Il sole era alto nel cielo e quando Alex fermò la penna ed alzò gli occhi rimase accecato dalla luce che si rifletteva su un paesaggio completamente imbiancato. Lo spettacolo fuori del finestrino era del tutto cambiato rispetto ai colori del giorno prima e qualsiasi particolare propendeva a fargli pensare che fuori facesse un freddo intenso. Oramai mancavano poche ore all’arrivo. Il suo cuore era pieno di sensazioni strane, mutuate da quel viaggio indietro nella storia e da quel viaggio dentro di sé, che la storia di Emma gli aveva imposto.
Il bagliore dall’esterno lo costrinse a girare il volto dalla parte opposta al finestrino, incrociando così gli occhi di Elen. La ragazza non aveva distolto un attimo il suo sguardo dal viso del ragazzo. Si era soffermata su ogni piega della bocca, sulle labbra che, mentre lui scriveva, si smangiucchiavano l’una con l’altra, prima all’insù e poi all’ingiù, sulla testa che reclinava accompagnando il senso della scrittura, sulle mani che ogni tanto grattavano la testa come a volerne scuotere i pensieri. Alex le sorrise e a lei, di rimando, si illuminarono gli occhi.
- Allora? – gli chiese Elen, curiosa di conoscere il destino della loro piccola comune amica.
Alex non le rispose e le porse il quadernetto perché potesse leggere direttamente da lì la sua storia. Elen la divorò e restituì il quaderno a Alex. In quell’istante Deborah entrò nello scompartimento e urlò a Elen:
- Eli, vieni, sai chi c’è? Patrick! Vieni, ti vuole salutare… è proprio qui nel vagone dopo… dai dai dai… sbrigati…
Elen si alzò di malavoglia e salutò Alex:
- Torno presto… Patrick è suo cugino… ci conosciamo dall’infanzia… ma faccio subito…
- Non devi scusarti…
- Ce la fai ad aspettarmi..? Intendo.. non scrivere… mi piace sai? Finalmente una storia che sembra finire bene…
Quando le ragazze furono fuori dallo scompartimento ed il loro chiocciare finì di stancare le sue orecchie, Alex riprese il suo quadernetto e rilesse velocemente le ultime battute che aveva scritto. Si fermò sulle ultime parole e poggio la penna, quasi volesse rispettare la promessa che Elen non gli aveva dato il tempo di fare, perché era scappata via. Poi scosse la testa: il cuore gli faceva male, il respiro lo sentiva affannato e ansioso, la testa gli doleva, le mani erano tese e tutto il suo corpo vibrava di una tensione particolare che riconosceva bene. Non poteva resistere. Le parole erano troppe per poterle trattenere ancora. Erano lì appena sulla punta delle sue dita e doveva riversarle giù, qualunque cosa avesse promesso o pensato di promettere alla sua strana compagna di viaggio. Alzò lo sguardo quasi per resistere a quella tentazione, pensando di tuffare gli occhi nel bianco della neve ed invece ai suoi occhi quel paesaggio che prima sembrava incantato si mostrò ora macchiato di sangue, un sangue rosso intenso, violento, come l’istinto che prese d’improvviso la sua mano e la condusse senza esitazione sulla carta bianca.
Emma aveva lo sguardo in basso quando zio Alex aprì la porta e quello che vide la spaventò. Erano due stivali lucidi, di vernice nera. Erano puliti, al punto che poteva vedere il suo viso riflesso in essi e gli occhi che vide erano quelli di una ragazzina sola e spaventata. Alex la strattonò e le urlò di scappare e di nascondersi, ma non fece in tempo a mollarle la mano che un’altra mano, più ruvida e forte l’aveva afferrata e tirata verso di sé, al di là della soglia.
Emma si sentì urlare, sentì la voce dell’uomo che fino ad allora aveva chiamato Zio Alex flebilmente cedere pronunciando il suo nome dopo un forte sparo. La stessa mano che l’aveva afferrata ora la stringeva contro il corpo infilato in quei due stivali e qualcosa le finì sotto il naso, qualcosa di morbido, di un tessuto soffice come il cotone, di un profumo strano ma dolciastro. Si sentì piano cedere le gambe e poi si abbandonò al buio fuori e dentro di sé.
Alex alzò la testa dal quaderno stordito come se avesse aspirato lo stesso etere che aveva sopraffatto Emma. La mano gli tremava. Lo sguardo percorreva come impazzito avanti e indietro il quadro fuori dal finestrino. Gli occhi gli si appannarono e miliardi di immagini gli si pararono di fronte e man mano che i suoi occhi vedevano, la sua mano raccontava sul foglio, volteggiando l’inchiostro sulle righe come fosse impazzita.
Visi di uomini mutilati, sanguinanti, rasati a zero, nudi, magri, in fila l’uno dietro l’altro, al di là di un filo spinato, in un cortile freddo pieno di neve. Donne emaciate, con la pelle bianca al punto da confondersi con la stessa neve lì fuori, che lo guardavano senza più uno sguardo umano, violentate nell’anima e nel corpo, con un dolore talmente profondo che altro orrore sulla terra non poteva trascinarle più giù. Bambini ridotti a scheletri, l’uno pigiato sull’altro, in carrozzoni sporchi e puzzolenti di urine e escrementi, bambini in lacrime, separati dalle loro madri e spinti l’uno contro l’altro dentro quel buio, che faceva paura almeno quanto il vuoto degli sguardi dei soldati che li spingevano dentro.
Emma non sentiva più nulla. Stesa in quel freddo vagone, tra quei corpi pieni di pidocchi e escrementi le veniva da vomitare, ma si imponeva di non farlo. Chiudeva gli occhi e cantava la canzone che suo padre le cantava sempre prima di dormire. Cercava di allontanarsi da lì con la mente, di spingersi lontano dove c’era qualcuno che l’amava.
Tu sei una bambola per giocar
Come la bambola di un bazaar
Le urla la svegliavano di continuo da quel torpore nel quale si forzava a restare. Mentre i pianti intorno a lei si alternavano ai singhiozzi, Emma continuava a ripetere quelle parole e immaginava la mano di suo padre sulla sua testa appoggiata al cuscino di lino bianco profumato di lavanda, le sue carezze mentre le sue dita si impigliavano tra i suoi capelli e quella voce dolce che scherzava con lei…
che muove gli occhi le braccia ma in te manca la vita..
Cantava e si sforzava di ricordare le parole, di ricordare il calore della sua mano, il profumo del suo dopobarba, la sua barba che le pungeva il viso quando si chinava per baciarla. Il moccio del vicino le inzuppava la pelle, si sentiva stupidi insetti dappertutto, odiava quei marmocchi che la sfioravano, la graffiano, le urlavano nelle orecchie in quel buio dove non riusciva a riconoscere la sua pelle da quella del vicino. Continuava a cantare la sua nenia, ora piano, ora forte, ora lentamente, ora scorrendo le parole veloce per non pensare.
… fragile bambola e nulla più…
Quando aprirono il vagone la luce penetrò in esso accecandole gli occhi in quel momento aperti. D’istinto li chiuse e si fece guidare dalle sue orecchie per capire cosa stesse succedendo. Voci in una lingua dura ed incomprensibile urlavano verso di loro. Sentiva urla di piccole voci che provenivano dalla parte della luce. Più urlavano le piccole voci, più si indurivano le voci adulte. Sentiva quasi che la pressione dei piccoli corpi intorno a sé stesse diminuendo. E sentiva acqua, tanta acqua provenire dalla stessa direzione della luce.
Si forzò a sollevare leggermente le palpebre. Doveva capire cosa stesse succedendo là fuori ed intorno a lei. Così da una piccola fessura vide degli uomini in divisa che stavano facendo scendere dei bambini dall’altra parte del vagone. Li spingevano maldestramente e Emma immaginava che alcuni cadessero e si impiastricciassero nel fango. La luce era tanta, ma solo rispetto al buio nel quale era sopravvissuta per un lungo tempo che non sapeva definire. Fuori le nuvole scurivano il cielo. La pioggia incessante infreddoliva quei corpicini e Emma immaginava la loro pelle che si accapponava al contatto con il freddo e l’umido dell’acqua. Si staccò un attimo da quelle immagini, giusto per ingannare l’attesa che la separava dall’altra parte del vagone, quando sarebbe toccato a lei essere afferrata e spinta giù da qualche parte. Immaginava l’acqua calda della doccia di casa, quella nella quale si divertiva sempre quando suo padre le imponeva di lavarsi e immaginava la schiuma con la quale creava mille divertenti pupazzi dalle strane forme. Quanto tempo era trascorso da allora? Sembrava tanto, ma forse era solo qualche giorno prima. Quanto le mancava suo padre? Non riusciva neanche a dirlo. Le era stato strappato e con lui le erano stati strappati i ricordi, le immagini felici, le canzoni spensierate e le risate innocenti. Da un giorno all’altro era tutto stato deglutito da quel vagone scuro dove l’odore del vomito e degli escrementi era il profumo migliore che poteva immaginarsi.
Quando arrivò alla luce, il suo sguardo cadde ancora su degli stivali neri e lucidi. Non sapeva dire se fossero gli stessi dell’uomo che l’aveva trascinata lì e issata su quel carro, ma erano della stessa fattura e lo sguardo che vide riflesso in essi non era più uno sguardo di terrore di una piccola bambina di otto anni. Semplicemente non era più uno sguardo umano.
- Ma che fai? Sei andato avanti? – gli chiese Elen aprendo la porta dello scompartimento
uell’interruzione brusca lo fece sobbalzare ed un segnaccio di biro sporcò la pagina bianca dove appena due righe erano state riempite di parole.
- Scusa, ti ho fatto spaventare? – disse Elen mortificata.
- No… no… scusa tu, ma non ce l’ho fatta…
- Va be, dai… allora posso leggere quello che hai scritto in soli dieci minuti?
- Dieci minuti?
- Sì, quanto pensavi fossi stata via?
- Beh.. ecco… dai tieni, leggi….
Elen si concentrò nella lettura, ma lo sguardo che Alex vide disegnarsi sul suo viso fu una smorfia di dolore acuto. Non fece in tempo a chiederle nulla che Elen lo aggredì:
- Perché Alex… dimmi perché le fai questo? Una volta tanto che poteva andare a finire bene… Perché? - e scoppiò a piangere singhiozzando a più riprese il nome di Emma
Alex rimase attonito. Non si aspettava quella reazione. Si era lasciato trascinare da Emma senza opporre resistenza. Non aveva guidato lui la storia. Era quella bambina ferma sotto la pioggia che gli aveva guidato la mano e lui non era riuscito a sottrarsi. Non era lui che aveva scritto quella storia, no, stavolta no. Lui l’avrebbe voluta salvare… ma qualcosa di più grande era successo ed ora quella storia non poteva più essere cambiata.
- Elen io… io non lo so… - le balbettò cercando di accarezzarle la testa
- Non ci credo, Alex – gli disse Elen, mentre gli rimandava indietro la mano con disprezzo e lo scavalcava per uscire dallo scompartimento.
Bellissimo il momento di non accettazione di Elen... Come il mio se non di più! Grazie
RispondiEliminaSemplicemente appassionante e appassionato. Brava!
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