Perché? Perché Roberto era contento che Silvia fosse lì? Perché ora non riusciva a dire “E vaffanculo pure tu”, come prima della partenza? Mariciel si era allontanata di qualche metro eppure era per lui una presenza così lontana che faticava a mettere a fuoco i dettagli del suo viso, quello stesso viso che aveva tempestato di baci fino a poco prima.
Continuava a fissare il display dell’iPhone e a rileggere il messaggio di Martino, mentre sentiva una familiare sensazione di urgenza scorrergli attraverso le gambe, come il brivido successivo all’orgasmo.
Silvia era lì, a pochi minuti da lui.
Le ragioni non lo interessavano in quel momento, gli interessava soltanto riannodare le fila di un discorso interrotto bruscamente e unilateralmente a Milano qualche giorno prima.
Si alzò di scatto e cominciò a correre verso la discoteca che gli aveva indicato Martino nel suo messaggio, incurante delle figure che lo maledicevano in molteplici lingue mentre lui li urtava, mandando all’aria bicchieri di plastica dal contenuto colorato, pestando piedi calzati di sandali o infradito, rovesciando innumerevoli banchetti di cartone carichi di bigiotteria.
Raggiunto il locale, Roberto entrò piazzando venti euro in mano ad un nerboruto buttafuori all’entrata senza neppure curarsi di ricevere il timbro sul dorso della mano sudata. Sgusciò sotto le dita del bruto quel tanto che gli bastò per infilarsi nella calca del locale.
Avanzava a fatica, investito da gomitate e getti di drink, fino a quando la vide.
Era lì, esattamente come se la ricordava a Milano. Investita dalle strobo danzava ad occhi chiusi, le braccia sollevate, il capo reclinato a seguire il ritmo della musica. La frangia le ricadeva sulla fronte, quella stessa frangia che lui aveva più volte ravviato scompigliandole i capelli.
Mariciel ora non era nemmeno un vago ricordo. Silvia era lì, in mezzo a…
Due ragazzi. E quella stronza della sua amica, Giselle. In un istante gli vennero in mente tutte le occasioni in cui Giselle aveva cercato di farlo rompere con Silvia – e sospettava che anche dietro l’ultimo, singolare mutismo di lei ci fosse lo zampino di Giselle.
Non riusciva nemmeno a distinguere bene i loro volti, nonostante fosse ormai a meno di mezzo metro da loro. Vide solo che uno dei due stava cominciando ad allungare il braccio verso Silvia come per abbracciarla e allora reagì.
Gli sembrò di osservare la scena al ralenti guardandola su uno schermo televisivo, come se si stesse osservando dall’esterno. Sentì il suo pugno contrarsi, sentì il suo pollice scivolare all’esterno delle dita serrate, vide il braccio muoversi all’indietro per caricare e vide poi il colpo partire all’indirizzo della schiena del ragazzo, che si accasciò sulle ginocchia con un’imprecazione.
Immediatamente l’urlo di Silvia e di Giselle fu soffocato dal gemito di Roberto. Il ragazzo che era stato così bruscamente atterrato aveva sferrato un colpo alla cieca e aveva centrato il ginocchio sinistro di Roberto, mentre il suo amico aveva abbandonato i fianchi di Giselle per cercare di strozzarlo.
Intorno a loro la pista stava facendo spazio per il prevedibile arrivo dei buttafuori, mentre sul pavimento una strana e laocoontica danza stava avendo luogo, con meno pugni del previsto e più gemiti, sbuffi e imprecazioni.
“Ma che cazzo sta succedendo?”, gridò Martino, che era ricomparso con la sua camicia bagnata e l’espressione tra lo stupito e l’infastidito per l’essersi perso quella scena da film di serie B. “Robi, che cosa…?”
In quella anche Martino venne investito dal treno dei buttafuori che irruppero in pista e cominciarono a tirar su di peso per la collottola i ragazzi e a strattonarli verso l’uscita in mezzo agli squittii di Giselle e Silvia.
Roberto venne accolto dall’abbraccio dell’asfalto viscido di residui di cocktail e di altri liquidi sui quali preferiva non riflettere troppo, e così pure Jorge, Carlos e Martino. Lanciati di peso in mezzo alla strada, tra gli sguardi divertiti degli astanti. Nel giro di pochi secondi la vita intorno alla barriera corallina della discoteca sarebbe ripresa come al solito, esattamente come tutte le sere dall’alba dei tempi – e, probabilmente, fino al loro tramonto.
Si issò a sedere, appoggiandosi al gomito, mentre con una mano si massaggiava il mento. Sentì in bocca il sapore vagamente ferroso del sangue, ma facendo scorrere la lingua contro i denti si accorse che non ne mancavano. Il che, considerando la sua fortuna, era comunque da considerarsi un buon segno.
Sentì il suo sudore acre mentre anche gli altri ragazzi si rialzavano. Anche Martino, che scuoteva la testa come quella mattina della partenza, mentre si riprendeva dalla maria consumata a Milano.
“E io che pensavo di divertirmi questa sera…”, cominciò a dire Martino.
“Hijo de puta”, borbottò uno dei due, quello su cui si era lanciato Roberto.
Nel frattempo, sul marciapiede, oltre ai barbarici buttafuori che si stavano sfilando (fortunatamente) i guanti di pelle, erano comparse oltre a Silvia e Giselle anche Liliana e la sua amica.
“Ma che cazzo combini?”, sbottò Silvia, un’ottava troppo vicina al tono che aveva quando stava per crollare in lacrime. “Ti ha dato di volta il cervello? Vieni qui e cominci a prendere a pugni…”
“Uno sconosciuto”, aggiunse Giselle. Il tono aveva lo stesso calore di un pacchetto di filetti di platessa lasciati nel freezer per sei mesi.
Roberto scosse la testa. “Non mi sembrava tanto sconosciuto da come ti abbracciava”.
Il tizio che Roberto aveva aggredito fece per scattare verso di lui con le mani ad artiglio, ma fu interrotto da un perentorio “Basta!” di Martino, mentre Silvia si affrettava a spiegare a Roberto che Jorge non la stava abbracciando. Stava provando ad abbracciarla. Tutto lì.
“E tu sei sempre il solito coglione… Mi lasci a Milano per venire qui a divertirti col tuo…”
“Amico”, precisò Martino.
“Amico, sì”, continuò Silvia, “E poi mi fai il geloso e queste scenate e ti metti a picchiare la gente…”
Jorge si alzò in piedi e sputò per terra poco lontano dai jeans un tempo chiari di Roberto.
“Io… Quando ho visto che ti stava per abbracciare io… Non ci ho visto più”, disse Roberto. Si alzò in piedi a sua volta e dopo essersi passato le mani sui pantaloni lasciando una macchia di sangue e asfalto ne tese una a Jorge. “Mi dispiace. Lo siento”.
Jorge lo fissò a lungo con lo sguardo piuttosto torvo. Poi, dopo qualche secondo, scrollò le spalle e disse: “Tu es loco. Matto, capisci?”
Gli strinse la mano e Roberto fu certo che andandosene lo stesse mandando affanculo.
Si avvicinò a Silvia sotto lo sguardo sprezzante di Giselle.
“Mi dispiace”, disse Roberto.
Silvia non disse niente.
“Dovevo invitarti a venire in vacanza con me. Almeno chiedertelo”, aggiunse.
“Avresti dovuto, sì”, disse Giselle.
Roberto la guardò strizzando gli occhi. Per un istante pensò che forse aveva aggredito la persona sbagliata.
Fece per dire qualcosa quando Silvia gli appoggiò un dito sulle labbra a zittirlo.
“E’ stata Giselle a convincermi a venire qui”, disse.
L’espressione sul volto di Roberto tradì tutta la sua sorpresa.
“Io non sapevo se avrei mai voluto rivederti. Pensavo che mi avessi mollata, che fossi venuto qui per… per divertirti con quell’imbecille…”
“Ehi!”, protestò Martino.
“Ho conosciuto una persona qui”, disse Roberto.
Silvia si ritrasse come se avesse visto un serpente.
“Una ragazza, del posto. Si chiama Mariciel, e dipinge”, aggiunse.
Martino chiuse gli occhi. Giselle chiuse gli occhi. Roberto era convinto che tutta la gente lì intorno a parte lui e Silvia avesse chiuso gli occhi, come ad aspettare una deflagrazione.
Roberto ricordò in un istante la ragazza di nome Mariciel, i suoi capelli, l’ovale del suo viso, il suo corpo perfetto, i suoi denti bianchissimi, la delicatezza delle sue mani, il suo profumo… E capì che non gliene importava nulla.
“Ho fatto l’idiota”, disse ancora Roberto. “Ma non è niente per me. Niente”
Silvia iniziò a piangere senza emettere un suono. Grosse lacrime iniziarono a rigarle il viso peggiorando i risultati del primo round di pianto nel bagno del locale.
“E perché non mi hai voluta con te?”
Roberto sbuffò.
“Perché pensavo di aver bisogno di un ultimo momento solo mio. Dopo la laurea. Da solo, per l’ultima volta. Sai come in quel film, Fandango”.
Silvia scosse la testa. “Però non sei rimasto solo a lungo…”
“Ho sbagliato, lo so”, disse Roberto. “Ma quando Martino mi ha scritto che eri qui sono scappato da te. Vorrà pur dire qualcosa, no?”
Fece per abbracciarla.
Silvia si ritrasse. “Non lo so cosa vuol dire. Vuol dire che tieni il piede in due scarpe”
Roberto scosse la testa. “Io pensavo che tu mi avessi lasciato. Quel messaggio, quel vaffanculo…”
Silvia scosse la testa. “Ero offesa e…”
Martino si intromise. “Ragazzi, io non voglio dire… e se ci chiarissimo in modo civile davanti a una birra e non in mezzo alla strada sotto gli occhi di tutti…”
“Io non devo chiarire”, disse Roberto. “Io ho deciso che voglio stare con te”
Silvia appoggiò il volto contro il torace di Roberto. Senza smettere di singhiozzare rispose: “Io non so se voglio passarci sopra, Robi… Non lo so più”.
Roberto inspirò profondamente. Affondò il viso nei suoi capelli e disse: “Proviamo”.
Sentì Silvia annuire, senza che dicesse nulla.
Roberto si guardò intorno. Martino aveva la solita espressione indecifrabile. Giselle probabilmente lo odiava, e le altre due donne che si erano avvicinate non avevano capito che cosa diavolo stesse succedendo.
Ma non era importante.
Roberto aveva ventiquattro anni, si era laureato da pochi giorni, aveva appena finito di fare a botte in un locale spagnolo e anche se non sapeva che cosa avrebbe combinato nel resto della sua vita, sapeva con certezza una cosa: sapeva che oltre a suonare Baba o’Riley come Pete Townshend, voleva passare tutto il suo tempo con Silvia.
Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci
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Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a
superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata
e un...
3 mesi fa
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