venerdì 24 giugno 2011

Il Segreto dell'Ottagono - cap. 2

Aveva trascorso cinque ore nell’atrio dell’edificio principale di Ellis Island prima che il funzionario addetto alla conservazione dei registri storici le concedesse un po’ del suo tempo. Poteva stimare con un’approssimazione di una ventina il numero di piastrelle color mattone del pavimento. Aveva indugiato osservando le foto dei volti prematuramente invecchiati degli immigrati, assurdamente convinta di poter riconoscere qualche tratto, un viso, uno sguardo tra le decine di migliaia che la fissavano dalle pareti con un’espressione mista di orgoglio e di sgomento. Nel frattempo, aveva dato fondo a quasi tutto l’inglese che conosceva, a buona parte delle sue energie e anche a quel po’ di credito che i vari dipendenti dell’amministrazione le avevano concesso. Alessandra sospettava che il colorito verdognolo che la sua carnagione aveva assunto per effetto della traversata in traghetto, i capelli appiccicati sul viso e i vestiti bagnati avessero contribuito in misura non secondaria a conferirle l’aspetto di una pazza – una pazza non esattamente fluent nella lingua locale. Erano abituati a quel genere di richieste, era stato anche istituito un servizio federale, le aveva spiegato un impiegato nel tono di chi è abituato a ripetere cerimoniosamente le stesse frasi a gente probabilmente un po’ stupida.
Alessandra aveva insistito, incurante dei discreti cenni di diniego che l’impiegato – Taylor, recitava una targhetta di metallo appuntata al bavero della giacca marrone – opponeva ad ogni suo tentativo di convincerlo che era davvero importante che lei riuscisse ad ottenere le informazioni per le quali era venuta. Mister Taylor, tra un colpo di tosse imbarazzato e uno sguardo allenato a mostrare finta compassione, le stava spiegando che poteva prendere appuntamento con l’ufficio di Mister Malakian, il responsabile della Sezione Archivio di Ellis Island, ma che a quanto ne sapeva tutti i turni di consultazione erano occupati fino all’inizio del mese successivo.
“Si rende conto di quante persone che vengono qui tutti i giorni abbiano qualcuno da cercare, Miss?”, aveva alla fine detto Taylor, allargando le braccia.
“Lo so, ma io non rimarrò qui in America fino all’inizio del mese prossimo”, protestò Alessandra. “Io mi fermo una settimana solamente”.
Taylor distese le braccia lungo il corpo. La sua finta aria di cortesia stava lasciando il posto ad una tipica sensibilità da burocrate ottuso. “Non so come aiutarla, mi dispiace”.
“Per favore, la prego”, implorò Alessandra. “Non può mettermi al posto di qualcuno che è in… Come si dice? In lista, ecco, per domani?”
Taylor scosse la testa. Alessandra sospettò che da lì a poco Mister Taylor avrebbe manifestato una terza espressione, e che probabilmente non sarebbe stata piacevole. “Non sarebbe giusto nei confronti di coloro che hanno pianificato la visita con maggiore… come dire? Lungimiranza”.
Ma tu vedi ‘sto scostumato, pensò Alessandra. Aveva pronunciato lungimiranza molto lentamente, più lentamente delle altre parole, per essere certo che Alessandra, che nel frattempo aveva cominciato ad avvampare perdendo un po’ dell’incarnato color muffa, comprendesse esattamente a cosa si stava riferendo. La solita italiana disorganizzata e casinista che pensa di aggirare le regole buttandola sulla pietà.
Sentì la sua lingua pronta a saettare un’invettiva nei confronti dell’impiegato quando un ometto pingue e dal volto incorniciato da una barba ricciuta e nero bluastra si materializzò silenziosamente tra di loro, osservandoli dal basso con un’aria tra il divertito ed il curioso.
Mister Taylor lo salutò ossequiosamente chiamandolo Mister Malakian, e quando questi gli domandò quale fosse la ragione dell’alterco con Alessandra, Taylor fornì una versione particolarmente vivida dell’insistenza di Alessandra nel richiedere informazioni. Malakian scosse la testa e con uno sbuffo dalle narici pelose lo allontanò con un educato “Me ne occupo io, Taylor”.
Taylor e Alessandra fissarono stupiti l’ometto panciuto nel suo abito grigio. Malakian fece anche un cenno sventolando la mano all’indirizzo di Taylor, e Alessandra non poté trattenere un singhiozzante accenno di risata.
“Ora, Miss…?”
“Quagliarello. Alessandra Quagliarello”.
“Malakian. Davor Malakian”, si presentò con un piccolo inchino l’ometto. “Come possiamo aiutarla?”
“Sto cercando qualcuno… Cioè, la traccia di qualcuno…”
Malakian annuì. “Non è una richiesta particolarmente originale, da queste parti, come potrà immaginare. Ha un nome, qualche dettaglio?”
“Domenico Quagliarello. Arrivato il 17 aprile 1907, sulla Regia Motonave Città di Napoli”, disse meccanicamente Alessandra. “Mio nonno”.
“Napoli. Wonderful place”, disse Malakian. Le disse di seguirlo nella sala dove gli archivi cartacei erano stati microfilmati. “Non sarebbe regolare, ma faremo un’eccezione. Come avrà notato dal mio nome, anch’io sono di origini… esotiche. Armeno, terza generazione. Mi stanno ancora a cuore queste cose… Taylor… E’ wasp, non ha il cuore di un immigrato”.
Alessandra annuì, anche se in quel momento riusciva a collocare molto vagamente l’Armenia sulla cartina geografica. Da qualche parte a Est, in Unione Sovietica, pensò. O Turchia? La Turchia c’entrava sicuramente qualcosa, e si ripromise che un giorno l’avrebbe appurato.
Nella sala microfilm, il buio era spezzato solo dalla luce di una serpentina di tubi al neon che scorrevano sul soffitto proprio sopra il grande tavolo da consultazione. Malakian prese posto e cominciò a ruotare una serie di manopole mentre le immagini di pagine e pagine di archivi scorrevano ad una velocità troppo elevata perché Alessandra potesse cogliere qualsiasi dettaglio a parte la grafia ordinata ed elegante dei compilatori.
“1907… Febbraio, Marzo… Aprile. 17, sì? Sì”, concluse senza aspettare la replica di Alessandra. “Città di Napoli, ecco! Wonderful”. Malakian iniziò a tormentare un’altra manopola e le diapositive iniziarono a scorrere verso l’alto, questa volta. “…O, P… Q… Is that Q, come in coda?”. Alessandra annuì, stupita dalla rapidità con cui Malakian aveva reso il suo obiettivo un po’ più vicino. Avvicinò il volto al tavolo sul quale la riproduzione della pagina del registro veniva proiettata. Prima che riuscisse a mettere a fuoco le piccole lettere fitte e inclinate, notò che Malakian scuoteva la testa calva e appena ricoperta da un velo di sudore.
“Aha!”, esclamò Malakian con un verso simile a un colpo di tosse. Alessandra si avvicinò ancora. Poteva sentire un lieve odore acido e muschiato provenire dal piccolo uomo dall’abito elegante. Un sorriso colpevole le attraversò per un istante il viso.
“Quagliarello, Dominico. Un errore comune. Born 1864. E’ lui?”
Alessandra annuì. Il sorriso stava comparendo nuovamente sul suo viso.
“Michele Quagliarello”, proseguì Malakian. “Born 1899. Suo… Padre?”
“Zio”, lo corresse Alessandra. “Mio padre è Roberto”.
Malakian puntò il dito sulla diapositiva. “Roberto, nato nel 1905. Infatti, e poi…”
“Rosaria Castorino. Mia nonna”. Si aspettava che Malakian cominciasse di nuovo a tormentare le manopole per andare alla lettera C, ma si sbagliava.
Malakian la fissò per un attimo, mentre l’espressione di trionfo che aveva disegnato in viso scompariva per lasciare il posto ad una di stupore. “Franco Quagliarello, nato nel 1905…”, disse a mezza voce.
Alessandra lo fissò per un istante senza capire. Per almeno un minuto i due si scrutarono senza cambiare minimamente espressione. “Franco?”, domandò lei. “Un… omo… Stesso cognome”.
Malakian si strinse nelle spalle. Estrasse un fazzoletto dalla tasca dell’abito e se lo passò sulla fronte come se stesse lustrando una scarpa. “Possibile”, concesse, “ma poco probabile: vede il numero qui di fianco? Indica il numero progressivo di registrazione nei record di Ellis Island. Domenico, 9432. Michele, 9434. Roberto, 9435. Franco, 9436”.
“Manca il 33”, ribatté Alessandra. Sapeva la risposta prima che Malakian tornasse a girare le sue manopole.
“Castorino, Rosaria. 9433”. La guardò soddisfatto. “I registri originali venivano ricopiati su questi. Solo questi venivano archiviati. Perciò il criterio è sia alfabetico che progressivo per ordine di registrazione. Prima i genitori, poi i figli, di norma. Quindi Franco sembrerebbe essere uno dei figli di Domenico. O un nipote, comunque sono arrivati insieme. E’ improbabile che un bambino di due anni viaggiasse da solo, non le pare?”
Alessandra annuì. E mo’ chi è ‘sto Franco? La lettera che suo padre le aveva affidato conteneva i dati della motonave che aveva portato la sua famiglia in America, una vecchia fotografia di Domenico e la delirante missiva di Dennis Quagliarello, ma in nessun punto si menzionava questo Franco. Né tantomeno suo padre le aveva mai parlato di un altro zio. L’unico “zio d’America”, come ironicamente lo chiamavano quando a casa si toccava l’argomento, era Michael – Michele, anzi.
Le girava la testa. La lunga attesa, lo stomaco vuoto e ancora provato dal mal di mare e la sensazione di freddo che i vestiti zuppi le avevano lasciato stavano cominciando ad avere ragione di lei. E la scoperta dell’esistenza di un altro fratello Quagliarello avrebbe fatto il resto.
Afferrò una sedia di formica mentre puntini neri cominciavano ad occupare numerosi il suo campo visivo. Riuscì a sedersi prima di veder sparire il volto perplesso del signor Malakian dietro un velo nero come la sua barba.

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