venerdì 1 aprile 2011

Le bianche nuvole di Kabul - Cap. 6


Ero sprofondata nel divano, con una ciotola di patatine alla mia destra ed il telecomando nella sinistra. Dovevo essermi addormentata, da non so quanto tempo. Era forse l’una di notte o giù di lì. La schiena mi doleva come se vi avesse camminato sopra un esercito di militari con gli scarponi chiodati. Mi tirai su prima con le spalle facendo uno sforzo enorme per non urlare, mentre una spada si infilava tra le mie vertebre per appoggiare la sua punta proprio nella zona lombare. Non ero nelle condizioni migliori per partire, ma del resto avevo deciso e quel maledetto mal di schiena non mi avrebbe fatto cambiare idea: l’indomani sarei partita per il Perù.

A volte il destino combina strani giochi. Ero lì a pensare a Pietro ed al Perù, quando mi accorsi che le immagini che scorrevano in tv erano proprio quelle di Pietro che parlava del suo progetto, volto a rimettere in sesto il famoso Ospedale di San Andrés, a Lima, iniziando dal reparto di chirurgia.

Le immagini scorrevano lente. Contro il cielo azzurro si stagliava l’immagine della costruzione del millecinquecento, il patio principale con la campana, la piccola chiesa, il salone che aveva ospitato malati, folli ed orfani. Quante volte avevo ascoltato i suoi racconti tra i suoi baci e le sue carezze … Alzai d’istinto il volume, ma le immagini cambiarono e mi riproposero quel viso così amato, i suoi capelli rossi arruffati, i suoi occhi scuri e profondi, le sue mani così preziose per le vite che riusciva a salvare. Le stesse mani che sul mio corpo avevano un effetto voluttuoso e che si ricomponevano sul mio viso, ogni volta che avevamo finito di fare l’amore, per darmi il lunghissimo “bacio di ringraziamento”, come lo chiamava lui.

Lo stavano intervistando e lui raccontava che si trattava di un’idea che aveva avuto quando un’amica gli aveva parlato della situazione disastrosa degli ospedali in Perù e della presenza di quest’ospedale così antico ma così disastrato, al punto che era stato abbandonato e dichiarato agibile. Raccontava che era stanco di vedere morire i bambini, ma non se la sentiva di abbandonare Emergency per una vita normale. Così aveva perorato questa causa, finché era diventata un progetto. Aveva lavorato a lungo e di persona con le autorità peruviane, perché acconsentissero al recupero della struttura.

Finalmente, dopo un anno e mezzo di lavori, i locali erano pronti ed ora sarebbe partito il primo carico con le attrezzature. Lui sarebbe andato lì con un ristretto gruppo di medici per approntare il reparto di chirurgia e nel giro di qualche mese sarebbe stato pronto ad ospitare i primi malati. Non si sarebbe fermato lì. Voleva affiancare una scuola per formare il personale sanitario locale e coordinare le attività per aprire anche altri reparti.

La mia mente andò velocemente a quando avevo conosciuto Pietro ed ai momenti passati con lui. Adoravo il modo in cui lui parlava dei suoi progetti, quelli che aveva seguito, quelli in cui era coinvolto e quelli che aveva in mente. Si infervorava come un bambino davanti ad un giocattolo nuovo, come un ragazzino di fronte alla prima ragazza che vuole davvero baciare. Gli occhi gli brillavano, agitava le mani ed il corpo mentre parlava, i suoi capelli gli si drizzavano buffamente sulla testa mentre continuava a girarmi intorno. Quando mi faceva venire la nausea gli dicevo: “Pietro, siediti … calmati … non devi mica partire domani!” … Ed alla fine ce l’aveva fatta! Mi aveva convinto a partire con lui.

Non ci credevo ancora. Per crederci dovetti alzarmi dal divano e spiare il corridoio le mie due valigie e lo zaino zeppo di medicine. Mi fermai davanti allo specchio e mi guardai dicendo: “Tu, Elena De André, chirurgo con specializzazione cardio-vascolare, che hai passato dieci anni della tua vita ad impiantare pace-maker in sale super-tecnologiche dell’Ospedale Niguarda di Milano, partirai domani per il Perù, abbandonando tutto ciò che hai di più caro, per un’avventura che fino ad un anno fa non avresti mai pensato di intraprendere. Sei sicura? Perché lo fai?”

Gli occhi squadravano la figura nello specchio. Trentotto anni, capelli lisci e lunghi, di color castano naturale e qualche riflesso biondo che sarebbe sparito tra qualche settimana. Occhi verdi, ciglia lunghe e folte, sopracciglia regolari, labbra carnose, un po’ imperfette per quella piega all’insù che mi facevano sembrare sempre sorridente, anche quando ero incredibilmente arrabbiata, al punto che mai nessuno mi prendeva sul serio. Magrina, forse troppo, ma la vita da single mi aveva sempre costretto a lunghe maratone in ospedale, pasti frugali e veloci, e tanto movimento su e giù per i reparti. Pensai che tutto sommato per un po’ non avrei dovuto preoccuparmi, visto che mia mamma non mi sarebbe stata dietro a urlarmi che sono anoressica.

Spensi le luci e me ne andai a letto. Mi addormentai credo di colpo, perché la prima cosa che ricordo appena successiva all’appoggiare la mia testa sul fresco cuscino di lino fu un trillo del cellulare, insistente, angosciante, perforante. Mi alzai ciondolando dal letto, con gli occhi ancora chiusi tastai il comò e tentai di rispondere schiacciando il tasto che immaginavo riportare una cornetta verde. Rimasi sorpresa per il fatto che ci riuscii al primo colpo e sorrisi al pensiero che fosse un piccolo segnale di buon augurio.

- Pronto? – sentii la mia voce gutturale
- Ciao Elena. Sei pronta?
- Pietro?
- E chi vuoi che sia alle quattro di mattina? Sto uscendo. Il taxi mi sta aspettando. Mi raccomando, scendi tra un quarto d’ora, okay? Non farci aspettare …
- Sì … - mugugnai
- Ehi?
- Sì, sì tra un quarto d’ora ho capito … ?
- Ti amo …
- Anche io …

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