perdonato tutto.
Ricordare quella parte della sua vita rese Irma triste e assente. E lei detestava essere e l’una e l’altra. Scostò la coperta, fermò la sedia puntando entrambe le punte dei piccoli piedi in avanti e con un movimento lento ma elegante, scese dalla sedia, si mise il suo scialle, aprì e richiuse la porta della sua stanza, e scese al piano di sotto. La situazione si era normalizzata: Edgardo scomparso….Andrea chissà dove a discutere di cosa con chissà chi…..e gli altri ospiti intenti al…..solito!
Attraversò l’atrio, passando davanti all’ingresso della sala comune, raggiungendo la porta principale e ne uscì con tranquillità.
Il tramonto era l’ora che Irma preferiva in assoluto….si incamminò verso la serra dietro la casa di riposo. Distava solo cinque minuti a piedi, ma tutti quei pensieri, i ricordi e, non ultimo, quella discussione, resero il tragitto molto più lungo.
Raggiuntala, Irma infilò la chiave nella toppa della porta, e l’aprì dolcemente.
Quegli ultimi fili di sole rendevano l’interno della serra, caldo ed accogliente.
Irma entrò e richiuse nuovamente la porta a chiave, non che fosse necessario, dato che nessuno degli ospiti si spingeva mai così lontano dalla casa principale, ma le dava una certa sicurezza.
Si avvicinò ad un lenzuolo che ricopriva il suo tesoro, pian piano lo tolse scoprendone sotto, un’arpa celtica. Irma era stata una grande concertista, in giovane età, aveva girato gran parte del mondo con l’orchestra di cui era direttore il marito. La musica l’aveva aiutata a superare ostilità, dolori, scelte, insomma era un rifugio sicuro. Con l’età, era diventato sempre più difficile esercitarsi e suonare: le dita non erano certo più quelle di un tempo, ma sapeva ancora dar anima e corpo a quello strumento e, Dio le era testimone, sapeva ancora toccare le corde del cuore di chi l’ascoltava suonare.
Avvicinò il viso al dorso dello strumento e gli sussurrò - Eccomi qua, cara Deirdre, dammi qualche emozione anche oggi: ne ho davvero bisogno –
Iniziò a pizzicare dolcemente quelle corde e a perdersi nel pentagramma della sua vita.
Dopo alcuni minuti aprii gli occhi e vide il viso di qualcuno appoggiato al vetro della porta: Edgardo era là, in piedi, gli occhi rossi, aveva appena pianto….le gote inumidite…
Irma appoggiò delicatamente l’arpa e velocemente raggiunse la porta, girò nuovamente la chiave nella toppa e l’aprì.
- Signora Irma…io…… vorrei….-
- Certo caro, certo….venga avanti e prenda posto dove desidera: è arrivato il tempo -
Non fece domande: aprendo una porta, aveva imparato, è sempre meglio aspettare che entrino le risposte.

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