martedì 14 giugno 2011

Roxen - Cap. 2

Tornai da Giulia, presi la carta d’imbarco che avevo lasciato sul bancone del check-in e mi diressi verso il posto di polizia dell’aeroporto. Decisi che il mio capo avrebbe aspettato: le brutte notizie… beh, più tardi arrivano, meglio è. Del resto, non ce l’avrebbe mai fatta a mandare nel giro di due ore qualcun altro al posto mio.

Passai l’ora più sconcertante della mia vita a fare la denuncia. Non vedevo l’ora di uscire da quell’ufficio pieno di poliziotti che mi squadravano come se non avessero mai visto una bella ragazza in top e calzoncini in partenza per le Hawaii. E quanto odiai quell’assurdo ometto basso e con gli occhiali che mi faceva un mucchio di domande, digitava lettera per lettera la mia risposta, esitando sulla tastiera, pauroso di spingere fino a fondo i tasti come se fosse una roulette russa e il computer potesse scoppiare in qualunque momento. Alla fine stampò dieci pagine e me le porse con le mani sudaticce e unte, per firmarle. Ringraziai, non solo lui ma anche il cielo, e corsi via verso la stazione dei taxi.


Aspettai una buona mezz’ora di salire sulla vettura bianca, una Mercedes, credo. L’autista era un uomo giovane. Si voltò, mi squadrò e mi chiese dove volessi andare.

- Via Dessié, zona San Siro – gli risposi un po’ distratta mentre iniziavo l’impresa di cercare il Blackberry nella borsa, per chiamare il mio capo.

Il taxi partì, mentre scorrevo la rubrica cercando il nome del mio capo. “Chiama” “cellulare”…

- Stefano, non riesco a partire. Ho perso il passaporto. – lo assalii senza nemmeno dirgli buongiorno e prima che potesse parlare continuai – giuro che lo avevo nella borsa stamattina! Devono avermelo rubato. Ho appena fatto finito di fare la denuncia, ma non mi fanno partire… mi spiace

Il silenzio dall’altra parte mi innervosiva. Iniziai a pensare a tutte le cose che la perdita del mio passaporto comportava: niente aumento di stipendio, niente scatto, niente più eventi importanti, niente più cene in grossi alberghi con clienti importanti, niente più indagini interessanti… Stefano sarebbe stato molto duro: ci teneva a me, ma non me l’avrebbe fatta passare stavolta. Ero preparata a tutto, fuorchè a quello che le mie orecchie ascoltarono, non appena il silenzio morì sulla sua bocca:

- Mi spiace. Questo vuol dire che da domani cambi dipartimento. Non ci possiamo permettere tali leggerezze. Mi metti nel casino col Direttore e questo non me lo aspettavo.
 
Click. Nei miei occhi iniziarono a scorrere fiumi di lacrime, che annebbiarono la vista dell’autostrada, delle macchine che superavamo sulla destra e di quelle che ci superavano a sinistra. La centralinista della stazione dei taxi continuava a sparare nell’etere indirizzi, la radio trasmetteva musica house. Le orecchie annullarono ogni rumore. Riuscivo ad ascoltare soltanto il battito del mio cuore, tum tum tum, sempre più accelerato. Non vedevo nulla, intorno era tutto bianco, annebbiato, lo stomaco mi si portò alla gola, sentii una sensazione fortissima di freddo e di nausea ed improvvisamente vomitai.

Non ricordo più nulla, tranne che mi ritrovai sudata, con la testa riversa all’indietro, ferma ad una stazione di servizio, stesa sull’asfalto, all’ombra. Provai a rialzarmi e vidi il taxi affianco a me. Il taxista, visibilmente alterato, stava ripulendo la macchina. Si accorse che mi ero tirata su:
- Le costerà un po’… ma come sta?
- Be…bene… mi spiace, non me ne sono proprio resa conto…
- Lo so. E’ svenuta. Abbiamo chiamato un’ambulanza. Stia giù per favore…
- No no… mi riporti a casa, per favore. Sto meglio – e cercai di tirarmi su, ma la testa era troppo pesante da sollevare di nuovo, sentii ancora nausea, ancora freddo e di nuovo lo stomaco in gola.

Quando mi risvegliai vidi una serie di macchinari intorno a me. Avevo un respiratore attaccato, ero bloccata su una barella. Istintivamente cercai di alzarmi, ma l’uomo alle mie spalle mi bloccò. Potevo sentire il suo profumo, forte, maschile. Le sue mani erano appoggiate sulle mie spalle e mi tenevano. Era una stretta forte e sicura, forse era quello di cui avevo bisogno in quel momento. Mi tornò alla mente Stefano, ma preferii rivolgere altrove i miei pensieri. Balbettai “la valigia…” e l’uomo alle mie spalle mi tranquillizzò “E’ qui, stia giù e stia tranquilla”. Chiusi gli occhi per un po’, mentre l’ambulanza andava sull’autostrada a sirene spiegate. Mi chiedevo se ero grave, se stavo morendo o cosa? E ringraziai il cielo di non essere riuscita a partire. Se fossi stata male in aereo, forse non avrebbero potuto fare nulla… ma forse era successo tutto perché non ero riuscita a partire…

Quando aprii gli occhi stentai a credere a ciò che vedevo. L’uomo era passato al mio fianco. Teneva una mano sul mio collo, pensavo stesse sentendo le mie pulsazioni o qualcosa del genere, in realtà compresi troppo tardi che stringeva, stringeva troppo forte. La lacrimazione iniziò un po’ intesa e favorì la mia vista. Spalancai gli occhi, non so se perché oramai iniziava a mancarmi il respiro o se perché davanti a me c’era un uomo pallido, di un pallore allarmante, con i capelli neri ed un paio di occhiali da sole molto scuri.
















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