Il bussare insistente alla vecchia porta di noce scosse Edgardo dai suoi pensieri. Faticosamente si appoggiò al tavolo e si alzò dalla sedia vicino allo scrittoio dove era appoggiato il computer. Urlando Arrivo! si avviò stancamente all'ingresso della sua camera, appoggiò la mano sulla maniglia e aprì.
Non si aspettava una visita e quando si trovò davanti quella vecchietta magra e grinzosa che pranzava sempre al tavolo affianco al suo alzò gli occhi al cielo, ma riuscì a dissimulare un garbato sorriso. La donnina, talmente piccola che gli arrivava al petto, lo guardò con gli occhi ingrigiti dall’età e gli sorrise mostrando la sua nuova dentiera. Edgardo decise che l’avrebbe liquidata velocemente e sarebbe tornato al suo computer, a cercare qualche idea da buttar giù. Mormorò tra i denti un Salve signorina Irma, mentre la ruspante signora già cominciava a parlare.
- Scusi il disturbo, Edgardo. Ce l'ha mica un momento per me? - disse Irma, entrando non invitata nella camera, diretta alla consunta poltrona di similpelle marrone, posizionata vicino alla finestra, di fronte allo scrittoio. – Ma che bella vista che ha Edgardo dalla sua camera! Pensi che la mia…
- Il tempo… mi sa che dovrò dedicarglielo comunque Irma! Adesso bando alle ciance e mi dica cosa c'è e perché è qui… Ha vinto già tutte le partite di bridge oggi pomeriggio e non sa cosa fare? - rise con tono canzonatorio il vecchio.
- Oh vecchio brontolone! Chiuso qui tutto il giorno lei si perde il meglio! Dovrebbe stare di più con noi invece di passare il suo tempo con quella robaccia lì! Non lo sa che i vecchi non li ascolta più nessuno? Cosa scriverà mai di tanto interessante che la gente giovane vuole leggere? Lo sa… tsè... quelli non vogliono mica sentirle le nostre storie!
- Irma, non mi faccia perdere tempo e venga al dunque! Perchè è qui?
- E va bene! Lei è proprio un asociale… Vengo al dunque!
- Sarà meglio, perchè non le concedo più di dieci minuti!
- Già già mi ascolti! Io lo so chi è lei. Anche se lei fa finta di niente, io l’ho riconosciuta! Insomma, qui lo sanno tutti che lei è il nipote del Maresciallo Rodolfo Graziani…
- Irma, lei è una gentile vecchietta, ma io non ho tempo di stare a sentire queste favole di altri tempi…
- Edgardo! Bel riconoscimento verso suo nonno!
- Ma quale nonno! Trattasi di omonimia! Mi lasci perdere, adesso ho da fare e le sue amiche la reclamano al bridge. Prego… - e con la mano fece segno verso la porta.
- Lei è davvero poco educato! Ecco, comunque ero venuta a dirle che è appena arrivato qui in pensione un vecchiaccio che parla male di lei. Ecco tutto!
- Oh, ma chiunque ha diritto alle proprie opinioni, cara Irma… perfino lei! Ora la ringrazio e la prego di uscire…
- Se a lei non interessa… beh, io mi faccio i fatti miei! Non è mica che voglio farmi i fatti suoi e sapere di suo nonno!
- La ringrazio ancora, ma il Maresciallo Graziani non era mio nonno!
- Oh beh, capisco che lei non voglia che si sappia! Quella storia dell’iprite… che orrore! E poi il macellaio d’Europa.. certo la capisco, se lei non vuole che si sappia in giro…
- Irma, cara Irma… lei ha troppa fantasia! Ne avessi così tanta anche io non starei qui davanti a una pagina bianca…
- La capisco Edgardo… guardi io non aprirò bocca! La storia ne ha già parlato abbastanza… ma volevo solo dirle che quel vecchiaccio lì la chiama il nipote del criminale e a me non piace... ecco, lei a me piace, è un vecchietto brillante… solo che è sempre qui chiuso… se solo scendesse…
- Grazie Irma. Buon pomeriggio e mi saluti le signorine sue amiche! Ci vediamo a cena… – disse alla fine piuttosto seccato Edgardo e chiuse la porta.
Si sedette sulla poltrona. Lo sguardo iniziò a vagare sul muro di fronte a sé. Quella parete verde sembrava piuttosto piena di muffa. Forse avrebbe chiesto a suo figlio di parlare con la Direzione perché la pitturassero di bianco. Lui oramai non parlava più con nessuno e si rendeva conto che la malattia a breve lo avrebbe portato a chiudersi sempre più in se stesso, a non riconoscere più nemmeno chi amava tanto.
Si appisolò per circa una mezz’ora e quando aprì gli occhi, si alzò deciso, quasi la stanchezza e l’età non gli fossero più di peso e si recò allo scrittoio. Aprì un cassetto e ne tirò fuori una chiave, piccola e di ottone brunito. Con la mano si fece strada in uno scomparto segreto dello scrittoio, una delle poche cose che gli era stato consentito di portarsi dietro in quella triste pensione per anziani. Infilò la chiave nella serratura, l’aprì e tirò fuori alcune lettere ingiallite.
Quelle erano una parte dei suoi ricordi. Aveva paura di perdere i suoi ricordi e così se li era portati dietro in quel posto, quasi che il fatto di averli sotto mano potesse essere una garanzia perché non fossero dispersi. Soprattutto nei pomeriggi piovosi, ripescava quelle lettere dal cassetto e dalla sua mente, le sfogliava, si soffermava su qualcuna in particolare e alla fine, spesso, riversava le sue emozioni al computer.
Era solito scrivere brani sparsi, qualche poesia, qualche pensiero. Mai nulla di organico, che potesse comporsi in una raccolta. Solo brevi fraseggi, immagini descritte con dovizia di particolari, fuori da qualsiasi contesto. Prima o poi avrebbe trovato il filo per unirle. Era la sua speranza, che aveva deciso di coltivare, finché la malattia glielo avesse permesso.
Passò le lettere da una mano all’altra più volte, scorrendole una ad una, girandole per vedere il nome del mittente sul retro. Si soffermava su ciascuna, alzava gli occhi cercando di ripescare i ricordi nella sua memoria. Alcuni cominciavano lentamente a sparire e questo gli provocava moti di rabbia che lo portavano a buttare le lettere in aria, per poi raccoglierle dopo un’ora o due dal pavimento e riordinarle. Qualcuna di quelle lettere lo faceva impensierire più delle altre e su quelle scorreva il dito infastidito avanti e indietro, come volesse cancellarle. Altre le metteva da parte e se le rileggeva più volte per ore intere, il sorriso stampato sul viso, pronto a sfidare l’oblio che la sua malattia gli minacciava.
Stavolta però le scorreva veloce, ne stava cercando una in particolare ed alla fine la trovò. Era una lettera piccola, con il suo nome e l’indirizzo composto in una grafia minuta ma regolare. L’inchiostro era marrone, o forse un nero scolorito. La busta era avorio, di cartoncino spesso e ruvido. Era elegante e raffinata. Un sigillo rosso in ceralacca era posto sul retro. Si capiva che chi l’aveva scritta era una persona importante, una di quelle abituate ad avere la carta da lettera personalizzata, una persona solita a scrivere missive, che non aveva paura di usare pennino e inchiostro direttamente sulla carta pregiata.
Palpeggiò la carta vellutata sotto le sue mani, l’accostò al naso per sentirne il buon profumo di un tempo. Poi l’appoggiò sul tavolinetto affianco allo scrittoio e si alzò. Gironzolò a vuoto per la stanza, fermandosi più volte a spiare il parco ed i suoi coinquilini che passeggiavano, a gruppi o da soli, gustando la giornata di sole caldo di fine primavera. Sembrava quasi avesse paura di riaprila ancora.
Ad un tratto si voltò deciso verso la lettera, la prese tra le mani, la girò e soffermò i suoi occhi sul nome del mittente:
Maresciallo Rodolfo Graziani
Affile (Roma)
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