Usciti dall’aeroporto, Alessandra e Roberto presero un taxi e si recarono a Vernon Boulevard. Zio Frank li aspettava sotto il portone. Roberto scese dalla macchina e scambiò qualche parola con lui. Alessandra non se l’era sentita di assistere a quell’incontro ed era rimasta in disparte in macchina a guardarli.
Sembravano entrambi tranquilli. Dopo circa mezz’ora, entrarono in macchinaZio Frank borbottò qualcosa al tassista che né Alessandra, né Roberto riuscirono a capire. L’auto partì e nel giro di poco tempo, dopo aver attraversato un ponte, si fermò. Zio Frank insistette per pagare il taxi e fece poi strada all’interno di un edificio imponente, il cui ingresso era di forma ottagonale, con un colonnato davanti ed un passaggio simile a quello per le autoambulanze presso gli ospedali. Il luogo sembrava deserto, ma zio Frank era sicuro di sé e li portò su al primo piano, salendo per una enorme e bellissima scalinata posta al centro di una sala enorme.
Attraversarono quindi vari corridoi bui. Ciascuno si accompagnava ai suoi pensieri, senza commentare nulla di quello che si vedeva in giro: lettighe abbandonate, sedie rotte, apparecchiature medicali accostate ai muri. Poca luce filtrava dai vetri spaccati, ma zio Frank avanzava deciso e né Alessandra, né Roberto dubitavano che conoscesse il posto.
Ad un certo punto passarono dalle rovine di un palazzo ad una zona perfettamente pulita e curata. Alessandra ed il padre si scrutarono perplessi. Roberto si incaricò di parlare per entrambi:
Zio Frank si fermò, accese una sigaretta e si sedette su una sedia di plastica verde appena prima di una porta d’acciaio, a fianco della quale si notava un citofono. Una tendina che sembrava di lino nascondeva un vetro e, dietro quel vetro, Alessandra ne era sicura, si celava il loro segreto.
Frank invitò Alessandra e Roberto a sedersi, poi tirò una profonda boccata di fumo e iniziò a parlare.
- Non volete vedere Dennis? Vi ho portato qui perché volete vedere Dennis, giusto?
- Cosa ci fa qui Dennis? Mi sembra un edificio abbandonato, dove siamo? Perché questa zona è diversa dal resto del palazzo? – lo assalì Alessandra.
- Piccirilla, Dennis è qui da lungo tempo… questo era un ospedale fino a poco tempo fa… da qualche anno lo hanno chiuso. Tutto tranne questo reparto. Ma pochi lo conosco… in realtà solo chi ha qualcuno qui sa che c’è e siamo in tutto tre famiglie…
Alessandra guardò verso il vetro, incerta se la verità fosse più terribile del segreto, ma poi si decise a chiedere:
- Dennis è un medico? Lavora qui?
- No. Dennis è ricoverato qui da quando era piccolo.
- Ma ho visto la foto, Frank! – disse con supponenza Alessandra. – Quella con te e zio Michael. Mi avete detto voi che il bambino era Dennis…
- Lascialo parlare, Alessandra… - la fermò dolcemente Roberto, appoggiandole la mano sulla gamba.
Zio Frank aspirò un’altra boccata e guardò Roberto, sussurrandogli “vedo che io e te ci capiamo, in fatto di rispetto…”. Lo sguardo un po’ torvo di Roberto spense il sorriso sulla sua bocca e allora continuò:
- Dennis si ammalò all’età di tre anni circa, o forse era sempre stato malato, chi lo sa!
- Cosa aveva? – lo interruppe Alessandra
- Ahhh piccirilla, allora? Me vuò fa’ parlà o no?
- Scusa… - gli rispose imbronciata Alessandra, mentre suo padre le tirava una gomitata per imporle nuovamente il silenzio
- Dennis aveva una malattia importante… insomma, non lo so come si chiama… schizzo qualcosa…
- Schizofrenia… - borbottò tra sé e sé Roberto, alzando gli occhi al cielo.
- Sì schizzo quella-cosa-là. Lo ricoverarono qui, in questo ospedale.
- Ma so che questo non era già più da tempo un ospedale psichiatrico, Frank. – gli ribatté quasi con stizza Alessandra, fiera delle sue ricerche e dei racconti che aveva ascoltato.
- Questa è la versione ufficiale. In realtà un piccolo reparto è sempre rimasto aperto ed è questo che vedete, ancora funzionante. Lo tirò su e lo sostenne proprio Michele, con i soldi che riuscì a fare con il suo lavoro da mafioso... Sua moglie – buon’anima – iniziò a lavorarci come infermiera, quando il bambino fu ricoverato qui... Sì… così poteva seguire suo figlio da vicino… capite?
Alessandra fece un cenno con la testa.
- Dio mio… che tristezza – commentò Alessandra. – E sua madre… è morta?
- Morì negli anni Quaranta. Un tumore. Il ragazzino aveva circa quindici anni o giù di lì. Michele rimase solo, ma ha continuato a lavorare solo per quel bambino… Era stanco della mafia, diceva che voleva tornarsene da suo fratello, in paese… ma quel bambino era la sua vita. Non poteva abbandonarlo, né poteva portarselo dietro con sé… E perciò è rimasto a fare quella vita…
- Qua… quanti anni ha adesso, Dennis? – chiese Roberto.
- Circa quarant’anni. Io lo vengo a trovare ogni tanto. Mi fa tanta pena… ma oramai non mi riconosce più…
- Frank… - disse Alessandra, fermandosi quasi volesse il consenso per parlare – è per questo che ci hai scritto? La carta intestata dell’Ospedale Psichiatrico… la storia di uno zio… insomma, è per Dennis che ci hai fatto venire qui?
- Piccirilla, certo che è per lui. Mia madre, Donna Mariella… oramai ha ottant’anni. Sì, sta bene in salute… ma la vedi come è debole… quando c’è vento forte ho sempre paura che voli via – e si fermò, con un sorriso triste sulle labbra. Dopo una pausa e con la voce un po’ rotta dall’emozione riprese – Ed io… beh, io non credo di riuscire a curare Dennis come è giusto che sia... come faceva Michele, insomma… Vi ho chiamato per questo. Era giusto che sapeste di noi… di lui…
Alessandra si voltò verso il padre. Non era sicuro di come potesse reagire, lui che era sempre rimasto all’oscuro di tutto e che ora all’improvviso si rendeva conto di avere perso un fratello che non aveva mai potuto conoscere, non per sua scelta, ma per la scelta di qualcun altro. Roberto era andato leggermente avanti e si era messo di fronte alla porta di acciaio. Aveva tirato su la tendina e si era messo a guardare al di là dal vetro. Alessandra gli si avvicinò.
Un uomo era dietro quella porta, molto magro, terribilmente magro. Aveva lunghi capelli lisci e neri. Un viso bellissimo, dalla forma regolare, gli zigomi appena pronunciati, le labbra carnose. La carnagione era olivastra.
- Sembra il ritratto del nonno – disse sottovoce Alessandra
Roberto si girò e guardò Frank deciso.
- Cosa devo fare per portarmelo in Italia?
- Ci sono solo alcune carte da firmare, per confermare che è tuo nipote. Gli altri documenti sono già pronti.
- Bene, entriamo allora?
- Roberto…
- Frank, non c’è altro da dire. E’ il figlio di Michele e Michele è mio fratello. Non m’importa quello che è successo ai nostri genitori. Ci hanno rubato una parte della nostra infanzia con le loro menzogne, questo lo capisci? Avremmo potuto vivere come cugini, come fratelli ed invece il loro egoismo ed il loro fottuto senso dell’onore ci hanno privato di questo. Dennis è mio nipote ed io non posso permettere che lui resti qui da solo. Per quanto mi riguarda, la mia casa è abbastanza grande per ospitare te e Mariella, se volete tornare. Alessandra ben presto si sposerà ed io resterò come un vecchio defraudato di tutto. Siete i benvenuti, la scelta è vostra. Dennis, però… lui lo porto via.
Frank si accese un’altra sigaretta e poi spense con un soffio la fiamma ancora brillante del cerino. Prese una lettera dalla tasca e la rigirò tra le mani fino a che non finì la sigaretta. Alessandra era seduta in un angolo e guardava i due cugini. Roberto si era girato di nuovo verso Dennis e lo guardava con tenerezza.
- Che gli hanno fatto?
- Tieni, Roberto. Questa lettera è di Michele. E’ spiegato tutto qui.
Roberto l’aprì e rimase sulle prime parole. «Caro Roberto, non sai quanto io abbia desiderato rivederti in questi anni e sarei venuto a cercarti se non mi fosse capitata questa disgrazia che ora Frank ti sta raccontando…». Seguiva una fitta serie di nomi di ospedali e di malattie. Lesse velocemente, mentre la voce di Frank in sottofondo lo accompagnava
- Sai che nei reparti psichiatrici non ci vanno molto per il sottile. Dopo che sua madre morì, senza controllo quotidiano, i medici lo hanno sottoposto a tutte le torture di questo mondo, annientandogli anche quel poco cervello che gli funzionava ancora. Da allora non riconosceva se non il padre e quando Michele è morto… beh, da allora il ragazzo si è chiuso in se stesso e non parla più. Viene alimentato a forza.
- Posso… posso entrare? – chiese Roberto.
- Te la senti? – ribatté Frank
- Certo.
Frank citofonò e una infermiera robusta dai lineamenti tedeschi aprì la porta. Bonfonchiarono qualcosa in un inglese molto stretto, poi la donna fece cenno a Roberto di entrare.
Il passo divenne incerto. Le mani gli tremavano e gli occhi erano lucidi. L’emozione sembrava troppo forte per il suo cuore che gli palpitava in petto forte come se volesse scuotere fin nelle fondamenta quell’edificio.
Roberto si accostò all’uomo. Si pose di fronte a lui e lui alzò lentamente la testa. Per un periodo che Roberto non seppe calcolare i loro occhi si scambiarono miliardi di emozioni e informazioni. Alla fine, Dennis gli prese la mano e se la portò verso la guancia. Poi la lasciò, si ristese e chiuse gli occhi, quasi come volesse indicare che il suo tempo lì per la visita era finito.
Roberto aspettò ancora cinque minuti, nel caso Dennis si risvegliasse voleva che lo trovasse lì affianco. E poi aspettò ancora cinque e ancora cinque minuti. Alla fine Frank gli pose una mano sulla spalla e lo invitò ad uscire, sussurrandogli che quando si addormentava, lui dormiva per ore, a causa dei tranquillanti.
Roberto si voltò e si avviò verso la porta, mentre Frank si accostava all’infermiera per prendere gli ultimi accordi per la firma dei documenti il giorno dopo. Appoggiò la mano sull’acciaio freddo della porta e stava per spingere giù a fondo la maniglia, quando sentì una voce maschile, prima soave, poi sempre più forte ed infine con la voce rotta dalle lacrime urlò:
- Michael… papà… sei tornato finalmente, dove sei stato in tutto questo diavolo di tempo?
***
Alessandra era appena sbarcata dal traghetto di Ellis Island. Entrò nell’archivio e si diresse subito verso l’ufficio di Malakian. Bussò e una voce conosciuta chiese di entrare.
- Sono venuta a salutare
- Miss A-lesàndra! Allora, tutto risolto?
- Sì… grazie anche per aver accelerato tutti i documenti…
- E’ stato un piacere…
- Allora grazie… e a presto? Ci vediamo a Napoli?
- Sì, con spaghetti, chitarra e mandolino! Okkei?
- Okkei Davor! Devo scappare! Ho l’aereo tra due ore…
- Vieni, se hai solo cinque minuti…
Percorsero il lungo salone pieno di foto degli emigranti. Guardando i loro volti, Alessandra riusciva a percepire la loro paura, la loro sfida per rincorrere un sogno o la loro voglia di scappare da un incubo. Per molti come suo nonno, l’approdo in America era stata una fuga. Nonno Mimmo voleva fuggire dalle sue colpe, da quelle della sua famiglia, l’ America era stato il modo per riscattarsi , mettendo a tacere la propria coscienza. Fino alla fine, fino all’ultimo secondo, il suo pensiero era stato principalmente quello di dare una vita diversa ai suoi figli ed a suo nipote, lontano dalle piccole e insulse menti benpensanti del suo paese.
Alessandra non riusciva ancora, nonostante tutto, a capire chi fosse suo nonno e non aveva voluto ancora farsi un’opininione di lui e di quello che aveva fatto. Ci avrebbe pensato con calma, alternando il suo punto di vista tra quello di un uomo che sa tradire, profondamente infedele, mafioso da una parte, e quello di un padre ed un zio orgoglioso e pieno d’amore dall’altra. Quale dei due volti era quello di suo nonno? Forse un giorno lo avrebbe capito.
Malakian si fermò davanti ad un gruppo di foto, sulle quali troneggiava la scritta “Italy” e la bandiera italiana. Volti di emigranti, quasi sicuramente gente povera del Sud, che aveva riposto in quel viaggio tutte le proprie speranze di sopravvivenza. La colpì all’improvviso un luccichio, una luce che entrava impertinente a colpirle lo sguardo dalla finestra di fronte. Strizzò gli occhi più volte, perché, non ne era sicura, ma le sembrava che da una di quelle foto un uomo di circa quarant’anni le facesse un occhiolino.
Malakian interruppe quella che Alessandra classificò come una pura allucinazione dovuta alla stanchezza.
- A-lèsandra ti presento Domenico Quagliarello… ci tenevo a mostrartelo prima che tu torni a tuo paese…
Alessandra guardò l’uomo nella foto, lo stesso che prima pensava la stesse guardando. Era straordinariamente bello. Somigliava in modo stupefacente a suo padre e a quello che doveva essere lo zio Michele. Il mento era teso verso alto, quasi a voler esprimere il suo grande orgoglio e sembrava sorriderle.
- Grazie Davor… . Ti sono grata per questo e… per tutto il resto. Ora devo scappare… altrimenti perdo il battello e l’aereo.
- Certo certo, tu vai ora. Ma ti chiamo un battello privato e un taxi al molo di fronte, così sei serena...
Malakian accompagnò Alessandra al piccolo molo dietro gli archivi e diede istruzioni all’uomo sulla barca.
- Bene. Sono molto piacere di avere conosciuto te.
- Posso chiederti una cosa Davor – chiese un po’ titubante Alessandra
- Puoi chiedere a me quello che vuoi…
- Perché mi hai aiutato?
Malakian sorrise. Le offrì la mano per salire sulla barca e diede ordine di partire.
Il battello prese il largo e Alessandra rimase con il suo sguardo dubbioso su Malakian.
Erano a circa dieci metri dalla riva, quando vide Malakian sbracciarsi e lo udì urlare per attrarre la sua attenzione.
- Tu dì a mio amico Frank che prossima volta che ci vediamo io offre caffè a lui… occhei?
Bravi ragazzi.
RispondiEliminaUno dei più bei racconti fatti finora.