domenica 21 novembre 2010

Verso l'isola che non c'è - Capitolo 3

Tuod si era tranquillizzato. L’idea di passare nei pressi della Costa della Morte lo aveva davvero sconvolto. Pensavo davvero che se lo avessi forzato a quella opzione, una volta attraccati al molo mi avrebbe piantato lì e se ne sarebbe andato. Così l’atmosfera migliorò tra di noi. Il tempo era buono, il mare sufficientemente tranquillo, il vento abbastanza alto da farci veleggiare verso il nostro obiettivo rimanendo nei tempi che Tuod si era dato.

Quello che successe perciò ci colse completamente alla sprovvista. Accadde tutto una notte. Mi svegliai perchè sentivo la barca ondeggiare in modo più forte del solito ed il mio stomaco era vicino a vuotare nel cesso tutta la cena. Mi alzai tentando di raggiungere la toilette, ma non appena misi piede in terra fui sbattuto completamente dall’altra parte e caddi. Mentre cercavo di rialzarmi mi colse una serie di conati di vomito e lo spettacolo che ne risultò ve lo risparmio, perchè io stesso sto male a ricordarlo. Urlai il nome di Tuod, sperando mi sentisse. Non capivo dove fosse, ma lo volevo lì con me, a rassicurarmi che tutto stava andando per il meglio ed era solo un mare un po’ più grosso del solito. Tuod non mi rispondeva, al che capii che dovevo raggiungerlo su. Mi feci strada con lo stomaco che oramai andava su e giù per i fatti suoi ad ogni minimo sbandamento della barca. Afferrai il corrimano delle scale e mi portai su e rimasi immobile nel vedere uno spettacolo che di umano oramai non aveva già più nulla. Tuod era riverso sotto le vele: doveva essere stato colpito alla testa mentre cercava di manovrarle e giaceva privo di sensi, bocconi. Intorno a noi c’erano delle onde gigantesche, quasi più alte dell’albero della nave.


Non sono un uomo che ha paura di solito. La vita in fondo mi ha preparato a non avere paura di ciò che di solito altri possono temere. Io non temevo la morte: forse a causa della esperienza di mio padre, per me la morte era solo vuoto, assenza e non aveva le colorazioni fosche dell’inferno o la luminosità del paradiso. Io soffrivo di vertigini, ma non per questo mi tiravo indietro di fronte a paesaggi o imprese mozzafiato.. C’era una canzone che diceva che le vertigini non sono paura di cadere, ma voglia di volare. Io non temevo di essere rapinato di notte quando tornavo a casa da solo, nè le armi mi facevano paura. Forse era incoscienza la mia o forse era solo il sapere che in fondo la cosa peggiore che mi potesse succedere era porre fine alla sofferenza su questa terra. Per sempre.

Eppure quello che vidi rimase impresso nei miei occhi e mi ferì dentro. Capivo di essere di fronte a qualcosa che io non avrei potuto controllare. Capivo che qualunque cosa io avessi potuto decidere di fare, non avrei deciso per la mia vita o per la mia morte, nè per quella di Tuod. Mi fece paura la mia stessa rassegnazione di fronte a quello orrore della natura. Contrariamente a questo pensiero, fu l’istinto a guidarmi all’azione. Cercai di trascinare Tuod sottocoperta, ma ad un certo punto la barca si rivoltò e non fui capace di trattenere con le mie mani, nonostante ce l’avessi messa tutta ed anche di più, i centottanta centimetri per ottanta chili del suo corpo. Lo vidi scivolare lentamente e vidi il mio corpo spingersi in là per afferrare un lembo del pantalone, una ciocca di capelli, qualsiasi cosa che potesse contribuire a trattenere il suo corpo sulla barca e la sua vita sulla terra.

Scivolò lentamente. Prima vidi i suoi piedi penetrare nell’acqua e poi lentamente vidi sparirne le gambe, il tronco, le braccia e la testa. Credo di avere urlato in quel momento, un urlo che non servì a salvarlo ma diede a me la forza di sopportarne la morte. Credo, perchè davvero ho cercato di cancellare tutte le sinapsi che mi consentirebbero di riportare alla mente ed agli occhi quelle immagini così dolorose.

Sanguinavo. Da qualche parte sanguinavo e me ne resi conto per caso. Ero sporco di vomito e sangue dappertutto e sentivo che anche io stavo perdendo le forze. Decisi di aggrapparmi a qualcosa ed aspettare la morte. Non ero cristiano e quindi non mi serviva pregare. Ma in quel momento mi sembrò la cosa più dignitosa da fare. Strano come di fronte alla morte, ad un uomo rimanga solo la propria dignità. Non ce lo ricordiamo spesso. Ma dovremmo.

All'improvviso qualcosa, forse una trave, mi colpì.
Svenni e quando mi svegliai vidi sopra di me un cielo azzurro e limpido.

Non avevo scelta: o ero in paradiso o, più probabilmente ero approdato nelle Azzorre. Non con la barca, ma in qualche modo.

Le Azzorre sono un arcipelago di nove isole immerse tra il Portogallo ed il Nord America, in pieno Oceano Atlantico. Alcuni ritengono che esse siano i resti della mitica Atlantide. Selvagge, perigliose, dai laghi cristallini e dalle scogliere nere. In realtà non ero su nessuna delle nove isole più famose, ove avrei potuto sperare di trovare aiuto e comprensione per la mia situazione, nonchè un pasto caldo ed assoluto riposo.

Non ero alle Azzorre. Non so come, ma ero finito su una delle Isole Selvagge, un gruppo di tre isole completamente disabitate, tra Madera e le Canarie. Come abbia fatto la barca a finire completamente fuori rotta per me restò un mistero e del resto non avevo nemmeno più Tuod a sostenermi nei miei ragionamenti. Mi alzai. La testa mi girava un po’. Mi guardai intorno e riconobbi in alcuni legni accanto a me un paio di lettere del nome della barca, una ‘Y’ ed una ‘S’. Poco più in là c’era la barca completamente aperta contro uno scoglio gigantesco. Noncurante delle mie ferite corsi verso il relitto e iniziai a rovistare tra la legna umida e puzzolente. Mi si aprì il cuore quando vidi le scatole di cibo ancora intatte. Cercai ancora e trovai la cassetta del pronto soccorso. L’afferrai e tornai sulla spiaggia, a sedermi su un masso abbastanza alto.

Iniziai a medicare i numerosi tagli che riuscivo a vedere, alcuni dei quali erano chiusi da sangue rappreso. Cercavo di aprirli un po’ giusto per disinfettarli per bene. Cercavo di fare il mio meglio, tenuto conto che prima di quell’avventura la migliore reazione al sangue che avevo avuto era stata di uno svenimento. E’ evidente come in condizioni estreme l’uomo reagisca con forze inaspettate.

Dopo un po’ mi resi conto che la mia ostinazione nel ripulire le ferite nascondeva forse il desiderio di medicarne altre, più profonde. Lo sguardo si soffermò per un attimo all’orizzonte e mi sembrò quasi di udire lontano la risata un po’ beffarda di Tuod. – Vorrei essere al tuo posto, adesso, brutto stronzo di uno skipper. Dovunque tu sia – mi sorpresi a pensare.

I giorni passavano l’uno uguale all’altro. Non c’era molto nè da fare nè da girare su quell’isola. Avevo fatto asciugare il legname al sole ed avevo costruito un piccolo riparo. Avevo trascinato al coperto le provviste e tutto il materiale intatto che avevo trovato nella barca, compresa una piccola radiolina che Tuod usava raramente. Non ero un elettrotecnico nè potevo considerarmi un amatore di elettronica. Eppure il troppo tempo libero e la voglia di tornare al mondo civile mi costrinsero a dedicarmi allo studio di quell’aggeggio, che un domani avrebbe potuto rappresentare l’unico modo per comunicare con il resto del mondo, lontano  migliaia di onde da dove sedevo io.

Fu quasi per sbaglio una mattina che aprii una scatolone di Tuod, pensando che contenesse altri tipi di viveri. Ero stufo di mangiare scatolette di tonno e piselli ed ebbi la speranza di potervi trovare qualche cibo un po’ diverso. Invece in quella scatola c’era solo un mucchio di materiale di cartoleria: blocchi, quaderni, penne, matite colorate, e in una scatola più piccola, alcune fotografie. Mi colpì in particolare la foto di un uomo, alto, molto magro, con i capelli neri e la faccia butterata, che doveva essere sicuramente il padre di Tuod. Affianco a lui una donnina piccola e smilza, quasi insignificante, se non fosse per degli occhi dolcissimi che riuscivano ad abbracciarti e farti sentire il calore che avevano dentro.

Da quanto tempo non vedevo uno sguardo come quello? Da quanto tempo non sentivo un calore come quello? Afferrai una penna e fu quasi naturale iniziare a scrivere, come se con quel gesto io potessi finalmente porre fine ad un forzoso silenzio. E l’ardore con cui scrissi quelle parole mi fece capire che il silenzio che urlava dentro di me non era quello della solitudine di un’isola deserta, dove mi ritrovavo ogni giorno a fare sberleffi davanti ad uno specchio e ad urlare improperi alla mia faccia barbona di naufrago. No. Era un altro il silenzio che implorava la fine e anche se non aveva senso nè speranza di raggiungere il destinatario, si sciolse subito al calore ed al suono delle prime parole del mio messaggio nella bottiglia. Le ripetetti tra me e me mentre le scrivevo, quasi ad evocare la sua presenza, lì affianco a me.

“Caro papà...”
Pagina intenzionalmente lasciata bianca.









(continua)

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