domenica 30 gennaio 2011

Lungo il fiume

Prendo spunto da una storia vera e le costruisco intorno un po’ di “romanzo”, perchè alcune affermazioni potrebbero essere troppo pesanti a pensarle come vere e perchè alcuni aspetti di questa storia io non li conosco fino in fondo, nonostante abbia vissuto abbastanza da vicino questa difficile scelta.
Il nome nel racconto, Ermes se lo è camuffato da solo, rispondendo ad una chat sul blackberry: gli ho chiesto che nome avrebbe scelto per sé, se non si fosse chiamato come si chiama nella realtà.  Ammetto di avere preso non proprio la prima scelta...
Non parlo a nome di Ermes. Di tutte le affermazioni fatte nel racconto, mi assumo piena responsabilità in prima persona. A voi capire quelle vere, distinguendole da quelle forzate dal romanzo.
Pubblico la storia proprio il 30 Gennaio, l’ultimo giorno di Ermes in Italia... perchè questo è l’unico modo che conosco per augurargli di riuscire a nuotare attraverso il fiume, senza lasciarsi prendere dalla corrente.

Settembre
Se mi siedo per un attimo e ripenso agli ultimi dieci anni della mia vita lavorativa, credo di avere subito una innumerevole serie di cambiamenti societari sui quali insieme ai miei colleghi ho saputo piangere, ridere e scherzare. Sono sempre stato pronto a ribaltare il mondo e non mi ha mai spaventato farlo.
Eppure stavolta è diverso: stavolta cambio io!

La storia che voglio raccontare non si svolge negli anni nei quali la società dove lavoro ha cambiato nome, gruppo e lingua, per ripresentarsi alla casella di partenza del gioco dell’oca,  dopo qualche anno di fusioni e acquisizioni. Quella è una storia che ha cambiato profondamente il mio modo di lavorare, mi ha forgiato umanamente e professionalmente, ma è acqua passata già sotto i ponti e giunta al mare. Nè voglio lamentarmi qui degli ultimi due anni bui, nei quali ho visto colleghi andarsene amareggiati o restare perchè quella piccola scrivania era l’unica spiaggia dove potevano arenarsi, anni nei quali ho lavorato duramente per riconquistare un posto che già avevo, lottando con i denti per difendere una professionalità messa a dura prova da gente insensibile, poco professionale e scorretta.

La mia storia nasce in una mattina di settembre, una mattina come tutte le altre, nelle quali ancora il caldo gira umido nell’aria e il sapore salmastro dell’acqua e i profumi degli oli abbronzanti ti entrano nelle narici quando sali su un piccolo vagone di una ferrovia. 

Mi chiamo Ermes e prendo tutti i giorni lo stesso treno dalla provincia alla grande metropoli, scendo a Milano, mi fermo a prendere un caffè ed un cornetto e poi entro in una delle più grandi società italiane, che di grande conosce oramai soltanto i numeri di fatturato e di soldi che gestisce.

Per me era una mattina qualunque. Ero seduto alla scrivania con in mano la lista che mi ero fatto delle persone da chiamare, dei fornitori da sollecitare e delle email da spedire. Seguivo il mio progetto con tranquillità, nonostante avessi addosso gli occhi di molte persone, che speravano quel progetto venisse affossato, con insieme un paio dei miei responsabili. Stavamo portando avanti l’automazione di una parte di attività che alla fine ci avrebbe assicurato una consegna più veloce e precisa degli ordini ai fornitori. Vero è che alcuni speravano in alcuni grossolani errori del nostro staff, per puntare il dito contro i miei responsabili e farli fuori.

I miei responsabili mi assicuravano ogni giorno il supporto necessario per tutte le attività che portavo avanti. Il loro sostegno professionale era garantito e me ne servivo abbondantemente per schivare i numerosi coltelli che passavano giornalmente sulla mia testa. Vieri, quarantasei anni, consulente per natura, uomo per sbaglio e Giorgia, quarantanove anni, stronza per natura, donna per sbaglio. Due esseri che sembravano lontani dai sentimenti umani, quel tanto che bastava a non provare il minimo di empatia di fronte alle condizioni normali di noi dipendenti: la gioia di una nascita, la preoccupazione di un intervento, i primi passi di un figlio, i genitori malati... erano tutti eventi che dovevano restare rigorosamente lontani dai discorsi con loro, che parlavano solo di numeri, fatturato e produttività.

Io mi ci ero abituato. Era la nuova gestione, ben lontana dal paternalistico abbraccio del mio vecchio capo che mi teneva nel suo ufficio per ore a parlare di scenari industriali di alto livello e piccole beghe di grandi uomini d’affari. Sapeva tutto del mondo nel quale ci muovevamo e di esso ci teneva a renderci partecipi, perchè il nostro lavoro non rimanesse fine a se stesso. La nuova gestione era fatta di dirigenti licenziati dall’oggi al domani, di passaggi inspiegabili di persone da un ufficio all’altro, di distacchi in società del gruppo, di arrivi improvvisi di personale appartenente ad una chiara cordata: un clima di terrore degno dei tempi di Robespierre.

A metà di quella mattina scesi a prendere un caffè al bar con il mio vecchio amico Pericle, come ero solito fare di tanto in tanto per dimostrare la mia parte “umana” anche sul lavoro. Un amico col quale fumavamo su un balconcino riservato ai “viziosi” dei pacchetti interi di sigarette prima di rientrare in ufficio, raccontandoci pettegolezzi e novità del lavoro e con il quale, quando ho smesso di fumare, abbiamo mantenuto quest’abitudine spostandola in un bar.

Al mio rientro, prima di ricominciare a lavorare, consultai la mia email privata. Lei era lì, discreta tra tre o quattro alert di tipo spamming, che giaceva pura ed intatta nella sua bellezza. Non conoscevo il mittente, l’oggetto era tutt’altro che insulso: “Proposal”. Ripensai alle serate che passavo da giovane a giocare a pocker con gli amici e mi venne in mente l’immagine di Sergio che usava spizzicare le carte una per una, fermandosi ad indovinare da un puntino colorato quali fossero il numero ed il seme delle carte, una dopo l’altra, per cinque volte. Decisi di fare così...

Catturai il nome del mittente e cercai il dominio che compariva nell’indirizzo email. Si trattava di una società di cacciatori di teste specializzata nelle ricerche di personale a livello internazionale. Basata in Belgio, lavorava molto per cercare dipendenti di paesi europei per società basate a Londra. La situazione si stava profilando per molti versi interessante. Il settore dove operava la mia società era molto forte a Londra e le speranze di un’alternativa al mio lavoro attuale sembrava si stessero materializzando davanti a me.

Non sono il tipo di persona che – come si dice nel linguaggio comune – “sputa nel piatto dove mangia”. E’ pur vero che in dieci anni di duro lavoro non avevo guadagnato molto come posizione all’interno della mia azienda. Ogni fusione o acquisizione mi avevano lasciato sperare in un avanzamento di carriera, eppure ogni volta nulla si era concretizzato, nonostante fossi rimasto ben radicato “nel mio territorio” e mi fossero state riconosciute ampiamente a livello economico le mie capacità. Eppure, non avevo guadagnato nessuna carica manageriale. Ero in ritardo lungo il persorso di carriera che mi ero figurato per la mia vita e stavo entrando in un tunnel dove anche il mio stipendio diventava una variabile importante del mio lavoro, nonostante per anni fossi riuscito a sostenere il contrario.

Negli ultimi mesi, infatti, mia moglie Cristina aveva lasciato il lavoro. Era stata una decisione sofferta, maturata nel tempo dopo che aveva sperimentato varie forme di lavoro: a tempo pieno – prima del matrimonio –, in proprio – dopo la maternità –, e part-time – quando il lavoro in proprio aveva iniziato a non fruttare quello che ci eravamo immaginati. Prima dell’estate la situazione era diventata insostenibile e le richieste che le giungevano si scontravano pesantemente con la scelta di seguire personalmente nostra figlia nelle sue attività scolastiche e parascolastiche. Così a Maggio si era licenziata. Durante i mesi che avevano preceduto la nostra decisione, io non ne avevo mai percepito le conseguenze in maniera così drastica come a luglio, quando mi capitò di guardare il mio conto corrente, rendendomi conto, per la prima volta in modo tangibile, che il mio era l’unico stipendio che entrava in famiglia. Per questo motivo, sentivo di dover fare di tutto per assicurare alla mia famiglia lo stesso stile di vita del passato, qualunque cosa fosse successa.

L’impegno pesava. Non avevamo problemi economici, ma in me sentii crescere il terrore di dover sostenere soltanto io tutte le richieste che avrebbero potuto nascere nel tempo, da quelle scontate a quelle più estrose che il tempo può portare. Provai a parlare con i miei responsabili delle mie aspettative di crescita, ancor prima di ruolo che di stipendio: trovai un muro di indifferenza, che si celava dietro i soliti “Vediamo...” “La capogruppo detta regole precise...” di chi non vuole dirti chiaro e tondo che “non ce n’è”, per timore che tu molli tutto e abbandoni la nave prima che loro ne siano scesi.

Gli occhi sulla pagina web dei cacciatori di teste si riaprirono dai sogni. Tornai a concentrarmi sulla email e finalmente mi decisi ad aprirla.

“New position: London – please contact us asap”

Null’altro. Nè cosa, nè dove, nè quando. Così, un po’ deluso risposi svogliatamente e lasciai i miei riferimenti, quasi meccanicamente, come avevo già fatto altre volte per l’invio del mio curriculum ad altre società. Non ci pensai più fino ad una settimana esatta dopo la risposta.

Ottobre

Il bello di questa storia è che tutto è capitato inaspettato, quasi piovuto dal cielo quando anche la più remota speranza era caduta, come le foglie in autunno. Il secondo giorno di questa storia fu protagonista una telefonata.

Ero in un riunione. Avvicinandosi la scadenza di rilascio del progetto, le riunioni erano diventate più rare e con sempre meno persone che partecipavano: c’era da fare, non si poteva perdere tempo. Solo i “grandi” vi partecipavano. Gli altri lavoravano. Tra i primi spettatori c’erano coloro che rischiavano di perdere una poltrona nel caso in cui il progetto non andasse in porto. Gli stessi che per abitudine non accettavano mai gli inviti alle riunioni, nel caso qualche impegno più importante li tenesse occupati (ma quale impegno poi?), qui erano i primi a sollecitarle, a fare domande, a tergiversare sulle colpe dei ritardi, a dire e non dire se una parte di progetto veniva rilasciata nella prima fase o nella seconda o nella terza. Di fronte a loro sedevano i carnefici, coloro che guardavano di sottecchi, con gli occhiali abbassati sul naso e gli occhi sfuggenti, mormorando parole come “ritardo”, “non si fa”, “non ci stiamo”... deponendone una ogni tanto, con il ritmo cruento di un gong che ad uno ad uno suona i rintocchi delle campane a morte.

Uscii dalla saletta dove si respirava odore d’incenso e oli per ungere i defunti. Respirai a pieni polmoni e ascoltai silenzioso il mio interlocutore che mi spiegava per filo e per segno di quale posizione si trattasse. Cominciarono a spuntare le ali ai piedi ed io con loro iniziai a volare verso Londra, a sognare un nuovo lavoro, nuovi colleghi, un nuovo ambiente dove poter ricominciare, senza quel fardello che ultimamente stava diventando opprimente. Mi stavano fissando un colloquio... oddio una penna! Fermai il primo collega che passava e segnai sulla mano data, ora e luogo del colloquio. Fosse stata una collega, forse l’avrei baciata dalla felicità.

Mi precipitai da Pericle e lo implorai di uscire a bere un caffè. Dovevo parlarne con qualcuno. Mia moglie non poteva ascoltarmi: quella mattina era in ospedale per alcuni controlli. Dovevo parlare, dovevo esprimere a qualcuno la mia felicità. Pericle era l’unica persona fidata.

Il primo colloquio fu a Milano. Per caso la società era il partner con il quale stavo lavorando al mio progetto. Per caso uno dei dirigenti della società si trovava per lavoro in Italia. Per caso sapevo che il contratto con tale società contemplava una clausola per la non distrazione reciproca del personale. Le cose erano complicate, ma a me questo non spaventava. Uscii a cena con questo dirigente: ci piacemmo subito. Lui era una persona abbastanza spiccia e schietta come lo sono io. I nostri obiettivi si incontravano. La mia esperienza serviva loro. Forse la mia richiesta economica era più alta di quello che avevano in mente, ma si sarebbe visto in futuro. Il prossimo passo sarebbe stato andare a Londra a fare un colloquio.

Da quanto tempo non andavo a Londra? Un mucchio. L’immagine del bus a due piani rosso con la scritta enorme “EMPLOYEED” mi venne in mente e scoppiai a ridere per la mia stupidaggine: a volte la felicità fa dei brutti scherzi...

Quando tornai a casa mia moglie mi aspettava sveglia, a letto. Entrai in camera e vidi il suo viso sottile trasformarsi in un grosso punto interrogativo. Il “Ciao” le morì in bocca. Non aveva il coraggio di chiedermi nulla e così anticipai qualsiasi sofferta domanda: “Vado a parlare a Londra con i capi”. Non sono sicuro di quello che le passò negli occhi. Non sono sicuro se fu un lampo di tristezza o di felicità, perchè in fondo tra di noi molte cose erano cambiate e negli ultimi tempi non riuscivo ad interpretare sempre il suo stato d’animo. Qualunque sentimento fosse stato era perfettamente credibile: tristezza per un marito che va a lavorare via, felicità per il raggiungimento di una piccola tappa nell’obiettivo che mi ero dato. Se fosse triste per sé e per noi o felice per me non so. Ci abbracciammo senza dire nulla e prima di coricarmi al suo fianco passai dalla cameretta di Sofia. Avrei dovuto dirglielo prima o poi e quella sarebbe stata la parte più difficile.

Verso fine ottobre mi fu fissato il colloquio a Londra. Presi un giorno di ferie e mi recai di mattino presto in aeroporto. Era dai tempi dell’ultima fusione, quella che aveva portato ciò che scherzosamente chiamavano “la calata dei barbari francesi” , che non andavo all’estero. Quella mattina mi infilai in una fila di sedili grigi e verdi, mi sedetti vicino al finestrino e mi addormentai dopo aver spento il cellulare.

La Londra fuligginosa di smog mi accolse come fosse stato ieri che l’avevo lasciata l’ultima volta. Sembrava un’amante che non abbandona il letto dove hai fatto l’amore e ti aspetta lì per ricominciare. Eppure la Londra che avevo di fronte sembrava sciatta e sporca, meno attraente di quando c’ero stato l’ultima volta in estate. Presi il metro fino a destinazione e mi ritrovai nell’ingresso che, se fossi stato assunto, avrei conosciuto nel tempo sempre meglio. Sorrisi alla receptionist, pensando che nel giro di qualche mese avrei potuto vederla e sorriderle ogni giorno e lei mi chiese gentilmente di aspettare che l’assistente del direttore del personale scendesse a prendermi. Non mancò molto e una dolce signorina orientale vestita in un tailleur grigio antracite mi invitò a seguirla nei dieci piani di palazzo dove la società brulicava di dipendenti. Fui portato innanzi alla Corte che avrebbe deciso il mio destino ed in realtà la regalità si sciolse quando l’assistente lasciò la stanza ed il direttore si rivelò un uomo cordiale ed affabile. Un’ora. Chiacchiere, curriculum e speranze. Sogni e aspettative si intrecciarono alle esigenze di quell’uomo, che aveva una visione molto chiara del suo lavoro e sapeva esattamente cosa poteva servirgli. Mi rivelai il pezzo mancante del puzzle che stava costruendo e me lo disse in modo assolutamente schietto: “Trattiamo l’offerta”.

Uscii dalla stanza con ali molto più grandi e telefonai subito a mia moglie. “E’ fatta, Cri!” le dissi e il mio entusiasmo fu smorzato soltanto dal non poter vedere il suo volto per interpretare il suo stato d’animo in quel momento. Oramai annegavo nei progetti di vita fuori dal mio solito mondo e mi proiettavo in un futuro che finalmente sapeva di gocce di felicità.

Novembre

Dopo qualche giorno dal colloquio mi ricontattò il cacciatore di teste. Fu come un pezzo di cielo che si stacca e ti crolla addosso quando pensi che al tuo dito manchi poco per sfiorarlo e rubarlo per sempre. “La società non accetta la sua proposta economica”. Queste le sole fredde parole di una mail, che conservo ancora a monito di quanto le cose possano cambiare all’improvviso. Quello era il mio prezzo. Quello era il mio valore... cosa voleva dire? Che non valevo abbastanza? Cosa pensavano? Che io potessi trasferirmi a Londra, vivere da solo, tornare quasi ogni weekend a casa da mia moglie e mia figlia sopportando in primis i costi?

Qualcuno mi fece una domanda impertinente. Perchè lo fai? Per allontanarti dalla tua famiglia? Per trovare davvero soddisfazione nel lavoro?

A quella domanda pensai molto in quei giorni. Dovevo dare una risposta al mio cacciatore di teste, che non voleva solo la mia testa: mi stava chiedendo l’anima.

Perchè lo facevo? Non amavo più mia moglie e quello era forse il modo più pulito di chiudere tra di noi, scegliendo di vivere ognuno la propria vita lontano dall’altro? Io avrei potuto ricominciare: una vita da un’altra parte, un’altra casa, un altro lavoro. E nel frattempo avrei potuto mantenere mia moglie e mia figlia. Era questo? Una banale scelta di comodo che non tutti possono permettersi?

Mi guardai un giorno allo specchio, negli occhi, cercando la risposta più sincera che la mia anima potesse rimandarmi e fu violenta. Fu la violenza di un “Io amo mia moglie e mia figlia e lo faccio per loro”. Schizzò sulle pareti del bagno come sangue da una ferita profonda ed io stesso mi sentii ferito dentro di me per averne forse dubitato un attimo. Facevo tutto questo per loro: accettavo di cambiare città e lavoro nel pieno dei miei anni per poter portare a loro di più, per poter un giorno tornare in Italia e sapere di aver dato il massimo che potevo in quegli anni. Sarebbero stati anni bui, tristi. Sapevo che avrei lavorato come un pazzo fino a sera tardi, perchè comunque non avevo nè festicciole di compleanno alle quali accompagnare Sofia, nè incontri a scuola che mi potessero distrarre. Sarei rincasato tardi e avrei cenato da solo. Sarei andato a dormire senza fare nulla la sera, per poi ricominciare il giorno dopo. Per un giorno, un mese, un anno. Non importava il tempo. Lo avrei fatto per tutto il tempo necessario a riguadagnare la stima che forse un po’ avevo perso ai miei occhi più che ai loro. E insieme a loro forse avrei salvato anche me e la dignità che credevo di avere perso negli ultimi anni di lavoro.

Contattai il cacciatore. Gli confermai che potevo scendere. Gli diedi un tetto massimo e nel giro di due giorni mi richiamò. C’è l’accordo. Unico punto da sistemare: la clausola contrattuale che io stesso avevo trattato e che mi impediva di licenziarmi per essere assunto da quella società, senza l’accordo dei miei responsabili.

A questo punto dovevo scegliere quando parlarne. Il passaggio in produzione era imminente. Dovevo aspettare e i miei nuovi responsabili erano d’accordo: il cliente innanzi tutto. Avevo il tempo di meditare la mia posizione, di posizionare ogni parola al suo posto per il colloquio con la responsabile del mio capo. Avevo deciso che sarei andato dritto a lei, perchè è da lei che erano mosse le prime promesse non mantenute.

Il giorno del passaggio in produzione non venne quando era stato prefissato. C’erano talmente tanti problemi che l’avevamo rinviato. Non mi sentivo più a mio agio nel mio castello solitario. Avevo un confidente, il buon vecchio Pericle, al quale confessavo i miei stati d’animo e che stavo ad ascoltare quando facevamo ipotesi sul modo di dirlo, sulle possibili reazioni, sugli scenari ipotizzabili.

Eppure non stavo più nella pelle. Oramai era come se fossi proiettato avanti, lontano dal mondo del mio quotidiano. Facevo progetti nei quali mi perdevo con la testa, cercavo di capire come affittare una casa, in quale quartiere, le spese che avrei affrontato. Cercavo di immaginarmi i sentimenti che avrei provato, le persone che mi sarebbero mancate e quelle che sarei stato contento di non vedere più, le persone nuove con le quali avrei lavorato, i posti che avrei visitato.

Non ero più a Milano, ero già via, tranne che per i momenti che passavo in famiglia. Quelli erano forse i più duri. Mi capitava a volte di soffermarmi sul volto di Sofia, mentre lei era seduta al tavolo e faceva i compiti e pensavo a quante volte quel viso mi sarebbe mancato e se ne avrei pianto. Pensavo alle recite, ai canti, ai giochi, ai colloqui con le maestre, alle gite nei parchi, alle sciate ed alle corse con i pattini. Quanto avrei perso? Sarei davvero riuscito a tornare ogni weekend e quanto di cinque giorni di vita io avrei potuto recuperare in due soli giorni?

Dicembre

Il progetto fu rinviato ancora un giorno in cui una forte nevicata ricoprì la città. Io ero lì in prima linea, con i fucili puntati contro in caso di errore , unica vittima da immolare in caso di fallimento. Quel giorno molti arrivarono in ritardo ma nel primo pomeriggio erano tutti lì ad ascoltare i numerosi problemi che ci portavano ad escludere un passaggio in produzione prima del 22 dicembre.

Avevamo finito da poco quando la responsabile del mio capo mi chiamò nel suo ufficio. Fu come un impulso improvviso che nasce deciso dentro di te e trova strada. Le parlai a cuore aperto. Le raccontai delle aspettative che avevo, delle promesse che mi aveva fatto e del modo in cui una per una esse erano state disattese. Le raccontai dell’opportunità che avevo e di come intendevo coglierla, con una decisione ed un impeto pronti a stroncare qualsiasi opposizione. Non ci fu opposizione, ma una resa incondizionata che quasi la portò a stringermi la mano per complimentarsi con me del mio successo. Era fatta, pensavo. Dovevamo decidere solo quando.

Non si ha idea a volte della perfidia e del fiuto perverso degli affari che hanno certe persone, se non quando ci sbatti il naso contro. La mia responsabile ed il direttore vollero condividere con il nostro amministratore delegato la scelta di rilasciarmi e a lui fu sottoposto il mio caso.

Fino a quel momento quella storia era stata solo mia e delle persone alle quale avevo scelto di raccontarla, perchè avevo bisogno di sfogarmi, perchè avevo bisogno di un consiglio, perchè erano parte in qualche modo della mia vita e volevo fossero parte, attiva o passiva, anche di quella mia decisione. Ebbene, da quel momento in poi quello fu “il caso” asettico di un dipendente che voleva licenziarsi per andare da un fornitore con il quale avevamo del business. Il dipendente non ero più io. Il fornitore non era più il mio futuro datore di lavoro. Il business non era più il mio progetto. Mi stava sfuggendo tutto dalle mani e non potevo farci nulla. Mi era stato chiesto di mantenere il giusto grado di riservatezza sulla questione, non avrei dovuto parlarne nemmeno con il mio capo.

I giorni passavano e non sapevo nulla. La responsabile era sfuggente, si capiva che quando la cercavo per chiederle un aggiornamento lei ne era infastidita. Stavo diventando un problema per lei, stavo diventando un possibile motivo perchè potesse essere attaccata, quindi dovevo starle alla larga e lasciare che avesse campo libero per agire nel suo interesse. Perchè il bello è che nella situazione estrema nella quale ci sono tutti contro tutti, ciascuno pensa ovviamente solo alle conseguenze che ogni piccolo evento avrà sul suo perimetro. Solo tra pochi desaparecidos come me si sentono telefonate nelle quali ci si fa i complimenti per un bel lavoro svolto o per una bella presentazione. Quelle sono solo piccole chicche di un mondo lavorativo ideale che so di non avere più qui, ma che spero di trovare lassù dove sto per trasferirmi.

Fu appena prima di Natale che la responsabile entrò nel mio ufficio e mi chiese di raggiungerla in una sala riunioni. La seguii. Poche parole: “trattiamo”. Mi crollò il mondo addosso. Pensai al peggio, pensai che volessero spingere la trattativa per la mia uscita fino a fare rinunciare la controparte. So che se avessero voluto, avrebbero potuto giocare scorretto e non me ne sarei meravigliato. In fondo, io ero quello che serviva a portare a fondo un progetto nel quale sia il cliente che il fornitore avevano tutto l’interesse a riuscire.
Me ne tirai fuori. Non volevo sapere come venivo trattato al pari di una merce di scambio. Non volevo conoscere il mio valore sul mercato, barattato con qualche giornata di supporto o qualche licenza. Le chiesi solo di dirmi quando fosse finita quella trattativa e pochi giorni dopo arrivò il responso: “abbiamo chiuso e esci a fine gennaio”.

Ero libero. Mi avevano sciolto le catene ed ora potevo volare. Potevo lasciare a terra il peso di quei due anni di sangue sputato amaramente e librarmi nelle speranze di un lavoro migliore, nonostante le difficoltà che si ponevano per raggiungere quell’obiettivo.

Natale era vicino. Lavoravo come un matto di giorno, non avevo previsto ferie perchè il progetto potesse essere portato a termine. Facevo tardi la sera e dovevo sorbirmi le frasi bastarde di incoraggiamento del mio capo, che alle nove di sera, dopo dodici ore che ero fisso al computer, insieme a tutti quelli del mio gruppo, si presentava gagliardo a dirci che dovevamo mettercela tutta e fare uno sforzo in più. Non è mai stato una bravo manager. Non è mai stato una manager. Un manager prova empatia per il suo gruppo, si fa riconoscere, ne è leader. Lui terrorizza i componenti del suo team al punto che non esce di bocca una frase che non sia validata e vistata. Io non ero abituato a vivere nel terrore, nè mi sono lasciato trascinare da lui: ho fatto sempre professionalmente il mio lavoro, senza piegarmi a nessun compromesso. Non l’avevo mai particolarmente apprezzato: a questo punto non lo seguivo più. Mi faceva quasi pena: era stato lasciato fuori dalla scelta di tenermi o lasciarmi andare. Non gli era stato chiesto nulla e non era stata informato nemmeno del fatto che mi stava perdendo. Un duro colpo all’orgoglio che solo una persona come lui, senza sentimenti almeno in apparenza, potrebbe reggere con la sua indifferenza. Eppure, per lui, spero che gli serva di lezione a comprendere quanto piccoli siamo e appaiamo agli occhi di chi è più in alto di noi.

Appena prima di Natale la notizia si diffuse come un boomerang. Avrei voluto sussurrarla io alle persone alle quali avevo “voluto bene”, a quelle che mi avevano supportato, sopportato, aiutato o che io avevo aiutato a crescere. Invece no, fu un pettegolezzo da palazzo che si diffuse la vigilia di Natale “dal Manzanarre al Reno”. Non importa come lo seppi. Mi spiacque e basta.

Natale lo passai con la mia famiglia. Mia moglie e mia figlia. Le uniche due persone che valeva la pena avere affianco in quel momento, le uniche che volevo sostenere finchè potevo. Forse nessuno di noi si era reso conto fino ad ora di cosa volesse dire questa avventura e nemmeno adesso che sto raccontando quel che ho vissuto io stesso me ne posso rendere conto. Fu una bella sera, quella di Natale, talmente bella che vale la pena che resti chiusa tra le quattro pareti del cuore di chi c’era.

Gennaio

Il mese di Gennaio fu un inferno. Oramai tutte le persone che lavoravano con me sapevano della mia scelta. Non so se fosse per invidia o per rabbia, ma mi trattavano come qualcuno che appositamente faceva delle cose sbagliate. Pensavano non me ne fregasse più nulla del lavoro e non si rendevano conto invece di quanto in realtà io ci tenessi a lasciare le cose ben spolverate, riposte sugli scaffali, in ordine per chi mi avrebbe seguito.

Avevo ripreso i periodici caffè con il mio amico Pericle, la mattina, quando arrivavo a Milano, ma eravamo oramai in due sedi diverse, perchè la società si stava trasferendo e potevo contare sempre meno sulla sua spalla per piangere. Così il caffè della mattina era l’unico momento della giornata nel quale mi sentivo un po’ a casa, un po’ protetto. Per il resto ero nell’arena e dovevo balzare da una parte all’altra per non essere infilzato dalle corna dei tori.

A parte il lavoro il resto era una frenesia unica: documenti, ricerca della casa, visti, elenchi di cose da fare e da portare. Con la colonna sonora della tristezza che suonava il silenzio come nelle caserme.
Io non c’ero con la testa. Credo di essermi assentato di frequente in quei giorni. Mi capitava di fermarmi e scoprire che stavo cercando di immagazzinare più ricordi possibili: fotografavo i visi, registravo le voci, segnavo i sorrisi nel cuore. Non sapevo se e dopo quanto tempo avrei rivisto quei volti, ma ero certo che sarebbero stati il mio pane quotidiano soprattutto nei primi giorni.

E più di tutti cercavo di godere la mia famiglia, mia moglie che sembrava indurire il cuore sempre di più per non soffrire e non farmi capire che soffriva; mia figlia che giocava a fare l’indifferente con le lacrime che riusciva a trattenere con una encomiabile forza di volontà. Era stata fin troppo brava nei mesi passati ad alleggerirmi del peso di questa decisione: forse le sembrava quasi un gioco, un nascondino dove il papà non c’è per un po’ e poi salta regolarmente fuori il weekend.

Lungo il fiume

Adesso sono qui in aeroporto. Ho passato tutti i controlli e sono da solo. Le immagini che ho immagazzinato iniziano a scorrere, nel cuore non sento niente, forse perchè sto tenendo a freno tutta la potenza emotiva che c’è in me. Credo di temere il momento nel quale scoppierà perchè sarà davvero violenta. Hanno chiamato il volo. Pronti al gate. Il numero 16. Si dice che il 16 porta fortuna, giusto? Ne ho bisogno... entro nel tunnel che mi porta all’aereo. Non ho bagaglio per me, l’ho caricato tutto nella stiva. Ho solo una piccola borsa con dentro alcune foto che Sofia ha voluto darmi senza mostrarmele prima. Erano chiuse in una busta con la scritta “Per papà” fuori. Era la sua calligrafia. Anche quella mi sarebbe mancata... Le guarderò appena seduto: la promessa era di guardarle in aereo, non prima.

Entro. Una hostess gentile mi fa strada al mio posto. Parla solo inglese e del resto l’aereo è della compagnia di bandiera inglese. Devo abituarmi, all’inglese intendo, anche se Londra è piena di immigrati italiani, mi dico. Sorrido al pensiero di definirmi “immigrato”. Tanti anni fa, mezzo secolo fa, sarei stato un “immigrato”. Adesso posso definirmi con orgoglio un “lavoratore comunitario”, anche se la Gran Bretagna fa un po’ le bizze con la Comunità Europea. Mi guardo in giro. Ci sono tanti uomini con la valigetta. Io ho la mia borsetta con i documenti principali che mi servono per cominciare ed un piccolo lettore mp3. Oltre alle foto di Sofia... ovviamente.

Mi siedo, allaccio la cintura e apro la borsa. Chissà se Sofia mi starà pensando adesso. “Piccola, sto aprendo le foto...”. Sono varie fotografie, nove, una per ogni anno di vita di Sofia. Le guardo una per una, ricordo i momenti nei quali le ho scattate: appena allattata, i primi passi, la festa dell’asilo nido, il primo giorno di scuola materna, il primo dentino che cade, la festa dei remigini, il quaderno di scuola, un’estate al mare e l’ultimo Natale. Dietro ognuna una frase, sempre la stessa “Ti voglio bene. Pensami, papà. Sofia”. Mi soffermo e trattengo le lacrime. Mi rende tutto più facile la partenza dell’aereo. Metto via le foto, chiudo la borsa, attacco la mia musica. Scelgo “Airplanes”, la canticchio per distrarmi, mi addormento un po’.

Il messaggio del capitano all’arrivo mi risveglia dal torpore. Sono arrivato. Comincia qui la mia avventura. Quando esco dall’aereo e mi infilo nel tunnel mi sembra di non essere mai partito nè arrivato. Passo a prendere il mio bagaglio. Esco e il freddo pungente mi prende alla gola. La fuliggine intorno mi fa tossire.
Sono a Londra, ma il mio arrivo è solo il punto di partenza.

Un mio vecchio capo mi diceva sempre “Sto qui seduto in riva al fiume ad aspettare che passino i cadaveri”. Io non ce l’ho fatta a rimanere fermo a guardare. Ho passeggiato lungo il fiume ed alla fine ho deciso di attraversarlo a nuoto. Ci metterò tutte le mie forze e non mi importa se le acque saranno mosse o fredde: io sono sicuro di farcela, perchè so di non essere qui da solo.

E so di farcela perchè questa è la città dei sogni, la città dei miei sogni... 

Can we pretend that airplanes
in the night sky
are like shooting stars
I can really use a wish right now
(wish right now)
(wish right now).

Nessun commento:

Posta un commento