domenica 21 novembre 2010

Verso l'isola che non c'è - Epilogo

Non sapeva quanto tempo fosse passato dal giorno del naufragio. All'inizio aveva tenuto il conto segnando delle tacche su un albero. Poi non ne vedeva più il senso: a lui non era mai importato il tempo. Perciò aveva smesso.
Non c'era molto da fare sull'isola, così a volte si dilettava a intagliare pezzi di legno trovati in spiaggia, a volte si sedeva in riva al mare a guardare l'orizzonte.
Anche per il mangiare aveva imparato ad arrangiarsi: aveva ancora una piccola scorta di barattoli tra carne, tonno e legumi ed ogni tanto gareggiava con se stesso ad acchiappare pesciolini da cuocere sulla brace.
Non gli importava di vivere o sopravvivere. In qualche modo gli era stato offerto un dono eccezionale: quello di avere tutto il tempo per pensare e analizzare la sua vita, recuperando ricordi ed emozioni, spolpandoli di tutto ciò che erano i sentimenti effimeri e riconoscendo le persone che erano state davvero importanti per lui, tra le mille che gli si erano affaccendate intorno.

Una mattina il sole era già alto nel cielo. Lui era fermo sulla spiaggia, con in mano una matita ed un foglio, dove aveva iniziato a disegnare il volto dei suoi figli, così come lo ricordava dentro di sè. Aveva iniziato qualche giorno prima quando si era lasciato prendere dal panico per il fatto di non ricordare bene alcuni particolari dei loro occhi ed il terrore di non riuscire più a visualizzare nella mente i loro volti aveva fatto il resto.
Ogni tanto alzava gli occhi tra il cielo e l'orizzonte dove questo lambiva il mare e fu in uno di questi momenti che la vide. Era una imbarcazione piuttosto grossa, di quelle turistiche. Dopo un po' iniziò anche a percepire un suono che doveva essere una musica a bordo. Si alzò per guardare meglio. Cercò di intuire le distanze, ma non era mai stato bravo nelle cose pratiche e la distanza tra i suoi piedi ed il primo braccio che avrebbe potuto afferrare potevano essere dieci chilometri o cento. Non aveva davvero il senso di quella misura. Si sentiva eccitato al pensiero che quella sua disavventura potesse avere fine, ma allo stesso tempo iniziò a distinguere nel suo animo un po’ di paura. Erano sintomi inconfondibili, soprattutto dopo che per così tanto tempo aveva imparato a conoscere ogni centrimetro di sè, fisico ma soprattutto spirituale, ogni fremito, ogni bisogno, ogni variazione di umore. Era naturale, stando da solo, aver imparato a distinguere ogni battito del proprio cuore. Solo che la conoscenza raggiunta fino ad allora non gli faceva distinguere se gli faceva paura la paura in sé o il fatto di avere paura. Così saltellava da un piede ad un altro, sempre fermo allo stesso posto, cercando di guardare meglio l’orizzonte.
All’improvviso si decise e corse nella capanna a cercare i razzi S.O.S.. Era sicuro di averli visti. Iniziò a rovistare velocemente tra le casse e finalmente ne trovò uno. Guardò intorno e dentro altre casse, ma sembrava esserci solo un razzo. Doveva stare attento, perchè non poteva sprecarlo. Lesse con accortezza le istruzioni e si portò in spiaggia per spararlo, sperando che funzionasse e che gli consentisse di essere visto.
Successe qualcosa nel tragitto tra la capanna e la spiaggia. Gabriele era uscito fuori con il razzo in mano e si era posizionato sul bagnasciuga. Aveva notato che la barca era più vicina. Sembrava incredibilmente vicina, molto più di prima e dentro di sè era sicuro che bastasse accendere quel razzo, perchè tutto finisse e lui potesse rientrare nel mondo civile. Forse fu quel pensiero ad instillare in lui i ricordi della partenza, della solitudine che aveva lasciato. Le immagini dei suoi ultimi giorni nel mondo comune si erano staccate da lui appena la sua barca aveva salpato ed ora gli si stavano riappiccicando alla memoria, ma sentiva di non volerle. Non più.
Se c’era una cosa che in quel periodo era cresciuta in lui, quella era il desiderio di concedersi soltanto a ciò che era importante. Di importante per lui erano rimasti soltanto i suoi figli e sapeva, dentro di sé, che sarebbero stati male per la sua assenza, certo, sarebbero stati malissimo. Eppure dopo un po’ avrebbero iniziato a vivere quella assenza come qualcosa di naturale, con meno dolore, con meno sofferenza. Tornare voleva dire costringerli a dividersi nuovamente. Non tornare voleva dire consentire loro di ritrovare l’unità del cuore, vivendo in un solo posto, avendo una sola camera dove dormire, una sola casa dove abitare, una sola famiglia da amare.
Non ci pensò più su. Alzò il braccio  e tirò il razzo in mare, più lontano che poté. Poi tornò un attimo nella capanna. Afferrò le tre lettere che aveva scritto, le mise in tre bottiglie diverse, le chiuse con un tappo di sughero e corse di nuovo a riva per gettarle, anch’esse lontano da sé, quasi come se volesse prendere le distanze da tutto quello che era e non sarebbe stato mai più.
Quindi si sedette sulla riva e osservò la barca sparire lentamente all’orizzonte.
La realtà è che Gabriele non fu mai ritrovato, perciò ad oggi io non so se quest’uomo sia ancora vivo oppure no. A me piace pensare che lui sia da qualche parte nell’Atlantico ed abbia raggiunto un suo equilibrio e che nella sua solitudine abbia raggiunto la serenità e la felicità che meritava.

A lui dedico questa storia, con la presunzione che un giorno qualcuno possa raccontargliela e lui abbia voglia di conoscermi per correggerla dove è sbagliata.

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