TRA IERI E OGGI
Stringi ancora la sua mano, che ora appare talmente fragile da potersi sbriciolare tra le tue dita da un momento all’altro. Le nocche sporgono sotto la pelle tesa, quasi trasparente, a rivelare un intrico di vene azzurrine che ancora pulsano, anche se debolmente.
Sei seduto accanto al suo letto.
La stanza è luminosa. Lei ha preferito così. L’unico suono della stanza, oltre quello del vostro respiro – lento e regolare il tuo, affannoso quello di lei – è l’ossessivo bip delle macchine che misurano il battito e la pressione.
Le accarezzi il capo, lentamente, facendo scorrere le dita dove un tempo c’erano i capelli.
Ha lo sguardo solo parzialmente lucido, ma i suoi occhi sono gli stessi di quel giorno.
Deglutisci piano.
“Che ore sono?”, ti chiede. La voce è stanca, distante.
Guardi l’orologio da polso. “Le dieci meno venti”, rispondi. “Cerca di dormire”.
Cerca di sorridere, invece. “A quest’ora non si dorme”, ribatte. “A quest’ora si parla”.
Ti porti un dito alle labbra, intimando dolcemente il silenzio. “Non devi stancarti”.
Scrolla le spalle. “Sono già stanca”.
Testarda, fino all’ultimo. Cerchi di sorridere, mentre già senti gli occhi che ti bruciano. “Okay, allora parliamo”, dici. “Di cosa?”
“Non… Non saprei”.
Non lo sai neppure tu. Non sai che cosa dire, non lo sai più da un sacco di tempo. Non sai che cosa dire alla donna che si sta spegnendo davanti ai tuoi occhi istante dopo istante, la donna che hai visto deperire e sfiorire come una pianta lasciata troppo tempo senz’acqua. Non sai come non sentirti così inutile. Non sai come accettare quello che vi sta capitando.
Signore, pensi mentre chiudi gli occhi per un istante. Perché questo? Perché a noi, perché a lei? Fa’ che stia sognando, fa’ che sia tutto un brutto incubo e che svegliandomi io non sia qui, non sia più in questa stanza che sa di disinfettante e di morte, fa’ che quando riaprirò gli occhi lei abbia ancora capelli da baciare e che non sia in questo dannato letto…
“A cosa pensi?”
Ti riscuoti. “A… A niente. Sono solo un po’ stanco”.
“Vai a casa. Tanto qui non puoi fare niente”
“Più tardi”, menti. “Più tardi vado. A prendere qualcosa… Una camicia da notte, insomma… Qualcosa”
Scuote piano la testa. “No. Non ce n’è bisogno”.
“Sì che ce n’è bisogno”, ribatti ostinato. “La vedo a prendere tra un po’. Ma adesso cerca di riposare, Sara”.
“Fra un po’ lo farò”.
Fai finta di non cogliere le implicazioni di quello che ha detto.
“Ti ricordi… Bryce?”
Annuisci.
“Mi piacerebbe rivedere ancora l’alba in quel posto”
“Ci andremo l’estate prossima. Che ne dici, eh? Insomma, io posso lavorare da qualsiasi angolo del mondo e tu… Tu anche, no?”. Fai una pausa. “Agosto. Agosto è il mese ideale”.
“Agosto, sì”, ripete lei, come parlando a se stessa. “L’estate prossima”.
“Certo. L’estate prossima”.
“Io non potrò venirci”.
Le stringi appena le dita. Senti che non riesci più a trattenerti. Cominci a piangere, soffocando i singhiozzi senza troppi risultati.
“Ssssh”, fa lei. Solleva il braccio trascinandosi dietro il tubo trasparente della flebo, per cercare di accarezzarti il viso ispido di barba. “Non piangere”.
La stanza è scomparsa, tutto si è sciolto in un panorama liquido e offuscato dal sapore salato. Nel corridoio, appena fuori dalla porta, senti passare veloce una barella, subito seguita da passi concitati.
“Io… Io non ce la faccio, Sara. Non ce la faccio.”
“Non devi fare niente”, risponde. “Non dipende da noi. E’ successo e basta”.
“Ma perché a noi, Cristo santo?”
Sorride, rivelando i denti opachi. “Non sono così speciale. C’è un intero reparto di gente come me, qui all’ospedale”.
Le sue dita contro il tuo volto sembrano di plastica. Le baci il palmo della mano.
“Ti amo”, le dici.
Stringi ancora la sua mano, che ora appare talmente fragile da potersi sbriciolare tra le tue dita da un momento all’altro. Le nocche sporgono sotto la pelle tesa, quasi trasparente, a rivelare un intrico di vene azzurrine che ancora pulsano, anche se debolmente.
Sei seduto accanto al suo letto.
La stanza è luminosa. Lei ha preferito così. L’unico suono della stanza, oltre quello del vostro respiro – lento e regolare il tuo, affannoso quello di lei – è l’ossessivo bip delle macchine che misurano il battito e la pressione.
Le accarezzi il capo, lentamente, facendo scorrere le dita dove un tempo c’erano i capelli.
Ha lo sguardo solo parzialmente lucido, ma i suoi occhi sono gli stessi di quel giorno.
Deglutisci piano.
“Che ore sono?”, ti chiede. La voce è stanca, distante.
Guardi l’orologio da polso. “Le dieci meno venti”, rispondi. “Cerca di dormire”.
Cerca di sorridere, invece. “A quest’ora non si dorme”, ribatte. “A quest’ora si parla”.
Ti porti un dito alle labbra, intimando dolcemente il silenzio. “Non devi stancarti”.
Scrolla le spalle. “Sono già stanca”.
Testarda, fino all’ultimo. Cerchi di sorridere, mentre già senti gli occhi che ti bruciano. “Okay, allora parliamo”, dici. “Di cosa?”
“Non… Non saprei”.
Non lo sai neppure tu. Non sai che cosa dire, non lo sai più da un sacco di tempo. Non sai che cosa dire alla donna che si sta spegnendo davanti ai tuoi occhi istante dopo istante, la donna che hai visto deperire e sfiorire come una pianta lasciata troppo tempo senz’acqua. Non sai come non sentirti così inutile. Non sai come accettare quello che vi sta capitando.
Signore, pensi mentre chiudi gli occhi per un istante. Perché questo? Perché a noi, perché a lei? Fa’ che stia sognando, fa’ che sia tutto un brutto incubo e che svegliandomi io non sia qui, non sia più in questa stanza che sa di disinfettante e di morte, fa’ che quando riaprirò gli occhi lei abbia ancora capelli da baciare e che non sia in questo dannato letto…
“A cosa pensi?”
Ti riscuoti. “A… A niente. Sono solo un po’ stanco”.
“Vai a casa. Tanto qui non puoi fare niente”
“Più tardi”, menti. “Più tardi vado. A prendere qualcosa… Una camicia da notte, insomma… Qualcosa”
Scuote piano la testa. “No. Non ce n’è bisogno”.
“Sì che ce n’è bisogno”, ribatti ostinato. “La vedo a prendere tra un po’. Ma adesso cerca di riposare, Sara”.
“Fra un po’ lo farò”.
Fai finta di non cogliere le implicazioni di quello che ha detto.
“Ti ricordi… Bryce?”
Annuisci.
“Mi piacerebbe rivedere ancora l’alba in quel posto”
“Ci andremo l’estate prossima. Che ne dici, eh? Insomma, io posso lavorare da qualsiasi angolo del mondo e tu… Tu anche, no?”. Fai una pausa. “Agosto. Agosto è il mese ideale”.
“Agosto, sì”, ripete lei, come parlando a se stessa. “L’estate prossima”.
“Certo. L’estate prossima”.
“Io non potrò venirci”.
Le stringi appena le dita. Senti che non riesci più a trattenerti. Cominci a piangere, soffocando i singhiozzi senza troppi risultati.
“Ssssh”, fa lei. Solleva il braccio trascinandosi dietro il tubo trasparente della flebo, per cercare di accarezzarti il viso ispido di barba. “Non piangere”.
La stanza è scomparsa, tutto si è sciolto in un panorama liquido e offuscato dal sapore salato. Nel corridoio, appena fuori dalla porta, senti passare veloce una barella, subito seguita da passi concitati.
“Io… Io non ce la faccio, Sara. Non ce la faccio.”
“Non devi fare niente”, risponde. “Non dipende da noi. E’ successo e basta”.
“Ma perché a noi, Cristo santo?”
Sorride, rivelando i denti opachi. “Non sono così speciale. C’è un intero reparto di gente come me, qui all’ospedale”.
Le sue dita contro il tuo volto sembrano di plastica. Le baci il palmo della mano.
“Ti amo”, le dici.
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