Quella notte non riuscii a dormire. Ogni volta che le palpebre mi si chiudevano e morfeo stava per compiere il suo lavoro, l’immagine di Danny, Leonardo, del professor De Crescenzo o chi diavolo sia, mi tornava in mente. Mi continuai a girare e a rigirare, tentando di scacciare quel suo sorriso, quel suo “Arrivederci” così dannatamente provocatorio e allo stesso tempo confortante.
Quando la sveglia suonò, alle 6.30, non avevo avuto un minuto di pace. Mio marito, per fortuna, aveva il sonno pesante, così non fu disturbato dal mio malessere non tanto fisico quanto mentale. Dopo altri venti minuti passati sotto le coperte, sentii la porta di casa chiudersi: ero rimasta sola con Nicolò, il quale probabilmente stava già facendo colazione.
Mi feci coraggio e scesi dal letto: lo specchio che ogni giorno mi accoglieva con una mia immagine, ora frizzante, ora stanca, oggi mi rispondeva con un fantasma. Non seppi decifrare se fosse quello del Natale passato, presente o futuro.
Distolsi lo sguardo, incapace di sopportare una me stessa inerte sotto il peso di quel malessere. Mi avviai, a passo stanco, verso il bagno, dove mi lavai la faccia con acqua gelata. Un po’ mi svegliai, ma non fu abbastanza. Il Fantasma era sempre lì, solo era un po’ più presentabile.
Entrando in cucina notai che Nicolò aveva appena cominciato la sua solita scodella del latte. Aveva un’espressione stanca, ma anche triste. Come avrei voluto dirgli che andava tutto bene, ma sapevo che non era così. Passai da lì al salotto, dove impugnando la cornetta del telefono composi il numero del mio ufficio, dove lavoravo. Mi rispose il mio diretto superiore: un uomo di classe, si poteva sentire l’odore dell’acqua di colonia e la rigidità del colletto inamidato anche attraverso il telefono. Preoccupato per quella chiamata, mi chiese se andava tutto bene… Risposta scontata: no. Gli chiesi un altro giorno di permesso perché la visita medica aveva evidenziato una leggera influenza: nulla di grave, ma aggiunsi che sarebbe stato meglio se fossi stata a casa. Alla risposta affermativa salutai e attaccai la cornetta.
Tornai in cucina: Nicolò era sempre svelto a mangiare ma lento a vestirsi. Come ogni giorno, infatti, la scodella era già vuota, ma dalla sua cameretta venivano rumori di gesti lenti e di vestiti stesi per poi essere indossati. Mi avviai verso la camera dove quel giorno avevo dormito, pardon, non-dormito, più del solito.
I vestiti erano ancora sulla sedia, stropicciati. Decisi di cambiarmi dopo una breve doccia che mi avrebbe permesso di levarmi un po’ di malinconia dal volto.
Entrata in bagno, mi infilai sotto il getto di acqua calda dopo essermi svestita. Mentre l’acqua scivolava sul mio viso, sentii che lentamente mi stavo rilassando. Forse perché ero incentrata sul momento e non sul ricordo, forse perché non stavo pensando a niente, non saprei dire. So solo che rimasi in quello stato di sospensione, di nulla assoluto per un tempo indefinito. Ero così felice, nonostante la tristezza continuasse ad essere presente.
L’idilliaco momento fu rotto da un rumore secco: qualcuno stava bussando alla porta del bagno e dalla voce di Nicolò che mi chiamava. Chiusi l’acqua e sbirciando attraverso la tenda della doccia, tra i vapori, notai che erano già le 7.40.
Scattai come una molla: presi il mio accappatoio, lo indossai e uscii dal bagno in un’ attimo. Dissi a Nicolò di andare a lavarsi i denti e di mettersi subito le scarpe. Lui, pensando che i modi bruschi fossero per via del mio risentimento verso di lui, abbassò la testa ed entrò sconsolato nel bagno.
Io, nel frattempo, mi vestii più in fretta che potei, mantenendo però quel minimo di lucidità che mi permise di non indossare i pantaloni del pigiama.
Dopo qualche minuto, io ero pronta come ogni giorno e Nicolò uscì dal bagno. Gli ripetei di indossare le scarpe mentre io ritornavo in bagno per un trucco veloce. Quando finii, il fantasma del Natale passato, presente e futuro che mi guardava, era leggermente più carino.
Presi la cartella di Nicolò e il mazzo di chiavi di casa, dopodiché uscii. Percorsi le scale tenendo per mano mio figlio, entri in macchina e, stabilendo un nuovo record di velocità, arrivai davanti alla scuola in meno di dieci minuti. Lì guardai l’orologio da polso: mancavano ancora sei minuti alle otto. Tirando un sospiro di sollievo, guardai Nicolò: era ancora triste, probabilmente pensava che tutto quello che era successo in quella giornata fosse colpa sua. Non poteva immaginare che in realtà era colpa mia, mia e di Danny.
Al suono della campanella, gli diedi un bacio sulla testa e lo salutai. Lui si diresse verso l’entrata un po’ meno triste. Lo seguii finché non scomparve dentro la scuola, ma rimasi lì, ferma, a fissare il vuoto ancora per qualche minuto.
Mentre meditavo sul da farsi, sentii un rumore di passi alla mie spalle. Le farfalle si ripresentarono. Il fantasma, ne ero sicura, era tornato.
-Ti avevo detto “Arrivederci”, non “Addio”-
Non mi girai, presa dallo sconforto.
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