Avevo visto centinaia di film. Il cinema è la mia passione. Mi piace constatare come il regista abbia voluto cercare una determinata immagine, un’inquadratura, un particolare per esprimere un concetto, un colore, un’emozione. Ero specializzata nel “linguaggio non parlato” dei film, se si può dire.
Durante la mia carriera di appassionata incallita di film smielati, di fisici statuari che salvano il mondo ancora una volta, di bellezze che vengono puntualmente smembrate dopo la fatidica frase:-Vado a vedere cosa sta succedendo-, avevo un vasto repertorio di sequenze cinematografiche che annunciavano allo spettatore che il nostro eroe era ormai prossimo al trapasso. Mai mi sarei immaginata che, a dispetto del mio più profondo scetticismo in materia, effettivamente, quando si pensa di stare per morire, si vede una forte luce bianca e la vita scorre velocemente davanti agli occhi.
Questo vedevo mentre il cattivo di questa messinscena che era la mia vita premeva sempre più a fondo la mano sulla mia gola, impedendo alla tanto agognata aria di poter riempire i miei polmoni. Stemmo fermi, io e lui, per un periodo che sembrò interminabile. Io, senza la forza di lottare, sfiancata dalle esperienze che avevo appena subito; lui, inamovibile, con uno sguardo che trasudava interesse, come quello di un bambino che per la prima volta gioca con una lente d’ingrandimento in un prato in un giorno d’estate. Non so perché destassi così tanta curiosità a quell’uomo, ma a quanto pare io ero una formica per lui. E lui aveva la lente d’ingrandimento in pugno.
Improvvisamente l’ambulanza si fermò e la presa si allentò di colpo. L’aria entrò nei polmoni, facendomi tossire. Le porte posteriori del mezzo di soccorso si aprirono, e la luce che vidi fu abbagliante. In controluce, una figura prese la sbarra della barella su cui ero e trascinò il lettino con le ruote fuori dal veicolo. Sentii parole confuse come “saturazione” o “sistolica”, senza comprenderne il significato, forse per il mio scarso interesse nella biologia, forse a causa del fatto che ero ancora sotto shock per il mio mancato passaggio dalla vita alla morte. Fatto sta che il mio decesso non era avvenuto, e che ora ero in una struttura in cui quello strano tipo avrebbe dovuto faticare di più per potermi uccidere. Mentre questi pensieri mi ronzavano in testa, sentii improvvisamente un gran sonno e le palpebre mi si chiusero quasi senza volerlo.
Nel mio buio senza sogni, mi parve di rimanere comunque con una parte di cervello attiva, conscia di ciò che stava succedendo intorno a me: dottori, infermieri e chirurghi andavano e venivano, arrivavano, mi cambiavano una flebo, mi prelevavano qualcosa, e poi via di nuovo. Tutto questo, però, non mi riguardava: io ero addormentata e ciò che potevo percepire era sfocato come il paesaggio visto da una finestra appannata.
Mi svegliai all’improvviso, dopo un numero imprecisato di ore che avevo passato sotto sedativi. La stanza in cui ero era la classica stanza d’ospedale, con un comodino, una finestra ed una sedia. Il tutto contornato da un rilassantissimo ma deprimentissimo colore beige. Se la mia vita è una film, lo sceneggiatore in questa parte non era per niente ispirato. Un clichè dopo l’altro: vaso di fiori freschi, bigliettino anonimo, porta socchiusa da cui filtrano pochi rumori ospedalieri.
Dopo essermi ripresa, decisi di indagare su ciò che era successo. Iniziai a considerare la catena di eventi che mi aveva portato sin lì: dovevo prendere un aereo che avevo perso, quindi ero entrata in un taxi. Lì ho ricevuto la chiamata più brutta della mia vita, che mi annunciava il trasferimento. A causa di ciò, sono stata male e il tassista ha chiamato un’ambulanza. Sull’ambulanza ho ritrovato un uomo che ha tentato di uccidermi, dopo avermi pedinato in aeroporto.
Riassumendo: una giornata decisamente no.
Sentii le guance umide e mi accorsi che stavo piangendo: una reazione del tutto normale, considerando ciò che avevo passato. Non riuscivo ancora a capacitarmi che fosse successo davvero tutto, che la porta si aprì. Due infermiere entrarono nella stanza e, vedendomi sveglia, fecero un cenno ad una persona che, evidentemente, era nel corridoio.
Le due signore mi presero temperatura e pressione, oltre ad aver controllato lo stato della flebo ed aver pronunciato le classiche frasi da ospedale: -Come sta?- -Sente dolori?- -Qual è l’ultima cosa che ricorda?-… insomma, interessate per professione.
Riuscii solo a balbettare qualcosa e a far intendere che volevo bere. Mi porsero un bicchiere colmo d’acqua, con all’interno una cannuccia. Questo piccolo particolare lo ricordo poiché, senza di quella, avrei semplicemente rovesciato tutto il liquido a causa dell’insensibilità della mia bocca.
Una delle due infermiere uscì, l’altra si fermò a darmi qualche indicazione: -Lei sta bene, ora. È consigliabile per lei prendersi una pausa, per smaltire un po’ lo stress accumulato che ha scatenato la crisi. Inoltre non si sforzi troppo a parlare, gli effetti dei sedativi impiegano un po’ a svanire. Ora le faccio entrare il dottore, così potrà discutere con lui dei dettagli.- Detto ciò, uscì dalla porta.
Qualche secondo dopo, entrò il dottore con una cartella in mano. A vederlo, pensai che ciò che supponevo dello sceneggiatore della mia vita era dannatamente vero. Non solo era svogliato, ma cadeva facilmente nel banale.
-Come ha detto l’infermiera, non si sforzi a parlare, in quanto non ci riuscirebbe. Inoltre ho già tagliato i fili che collegano il pulsante che ha a disposizione per le emergenze, quindi siamo solo io e lei.-
L’uomo pallido di sedette sulla sedia che era posta di fronte al mio letto, appoggiò la cartella sulla gambe e mi fissò, a braccia incrociate.
-Dove ha messo quel numero di cellulare?-
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