venerdì 1 luglio 2011

ALBA - Cap. 1

OGGI
Parcheggi la macchina sul lato ovest dell’albergo, tra un pickup Dodge e una vecchia Chevy. Il pickup un tempo doveva essere stato bianco, prima che piaghe di ruggine avessero iniziato ad intaccare la carrozzeria.
Quando spegni il motore, rimani per un istante con lo sguardo fisso sulla facciata del motel, mentre la ventola gira sempre più lentamente fino a fermarsi del tutto. Nell’ultima luce del pomeriggio, le assi bianche stanno assumendo una sfumatura rossiccia.
Scendi dalla macchina, tirandoti dietro il borsone che fino a un istante prima aveva occupato il sedile del passeggero. Non sei mai stato famoso per la tua agilità, e questa volta non ha fatto eccezione: uscendo dalla macchina hai urtato la portiera che a sua volta ha colpito la fiancata del Dodge. Pensi che il proprietario non noterà la nuova minuscola ammaccatura, in ogni caso.
Ti guardi intorno assaporando il vago senso di familiarità, mentre il motel incombe alle tue spalle. Stai fissando l’orizzonte, oltre la striscia di asfalto nero della Interstate 15, gli alberi che formano una scura macchia indistinta alla sinistra del tuo campo visivo. Ti schermi gli occhi con una mano e intuisci una forma lontana, proprio davanti a te. Un cavallo al pascolo, come le decine che hai visto negli ultimi due giorni, da quando ti sei lasciato alle spalle Las Vegas.
Ti volti, e osservi ancora una volta il motel.
La balaustra della veranda e il tetto sono verdi, e questo, unito al rosso del tramonto, lo fa apparire quasi come una enorme casa cantoniera, di quelle così comuni in Italia.
Ma non sei in Italia. Sei a Two Pines, Utah. Non è la prima volta.

Il bancone della reception sembra uscito da un qualche saloon. Un unico, enorme pezzo di legno – abete, probabilmente – che deve aver conosciuto migliori fortune, sbocconcellato qua e là di morsi di tarli. Un vecchio campanello d’ottone ad un lato del registro, uno scoiattolo impagliato dall’altra.
Nel mezzo, le spalle rivolte ad una carta dello Utah, una ragazza dai capelli castani e il mento sfuggente. Indossa una camicetta viola fuori dai jeans sbiaditi, e guarda verso di te senza troppo interesse mentre attraversi il piccolo salotto – due poltrone in finta pelle, un tavolino alto quindici centimetri, una radio che forse era già vecchia ai tempi della presidenza Roosevelt – per dirigerti al bancone.
“Buongiorno”, la saluti.
“Buongiorno, ha fatto buon viaggio?”, replica lei, in automatico, non per la prima né per la milionesima volta.
“Abbastanza, grazie. Qualche scroscio di pioggia lungo la strada da Saint George, ma nulla di particolare”. Lasci cadere il borsone da viaggio e armeggi con il bottone del taschino della camicia. “Dovrebbe… uh… dovrebbe esserci una prenotazione. Due notti”. Le dici il nome, e lei controlla sul registro.
Annuisce.
“Posso avere il suo passaporto e una carta di credito?”, chiede tendendoti la mano.
“Ma certo, Miss… Rachael, vero?”. Le porgi il libretto color porpora, mentre cerchi di trattenere la soddisfazione che ti ha provocato la sua espressione di sorpresa.
Rachael ritrae la mano come se improvvisamente il tuo passaporto si fosse trasformato in una creatura letale – uno scorpione, o un serpente a sonagli.
“Come fa a sapere il mio nome?”, ti chiede. C’è una sottile sfumatura di tensione nel tono della sua voce.
Sorridi.
“Sono già stato qui, anni fa”, dici. “Lei era alta più o meno così”, aggiungi facendo un gesto con la mano ad un’altezza imprecisata tra il metro e il metro e venti. “Il volto non è cambiato da allora, ma si è fatta grande”.
Rachael ti sta ancora studiando, soppesando con cura ogni tua parola. Il tuo accento straniero, il passaporto italiano, il fatto che tu stia accennando ad un episodio che lei chiaramente non ricorda… Sei un tipo sospetto. Non ti stupiresti se chiamasse lo sceriffo da un momento all’altro. Considerando tuttavia che il posto di polizia più vicino è a quindici miglia, se fossi davvero un malintenzionato potresti avere il tempo di ucciderla e farla a pezzi prima ancora che si comincino a sentire le sirene in lontananza.
“Mi dispiace, Miss Rachael”, ti scusi. “Non volevo metterla in imbarazzo. E’ stata… E’ stata una cosa molto stupida da parte mia. E’ chiaro che non poteva ricordarsi di me, avrà avuto… Cinque, sei anni al massimo”.
“Lei deve avere una memoria eccezionale, signore”, conclude lei. Non ti sfugge un’ombra di sospetto nel suo sguardo. Prende il passaporto e ne ricopia diligentemente il numero sul registro. “Stiamo parlando di quasi…”
“Vent’anni fa, mese più, mese meno”, completi. “Si chiama memoria eidetica, o fotografica. Per alcuni, è solo essere fisionomisti. In realtà è più complesso ma… Diciamo che non dimentico mai una faccia, anche a distanza di tempo. Di molto tempo”.
Ti restituisce il passaporto, insieme ad una chiave. Il portachiavi ha un’etichetta con il numero 221.
“Sua… Sua madre lavora ancora qui?”.
“Mamma è morta, cinque anni fa”, risponde. Non un filo di emozione, nella voce. Non ha preso fiato, tra “morta” e “cinque”. Un fatto, una statistica, niente altro.
“Mi dispiace”.
“Già. Anche a me”.
Un attimo di silenzio, scandito solo dalla pendola in salotto. Ti passi una mano sul volto ispido di barba di tre giorni e raccogli il borsone.
“Se è già stato qui, sa che la piscina è in quell’edificio basso dall’altra parte della strada, e che il ristorante qui di fianco è aperto fino alle nove e mezza di sera”, aggiunge Rachael.
“Okay. La ringrazio”.
“Le auguro una buona permanenza a Two Pines”, dice, mentre ti volta le spalle e scompare oltre una porta dietro il bancone.


La stanza 221 si affaccia sul lato ovest. Quando entri ti sembra quasi che qualche pazzo abbia deciso di imbrattare le pareti di antiruggine. Rosso acceso. Tiri le tende e accendi la luce.
Rispetto all’ultima volta, è stata aggiunta la moquette color crema, e il televisore è di marca giapponese e ha lo schermo ultrapiatto. In leasing da Radioshack, quasi sicuramente. Il resto, a cominciare dal copriletto decorato in stile native american, e perfino il telefono ocra con tasti grigi larghi un pollice è esattamente come lo ricordavi.
Ti distendi, inalando il profumo quasi familiare di quel copriletto, mentre il tuo sguardo indugia sulla trave che taglia il soffitto, seguendone le fessure e le nodosità. Memoria eidetica, l’hai chiamata. Ti sembra di aver posato lo sguardo su quella trave per l’ultima volta neppure cinque minuti prima. Sono passati vent’anni.
Le molle scricchiolano leggermente mentre ti sistemi in posizione più comoda, le spalle alla parete, il cuscino dietro la schiena. Hai voglia di fumare una sigaretta.
Primo problema.
La stanza è rigorosamente non smokers.
Secondo problema.
Hai cercato di smettere cinque volte negli ultimi cinque anni, e ogni volta sei riuscito a strappare alla tua volontà non esattamente ferrea non più di un paio di settimane di astinenza in più rispetto a quella precedente. Adesso non tocchi una sigaretta da nove mesi – più o meno.
Un tempo geologico, per i tuoi standard.
Che stronzo a fare quel giochetto con Rachael. Che cosa ti aspettavi, che si ricordasse anche lei di te? E alla fine, che diavolo te ne frega di Rachael o di sua madre? Sono semplicemente due volti nella tua mente. Due volti, un nome.
Non è certo per loro che sei tornato qui.
Perché hai sentito il bisogno quasi insopprimibile di dimostrare la tua familiarità con quel luogo – ottenendo probabilmente solo il risultato di essere preso per un pazzo, o maniaco, o una strana combinazione di entrambe le cose?
Ti stropicci gli occhi e guardi l’ora. Sono le diciotto e trenta, local time. Hai viaggiato per parecchie ore senza incontrare anima viva – o quasi. Hai bisogno di una doccia e di riposare. Anche di farti la barba, già che ci sei. Poi mangerai qualcosa, e se non farà troppo freddo ti siederai sotto il portico e aspetterai che ti venga sonno. Se arriverà.

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