OGGI
Sei in piedi, sulla cresta di roccia dove vent’anni fa hai chiesto a Sara di sposarti.
Ora lei non è qui, eppure ti sembra ancora di vederla, immersa nella luce di quell’alba così ostinatamente simile a quella che si sta schiudendo davanti ai tuoi occhi in questo momento.
Memoria fotografica. Quell’immagine si staglia nella tua mente come se fosse distante solo un battito di ciglia dal tempo presente.
Tiri fuori dalla tasca un piccolo oggetto dorato. Il suo anello. Osservi l’incisione all’interno, 14 ottobre 1990. La stringi nel pugno come se volessi farla entrare a forza nella tua carne.
Ancora una volta, il sole irrompe con violenza sopra i pinnacoli vecchi milioni di anni e riempie il canyon di fiamme dorate.
Ti guardi intorno, e come allora vedi decine di persone che punteggiano i vari viewpoint che si aprono alle tue spalle. Vedi corpi che si stringono in un abbraccio, vedi mani che sollevano binocoli sulle cui lenti per un istante scivola un barbaglio accecante.
Ti inginocchi e sposti un po’ di terra con le dita, quelle dita robuste e nodose che nel corso degli anni hanno pestato per milioni di volte i tasti di macchine per scrivere e computer, mentre la tua mente inventava le storie che scrivevi soltanto per lei. Le storie che lei non leggerà più.
Respiri lentamente, mentre senti qualcosa che fa male proprio in mezzo al petto.
Vorresti che fosse un infarto, ma non lo è. E’ quel senso di vuoto che si allarga fino a riempire ogni interstizio, è il suono del silenzio a casa tua, casa vostra, che senti quando sei seduto al tavolo davanti allo schermo bianco del computer, gli occhi che scrutano oltre la finestra, verso Piazza del Cavallo.
Se provi a chiudere gli occhi, ti sembra quasi di sentire lo scatto delle chiavi nella serratura, i suoi tacchi che ticchettano sul pavimento di marmo del corridoio, il rumore della borsa che viene lasciata cadere sulla credenza barocca in fondo alla sala in un tintinnio di soprammobili. I suoi maledetti soprammobili, che ti sei sempre ostinato a far cadere passando troppo rapidamente e soprattutto troppo vicino ai mobili.
Ti sembra di vederti, che alzi lo sguardo e la fissi attraverso gli occhiali lasciati scivolare fino alla punta del naso. Lei sorride e ti dice che ha avuto un’altra giornata pesante, mica come qualcuno di sua conoscenza che passava tutto il tempo a scrivere!
Ti manca.
Semplicemente. Ti manca.
Ricordi perfettamente, con dettaglio fotografico, ogni momento degli ultimi vent’anni, e questo ti fa stare solamente peggio.
Il party per il primo libro, la sua espressione di dolore alla scoperta di non poter avere figli, quella attenta che assumeva quando leggeva le tue pagine, o quella sua infantile tendenza a far scivolare la lingua tra le labbra mentre stava facendo un lavoro particolarmente difficile – ad esempio attaccarti un bottone della camicia. E ricordi i tentativi di dissimulare lo sfinimento dopo ogni chemio, o il sorriso che ha cercato di mantenere fino all’ultimo quella mattina che se n’è andata.
Appoggi la fronte contro le ginocchia e stringi gli occhi fino a quando il buio dietro di essi non assume una sfumatura rossa. Rossa come le assi della facciata del motel a Two Pines.
Da qualche parte, dietro di te, qualcuno sta applaudendo la nuova alba.
Sistemi l’anello al centro del minuscolo buco ricavato nel terreno e poi, metodicamente, lo ricopri.
Ti alzi in piedi e scuoti la polvere dal fondo dei jeans.
La tua ombra si proietta sulla parete di arenaria davanti a te, nera su fondo rosso.
L’ultima volta che sei stato lì le ombre erano due, e si tenevano per mano.
Inizi lentamente la discesa lungo il crinale ovest.
Sei in piedi, sulla cresta di roccia dove vent’anni fa hai chiesto a Sara di sposarti.
Ora lei non è qui, eppure ti sembra ancora di vederla, immersa nella luce di quell’alba così ostinatamente simile a quella che si sta schiudendo davanti ai tuoi occhi in questo momento.
Memoria fotografica. Quell’immagine si staglia nella tua mente come se fosse distante solo un battito di ciglia dal tempo presente.
Tiri fuori dalla tasca un piccolo oggetto dorato. Il suo anello. Osservi l’incisione all’interno, 14 ottobre 1990. La stringi nel pugno come se volessi farla entrare a forza nella tua carne.
Ancora una volta, il sole irrompe con violenza sopra i pinnacoli vecchi milioni di anni e riempie il canyon di fiamme dorate.
Ti guardi intorno, e come allora vedi decine di persone che punteggiano i vari viewpoint che si aprono alle tue spalle. Vedi corpi che si stringono in un abbraccio, vedi mani che sollevano binocoli sulle cui lenti per un istante scivola un barbaglio accecante.
Ti inginocchi e sposti un po’ di terra con le dita, quelle dita robuste e nodose che nel corso degli anni hanno pestato per milioni di volte i tasti di macchine per scrivere e computer, mentre la tua mente inventava le storie che scrivevi soltanto per lei. Le storie che lei non leggerà più.
Respiri lentamente, mentre senti qualcosa che fa male proprio in mezzo al petto.
Vorresti che fosse un infarto, ma non lo è. E’ quel senso di vuoto che si allarga fino a riempire ogni interstizio, è il suono del silenzio a casa tua, casa vostra, che senti quando sei seduto al tavolo davanti allo schermo bianco del computer, gli occhi che scrutano oltre la finestra, verso Piazza del Cavallo.
Se provi a chiudere gli occhi, ti sembra quasi di sentire lo scatto delle chiavi nella serratura, i suoi tacchi che ticchettano sul pavimento di marmo del corridoio, il rumore della borsa che viene lasciata cadere sulla credenza barocca in fondo alla sala in un tintinnio di soprammobili. I suoi maledetti soprammobili, che ti sei sempre ostinato a far cadere passando troppo rapidamente e soprattutto troppo vicino ai mobili.
Ti sembra di vederti, che alzi lo sguardo e la fissi attraverso gli occhiali lasciati scivolare fino alla punta del naso. Lei sorride e ti dice che ha avuto un’altra giornata pesante, mica come qualcuno di sua conoscenza che passava tutto il tempo a scrivere!
Ti manca.
Semplicemente. Ti manca.
Ricordi perfettamente, con dettaglio fotografico, ogni momento degli ultimi vent’anni, e questo ti fa stare solamente peggio.
Il party per il primo libro, la sua espressione di dolore alla scoperta di non poter avere figli, quella attenta che assumeva quando leggeva le tue pagine, o quella sua infantile tendenza a far scivolare la lingua tra le labbra mentre stava facendo un lavoro particolarmente difficile – ad esempio attaccarti un bottone della camicia. E ricordi i tentativi di dissimulare lo sfinimento dopo ogni chemio, o il sorriso che ha cercato di mantenere fino all’ultimo quella mattina che se n’è andata.
Appoggi la fronte contro le ginocchia e stringi gli occhi fino a quando il buio dietro di essi non assume una sfumatura rossa. Rossa come le assi della facciata del motel a Two Pines.
Da qualche parte, dietro di te, qualcuno sta applaudendo la nuova alba.
Sistemi l’anello al centro del minuscolo buco ricavato nel terreno e poi, metodicamente, lo ricopri.
Ti alzi in piedi e scuoti la polvere dal fondo dei jeans.
La tua ombra si proietta sulla parete di arenaria davanti a te, nera su fondo rosso.
L’ultima volta che sei stato lì le ombre erano due, e si tenevano per mano.
Inizi lentamente la discesa lungo il crinale ovest.
Commosso...
RispondiEliminaTristemente bello...
RispondiElimina