mercoledì 2 giugno 2010

How to save a life

-Dobbiamo parlare-.
Rimasi sorpresa da quelle sue prime parole. Mi aspettavo un “Ciao”, mi sarei accontentata di un “Ah, sei tu”. No, mi aveva detto che dovevamo parlare. E già immaginavo l’argomento.
Mi fece entrare in casa sua: un appartamento la cui prerogativa era il bianco. Bianche le pareti, bianchi i mobili, bianche le sedie nel salotto dove mi condusse e dove mi fece accomodare.
Presi la sedia più vicina a me, lei si mise oltre il tavolo posto al centro della stanza, spostandosi verso la mia sinistra –Siediti. È solo una chiacchierata, giusto?- chiesi. Mi sorrise educatamente, come per rispondermi di sì ed io rimasi ferma, seduta su quella sedia mentre pensavo di già di scappare da quella casa, chiedendomi perché mai sono venuta qui.
Il silenzio si protrae da molto, non so però giudicare da quanto: in questo lasso di tempo io non mi sono mossa dalla mia sedia, al contrario della mia interlocutrice che si è seduta ma nessuna delle due ha ancora avuto il coraggio di cominciare la discussione.
Non è la prima volta che ho questo tipo di conversazione: la prima e unica altra volta che mi sono trovata in una situazione del genere è stato tanto tempo fa, quando andavo al college.
Era un periodo piuttosto confuso della mia vita: non ero sicura di niente se non del fatto che trovavo stranamente carina la mia migliore amica, la persona con la quale ho passato quasi più tempo della mia esistenza rispetto alla mia famiglia. Errore, madornale errore. Non capivo perché, non capivo il motivo per cui la mia infatuazione era così contro natura per lei. Passò una settimana dalla mia, come dire, “rivelazione” prima di poter parlare ancora con lei e non fu affatto piacevole: la persi. Per sempre.
Fu un errore rivelarle ciò che ero, ciò che sono.
Un errore mi sembrava anche ciò che stavo per fare: mi schiarii la voce e cominciai ad esporre le mie motivazioni, ciò che provavo per lei e, speravo, quello che lei provava per me. Perché sapevo, SO, che anche lei era arrivata al punto che avevo passato io anni prima, ma non lo voleva accettare. Ammise un paio di cose, come il fatto di sentire un tuffo al cuore quando ci abbracciavamo o di trovarsi a pensare a me più volte durante la giornata… io invece continuai a dire che la amao, che era normale se lei non voleva sottostare subito questo cambiamento, che volevo sapere se era disposta ad accettarmi.
Rimase in silenzio, con la testa china e mi disse una cosa sola: -Esci da casa mia per favore-. Vidi che stava per mettersi a piangere e con il cuore spezzato decisi di assecondarla, così uscii da casa sua e mi diressi verso il primo bar aperto che trovai.
Sentii un tuono mentre entravo nel locale.

*****

WHAT IS RIGHT AND WHAT IS WRONG
GIVE ME A SIGN… WHAT IS LOVE?

Le pale girano lentamente, con un ronzio sommesso. Una canzone ben ritmata suona nel juke-box ma nessuno questa sera sembra intenzionato a ballare. Quattro avventori al bar: tre uomini assieme, al loro solito tavolo, al centro del locale e una donna, seduta su uno degli sgabelli del bancone. Per i tre uomini è ora di andare, come al solito un po’ alticci ma senza eccessi. La donna non si muove.
È la prima volta che la vedo qui: si nota che non è mai stata in un posto del genere o se ci è già stata deve essere proprio disperata per restare alla fine del bancone, il punto meno in vista del locale. Da quando è entrata ha solamente chiesto una bottiglia di scotch. Non un cocktail, non un quartino ma una bottiglia di scotch. Da quando gliela ho porta ha versato un bicchiere ed è rimasta lì, ferma, con il liquore in mano. Sembra n trance, assorta dalla musica: annuisce di tanto in tanto, come per dare ragione alle parole delle canzoni (che tra l’altro non credo di aver scelto bene: un miscuglio di generi e artisti incredibile) e, specialmente con l’ultimo brano, versa qualche lacrima se la melodia o le parole sono particolarmente commoventi. Io intanto inizio a dare una pulita ai bicchieri… diavolo, sembra una di quelle classiche scene da bar dei film: locale vuoto tranne che per l’eroe e il barista, quest’ultimo che pulisce all’infinito lo stesso bicchiere. Poi arriva una donna all’improvviso spalancando la porta e rovina la scena.
La nuova arrivata è bagnata fradicia: a quanto pare fuori piove a dirotto e lei non ha un ombrello.

I DON’T WANNA BE A FOOL FOR YOU
JUST ANOTHER PLAYER IN YOUR GAME FOR TWO
SHOCK ME HIT ME BUT
THERE AIN’T NO LIE BABY, BYE BYE BYE

La canzone è cambiata: le voci di una boy band anni ’90 risuonano ora.
La ragazza appena entrata si dirige verso l’ultima cliente senza degnarmi di uno sguardo, la gira, le fa posare il bicchiere e la bacia.
Mi ha stupito. Dico davvero!
Un bacio appassionato, da lasciare senza fiato: infatti si staccano solo dopo parecchi minuti per respirare, dopodiché iniziano a parlare. La nuova continua a chiedere scusa e incolparsi per Dio solo sa cosa mentre inizia a piangere. Al contrario, la ragazza dello scotch le dice di non preoccuparsi, che va tutto bene, che non è successo niente. Dopo un bel po’ si abbracciano: ormai piangono entrambe e si scatenano i classici “ti amo” da innamorati. Rimangono così finchè non do un colpo di tosse e loro, trasalendo, ritornano alla realtà e diventano rosse. Non provano nemmeno a spiegare: non ce n’è bisogno. Le chiedo se possono uscire dato che il bar lo devo chiudere e loro dicono di sì farfugliando. Porgo loro un ombrello da sotto il bancone, accettano ed escono mano nella mano, stringendosi quando aprono l’ombrello e se ne vanno. Io rimango solo, pulendo il bancone.

IF YOU’RE LOST YOU CAN LOOK
AND YOU’LL FIND ME
TIME AFTER TIME

Lascio andare il juke-box ancora un po’, sorseggiando dello scotch.

1 commento:

  1. Sono molto particolari i tuoi testi. Il filone comune mi incuriosisce...

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