giovedì 10 marzo 2011

Corrispondenze - Epilogo

Alex rimase qualche secondo immobile, con lo sguardo verso la porta dello scompartimento, cercando di capire cosa fosse successo. Era colpa sua? Era colpa di Elen? Era colpa di Emma? Mille domande gli affioravano alla testa, e nessuna aveva una risposta certa. Mentre rimuginava, sentì che il treno si era fermato e un gran trambusto si potè sentire fino in coda al treno. Alexander si rizzò in piedi e prese il suo unico bagaglio: il viaggio era finito. Se non tutto, la parte in treno.

Un po’ adirato, un po’ impaurito da quella reazione della sua compagna di viaggio, il ragazzo cacciò in malo modo il quadernetto dentro la tasca posteriore dei pantaloni, rovinando la storia e le pagine bianche. Si diresse subito verso l’uscita della stazione più in periferia della città di Cracovia. Sbucato fuori dal sottopassaggio, si trovava in un enorme piazzale dove circa dodici pullman stavano aspettando tutti i passeggeri di quel treno, i quali avrebbero poi continuato la loro strada fino ai campi di Auschwitz I e Auschwitz II-Birkenau. Ricordandosi delle indicazioni che gli erano state consegnate alla partenza, si diresse verso il bus numero 12, l’unico sprazzo di rosso in mezzo a tanto grigio dei pullman e del cielo, che però non annunciava pioggia.

Si diresse sul lato del bagagliaio del pullman aperto, e lì mise il trolley. Dopo essersi assicurato che il suo quadernetto fosse lì dove lo aveva riposto e dopo essersi fatto segnare come presente, potè salire sul mezzo di trasporto.

Il viaggio durò poco più di mezz’ora ma di Elen e di Deborah nessuna traccia. Forse erano salite e lui non le aveva notate, o forse erano su un altro pullman. Chissà dov’erano le persone con cui aveva condiviso il viaggio.

Scesero dal pullman che era sera. L’albergo in cui avrebbero alloggiato, omonimo della città, era un imponente palazzo in cemento, con finestre a distanza regolare l’una dalle altre. Girandosi a dare le spalle a quell’ imponente costruzione, si poteva vedere un lungo viale che portava in centro città. Le quasi quattrocento persone che il treno aveva scaricato nella città erano ora ammassate nella hall dell’hotel, in attesa di poter sentire il proprio nome seguito dal numero di stanza. Alexander sentì il suo, seguito dal numero 354. Prese la chiave a si mise di fronte ad uno dei due ascensori, in attesa che arrivasse. Si sentì affiancare da un paio di persone, e si girò per vedere. Un paio di occhi color del ghiaccio lo fulminarono mentre un altro paio erano fissi a terra, con ancora qualche lacrima incastrata tra le ciglia.

-Che stanza siete?- chiese Alexander con voce monotona, senza far trapelare alcuna delle sensazioni, delle parole che avrebbe voluto dire

-Quattro-zero-quattro.- si sentì rispondere da Deborah, con un tono simile -Tu?-

-Io… trecentocinquantaquattro-

-Siamo su due piani diversi-

-Così sembra-

L’arrivo dell’ascensore fu annunciato da un sonoro “ding”. I tre, più altre quattro persone, entrarono. Dopo due fermate e tre persone scese, fu il turno di Alexander di uscire dall’elevatore. Senza girarsi, per paura di trovare di nuovo uno sguardo fulminante, o peggio, lo sguardo triste di Elen, il giovane uscì nel piano e si diresse verso l’ala destra del lungo corridoio sul quale si affacciavano un numero elevato di porte, e quindi di stanze. In un’ambientazione simile a quella di un horror di Kubrik, Alex percorse la distanza che lo separava dal luogo in cui avrebbe dormito.

Una volta entrato, chiuse per bene la porta, lanciò le chiavi sul tavolino di fronte a lui, lasciò il trolley di fronte alla porta e si sedette sulla prima sedia che aveva trovato. Perché era sempre così maledettamente difficile? Ogni volta che provava a scrivere una storia, non gli andava bene o doveva scendere a compromessi per poterla dichiarare finita. Adesso era per colpa di Elen, di Emma o di chicchessia. Preso ancora dallo sconforto, si alzò dalla sedia e prese il trolley. Trascinandolo sulle ruote lo portò accanto al letto, lo appoggiò sopra e lo aprì. Qualche vestito, il cambio per quei pochi giorni che avrebbe passato lì, insieme ad una rivista di enigmistica. Spostando gli abiti riuscì ad arrivare al pigiama che sfilò dal fondo senza quasi spostare il resto dell’abbigliamento. Si cambiò lasciando cadere i vestiti che aveva addosso, incurante dell’aspetto che avrebbero assunto dopo una notte accatastati alla rinfusa. Si sedette sul letto e la copertina nera del suo quadernetto gli balzò all’occhio, sporgente da una delle tasche posteriori dei pantaloni. Si allungò per prenderla e fece scorrere le pagine sino ad arrivare all’ultima su cui aveva scritto. Fece scivolare ancora il pollice per contare le altre pagine, ma il dito non toccò più pagine quasi subito: contandole, non rimanevano che due pagine bianche. Impossibile finire la storia in così poco… lanciò il quadernetto sgualcito sulla pila di vestiti e si infilò sotto le coperte, dove un sonno senza sogni lo prese quasi subito.

-Ti sei ripresa?- chiese Deborah preoccupata per la sua amica

-Eh? Oh, sì, sì, non ti preoccupare…- rispose Elen tenendo il fazzoletto in mano

-Non mi hai ancora spiegato cosa ti ha fatto quello per ridurti così-

Elen alzò lo sguardo e trovò gli occhi di Deborah che la guardavano dal letto di fronte a quello su cui era seduta lei: -Niente! Te lo giuro! A me non ha fatto nulla-

-Cosa intendi che “a te” non ha fatto nulla?- si incuriosì la ragazza dagli occhi di ghiaccio

Elen si morse il labbro, sapendo che aveva detto più di quanto doveva: se raccontava di Emma infrangeva la promessa che aveva fatto ad Alexander: -Nulla, lascia stare. Credo sia ora di dormire, domani ci attende una giornata impegnativa.- disse e si buttò sul letto, dando le spalle alla sua amica.

-Buonanotte…- rispose Deborah, senza però riuscire ancora a credere che quello strano tipo incontrato sul treno fosse senza colpe.

La mattina arrivò troppo presto, o almeno questa era l’impressione di Alexander. Si alzò di malavoglia e spense la sveglia che aveva messo sul cellulare con movimenti al limite della violenza contro un oggetto inanimato.

Si avviò verso il bagno, dove si lavò la faccia con acqua fredda, in modo da sembrare meno stanco di quanto in realtà fosse. Tornò vicino al letto, accanto alla pila di vestiti su cui troneggiava la causa del suo malumore. Prese il quadernetto e rilesse le ultime righe, cercando di capire come far scappare Emma da quella situazione…

Era insieme ad altre otto-nove persone sul letto. L’odore di sudore e di paura era insopportabile. Una delle guardie aprì di scatto la porta della baracca al grido di “Aufstehen!”. Loro non sapevano cosa volesse dire, ma se per la terza volta che si sentiva quell’urlo qualcuno non era in piedi, veniva picchiato.

Emma, spaventatissima come sempre, uscì insieme agli altri detenuti dalla baracca, verso il piazzale dove li avrebbero contati. Due interminabili ore la mattina, altrettante la sera. Al gelo, al caldo… non faceva differenza.

Quel giorno, però, era diverso. Si poteva sentire una vena di tensione che non si era mai sentita nelle voci degli aguzzini. Inoltre, il treno che di solito veniva svuotato dai nuovi arrivati, questa volta era riempito di soldati. La confusione serpeggiava tra gli internati così come la paura si stava diffondendo tra i tedeschi. Emma non riusciva a capire perché in quella fredda mattinata di metà Gennaio i nazisti volessero abbandonare quel campo…

Eppure Emma era praticamente salva. Lo sapeva, voleva che si salvasse. Perché, allora, Elen aveva reagito così bruscamente?

Facendo mente locale, si accorse che in realtà quelle ultime righe non le aveva fatte vedere alla ragazza: erano state scritte ore dopo la discussione in treno. Chiuse il quadernetto e si decise: doveva far vedere che Emma sarebbe stata salva. Si mise in fretta le scarpe e si avviò fuori dalla stanza, verso la hall dell’hotel, dove sperava di poter incrociare Elen.

Rimase di fronte alle porte degli ascensori per mezz’ora, prima di desistere nella sua attesa. Continuava a ripetersi sottovoce che sarebbe arrivata, che avrebbe rimesso tutto a posto. Ogni volta che le porte si aprivano, gente che non conosceva usciva, diretta verso l’esterno dell’hotel, incurante del ragazzo che reggeva un quadernetto sgualcito. Sconfortato, dopo un’estenuante attesa, Alexander fu costretto a rientrare in camera per mettersi il cappotto, in quanto il pullman che lo avrebbe portato, insieme a molti altri della comitiva, al campo di Aushwitz, sarebbe partito di lì a dieci minuti.

Rientrò in camera e prese il cappotto pesante, si infilò il quadernetto nella tasca e chiuse nuovamente la porta della camera. Nuovamente riprese l’ascensore verso il piano terra e uscì al freddo. Salì sull’autobus e si sedette, pronto per i trenta minuti che lo separavano dalla meta di quel viaggio.

-Sicura che non vuoi scendere?- chiese Deborah a voce alta, in modo che Elen la sentisse

-Per ora no, non voglio uscire- rispose la ragazza da dentro il bagno della camera

-Coraggio, Ele… So che stai ancora male per quel ragazzo-

-Alex-

-Eh?-

-Si chiama Alex.-

-Va bene, per Alex… ma non devi buttarti giù di morale così. Inoltre, se non esci entro cinque minuti faremo arrivare tutti in ritardo per la visita al campo-

Da dentro il bagno di sentirono rumori lievi, poi dei passi. La porta del bagno si aprì ed Elen uscì, ancora in pigiama: -Tra quanto partiamo?-

-Cinque minuti- rispose con un sorriso Deborah

-Allora meglio sbrigarsi-

Il viaggio in pullman passò in fretta ed la comitiva arrivò alle porte di Aushwitz I alle 9.30. Alexander scese dal mezzo a scrutò velocemente le facce dei passeggeri degli altri autobus, ma non riconobbe nessuno. Triste ed anche preoccupato per la mancanza delle due ragazze, si diresse insieme agli altri all’entrata del campo, dove li aspettava una guida che li avrebbe condotti per i vari “block”. Alex seguì il sentiero che probabilmente avevano percorso migliaia di persone prima di lui ed alla vista della scritta “Arbeit Macht Frei” il suo cuore mancò un battito.

-È terribile, vero?- sentì dire da una voce alle sue spalle

-Già- rispose prima di girarsi verso il suo interlocutore. Non fece in tempo a riconoscere lo sguardo di Elen che questa gli sorrise

-Elen!- disse Alexander, sorpreso di vederla

-Shhh! Porta rispetto!- disse a bassa voce la ragazza.

-Credevo non volessi più vedermi-

-Infatti è così… ma ho capito che non sei te a decidere, bensì la tua “creatura”. Succede anche a me di creare qualcosa di cui non mi ritengo responsabile-

-Già… ma senti, sono andato avanti con la storia di Emma e tu non hai letto l’ultima parte- dicendo così, si infilò una mano in tasca per prendere il quadernino, solo per trovarla vuota: -Non c’è più…- disse, cercando a terra con lo sguardo uno dei pezzi più importanti di sé.

-Cosa?-

-Emma, il quadernino… non c’è più!- disse disperato, dopodiché guardò Elen. Aveva un sorriso stampato in faccia: -Cos’hai da ridere?-

-Io? Beh, diciamo che un uccellino mi ha portato un regalo…- e dicendo ciò portò davanti agli occhi di Alex il quadernino dalla copertina nera.

-Oh, lo hai trovato! Non so come ringraziarti-

-Finisci la storia- disse semplicemente Elen

-Ma non ho più pagine libere, purtroppo-

-Per questo ti ho preso un regalo- e la ragazza porse un pacchetto bianco ad Alex. Il ragazzo lo prese e guardò Elen con uno sguardo interrogativo: -Aprilo- disse Elen.

Alexander aprì il regalo, trovandoci dentro un quadernetto di dimensioni simili a quello che aveva utilizzato sino a quel giorno. Un quadernetto con la copertina rigida, nera, fatta in modo da non potersi rovinare

-Io… io non so che…- disse imbarazzato

-Non ti preoccupare. Ti perdono per aver messo nei pasticci Emma. Però mi prometti che nel viaggio di ritorno riempirai un bel po’ di quelle pagine.-

-Io… te lo prometto-.

I due ragazzi stettero uno di fronte all’altra, finchè Deborah non arrivò: -Che sta succedendo qui?-

-Niente- risposero in coro i due

-Stavamo solo progettando il da farsi nel viaggio fino a Milano…- aggiunse Elen.

-Beh, per il momento siamo ancora ad Aushwitz, nella Giornata della Memoria. Avrete tempo di fare progetti dopo-

-Sì, ha ragione- disse Elen

-Ok, andiamo. Il gruppo si muove- disse Deborah andando avanti

-Arriviamo- rispose Alex. Guardò Elen negli occhi, le prese la mano e varcarono l’entrata del campo.

Loro due, insieme ad Emma.

1 commento:

  1. Bravi! Nell'epilogo c'e' sempre un po' di tristezza, consapevoli che e' la parte conclusiva... Con questo racconto avete contribuito a mantenere vivo il ricordo di quelle Persone che hanno fatto quel viaggio e hanno attraversato quel maledetto cancello. Purtroppo non in occasione della "Giornata della Memoria".

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