Quando Alice si svegliò, tardò ad aprire gli occhi, quasi come se avesse paura di trovarsi ancora nella sua piccola camera di Milano ed il suo sogno potesse svanire. Le ciglia delle palpebre si schiusero leggermente. La fresca luce che illuminava la camera le confermarono che non era nell’ambiente cupo e giallognolo della sua camera, al quale era oramai abituata. Così, più decisa aprì gli occhi e si rilassò. Si stiracchiò tra le lenzuola bianche di cotone fresco di marsiglia e affondò la faccia sul cuscino. Pensava di poter essere finalmente felice lì, di una felicità che nessuno le avrebbe potuto togliere.
All’improvviso si ricordò che non era lì in vacanza, ma si era impegnata per un lavoro. Guardò l’orologio e si rese conto che erano le sette: entro le sette e un quarto Elvira le aveva chiesto di essere giù, per prepararsi a ricevere gli ospiti per la colazione. Si levò in fretta, si fece una doccia veloce, badando bene di non bagnarsi i capelli, si vestì con la divisa che le aveva consegnato Elvira la sera prima e scese giù. Appena arrivata vide che c’era un gran fermento nel lounge dove si servivano le colazioni. Entrò timidamente nella sala e un signore che intuì essere il maître la accolse un po’ rudemente con un:
- Su su, è tardi signorina... se fa così il primo giorno... muoversi muoversi, lo chef la sta aspettando in cucina.
Alice rispose bonfonchiando un
- Mi scusi signore, condito con un po’ di rossore sulle guance e poi continuò - Cosa devo fare?
Il maître le rispose:
- Vada in cucina e la capocameriera le darà le istruzioni. Forza forza non c’è il tempo di dormire qui. Tra cinque minuti apriamo! – e tra sè: - Gesù Gesù queste giovani d’oggi tutte uguali!
Ad Alice quell’uomo ricordava il padrone di un circo, che si preoccupa, appena prima dello spettacolo, che gli animali siano sedati e gli artisti pronti per le loro esibizioni. Non c’è stanchezza, non c’è malattia che tenga: ogni sera tutti sullo stesso palco a ripetere lo stesso numero e guai! Dico guai! Se qualcosa non torna: sono frustate! Così corse verso quella che sembrava essere la porta della cucina.
La porta era una di quelle a spinta, tipo saloon, di quelle che vanno e vengono e se non stai attento te le ritrovi sulla schiena appena sei passato. Alice entrò di corsa e proprio nell’istante in cui la sua mano spingeva l’anta di sinistra per entrare in cucina e presentarsi alla capocuoca, lo chef in persona stava uscendo dallo stesso lato della porta, per portare sulla tavola delle briosche la torta di compleanno creata appositamente per la piccola Eleonora, ospite d’onore per quel giorno al Latt’ e Liett’. La porta spinse proprio nel punto in cui la mano dello chef, ad un’altezza tra il petto ed il suo viso raggiante, poggiava sul vassoio. La spinta generò una forza in direzione del corpo dell’uomo, che si ritrovò spiaccicata sulla sua faccia rubiconda tutta la panna che aveva appena finito di montare e sprizzare sulla torta. Il suo sorriso si trasformò dapprima in un ghigno e subito dopo in una smorfia, seguita da un urlo: “Chi deve ancora imparare che si cammina a destra, come si guida un’automobile? Toglietemelo di torno sennò lo licenzio subito!”
Di fronte alle urla il maître si preoccupò di chiedere scusa agli ospiti che iniziavano ad arrivare, intanto che chiudeva la porta del lounge. Di corsa si avvicinò allo chef, andando dietro di lui mentre questi passeggiava inquieto avanti e indietro per la sua cucina. Il maître cercava di calmarlo, mentre il cuoco continuava a bestemmiare contro la piccola Alice, che si era seduta ad un tavolino tutta sola a piangere, pensando al disastro che aveva combinato.
Sentendo tutto il frastuono dalla cucina, zia Elvira si precipitò dalla reception.
- O’maronna mia – furono le sue parole quando vide la torta a terra, lo chef completamente sporco di panna che andava su e giù per la cucina, seguito dal maître che gli continuava a battere pacche sulla spalla nel tentativo di calmarlo ed Alice in un angolo appena fuori dalla cucina che piangeva
- Sbattila fuori sennò me ne vado io! – urlò lo chef a zia Elvira, continuando ad indicare con tutti e due gli indici delle mani la piccola Alice
- Calma Gaetà, calma. La piccirella è al suo primo giorno.
- E sarà anche l’ultimo! Me ne fotto, Elvì. Questo è il mio regno. Nisciun’ comanda’mme. Cacciala via!
Zia Elvira prese Alice per le mani e la trascinò alla reception. La fece entrare in un piccolo stanzino fuori portata delle occhiatacce che i clienti le avevano riservato, dopo che il cuoco l’aveva indicata a vista come colpevole di non si sapeva bene quale infamante reato.
Alice continuava a piangere. Singhiozzava così forte che Elvira non sapeva come fermarla.
- Su su, Alice. Gaetano è un testone. Sai come sono fatti gli chef... Dai, ti cerco un altro lavoro da fare, non ti preoccupare. In cucina si arrangeranno anche senza di te!
- Ma la torta? Ommioddio che ho fatto... che stupida!
- La torta l’andiamo a comprare al panificio qui vicino e alla piccola faremo un bel regalo di consolazione. Vedrai che ci compriamo il suo silenzio... dai!
Era dolce zia Elvira. Una dolcezza che in sua madre non aveva mai conosciuto. La vecchia Gabri... Da quando era arrivata a Napoli erano successe talmente tante cose che non aveva pensato più a lei. Beh, sì forse un pochino la sera prima di addormentarsi, ma le era sembrato naturale, visto che era la prima notte che passava fuori casa. E comunque all’improvviso la donna che aveva di fronte le aveva richiamato alla mente sua madre, per contrappasso: la dolcezza contro tutto ciò che di negativo Gabri poteva rappresentare per lei. Oh no! Non sarebbe tornata indietro nemmeno morta! Sapeva che stava dando ai suoi genitori un grosso dolore, ma lei era finalmente felice laggiù, nella bella Napoli. Proprio come nei suoi sogni. Eh sì, magari un giorno avrebbe anche potuto andare a vedere Sorrento! L’idea un po’ la consolò e si trovò a sorridere a zia Elvira. Si asciugò le lacrime e le disse:
- Posso aiutarla alla reception, magari combino meno guai...
- Eh ma io avevo bisogno proprio in cucina... vabbè mo’ ci pensiamo. Vuoi andare a fare la spesa? Chiamo Angelo, così viene con il furgone. Vieni che ti dò la lista. – e si mosse verso la reception, seguita da Alice - La stavo preparando proprio adesso... dov’è? Uh Gesù.. che testa, non la trovo... Era qui?!
- E’ qui, guardi, sotto la sedia!
- Brava Alice! Ecco. Allora questa è la lista, questo è il telefono di Angelo. Per le dieci e mezza tutta la spesa deve essere in cucina.
- Okay.. una cosa..
- Che c’è?
- Come pago?
- Ah i soldi... no, non ti preoccupare. Tu dì che ti mando io. C’ho il credito aperto. Quello Angelo lo sa. Va’ va’ che si fa tardi e poi Gaetano chi lo sente, mamma mia!
- Sì... ah Elvira...
- Che c’è?
- Grazie...
- E di che, piccirella? Vai va’...
Mentre Alice stava andando via, zia Elvira le disse:
- Ah Alice. Poi quando torni mi dai i tuoi documenti così facciamo tutte le denunce che si devono fare... parlo con il commercialista mentre sei via e magari lo faccio passare alle undici, va bene?
Alice ghiacciò. Documenti? Denuncia? Mio Dio, lei aveva solo quindici anni. Non sapeva nemmeno se avrebbe potuto lavorare, ma di sicuro era scappata di casa. Non poteva dare i suoi documenti a nessuno. Doveva inventarsi di esserseli dimenticati a Milano? Doveva sparare ancora una balla a quelle due splendide persone che aveva incontrato? O doveva dire la verità? E Angelo come avrebbe reagito? Lui era convinto che lei avesse diciotto anni, che fosse una ragazza con la testa sulle spalle... Mio Dio, perchè le andava sempre tutto storto?
- Alice? Alice? ... Alice ti senti bene?
Non ebbe nemmeno il tempo di ragionare. Si vide salire di corsa le scale, tornare nella sua stanza, prendere le sue cose e tornare giù, uscendo di corsa dal piccolo bed & breakfast dove aveva creduto di sognare. Con la coda dell’occhio vide zia Elvira che la rincorreva e la sentì pregarla di restare. No, nemmeno lì sarebbe stata felice. Da nessuna parte sarebbe mai stata felice. Non avrebbe mai potuto esserlo. Lei era destinata a soffrire e basta. Ovunque fosse andata, sarebbe stata punita per qualche colpa non meglio definita. E un domani non molto lontano, si sarebbe trovata come sua madre, vecchia ed ubriacona a camminare su un davanzale a chiedersi se il dolore dentro era diventato tanto insopportabile da spingerla a buttarsi giù.
Corse per strada. Le orecchie tappate e le lacrime agli occhi.
Corse verso il mare, verso Corso Acton ed il molo Beverello, si addentrò verso il parcheggio fermandosi a vedere qualche bancherella. Gli occhiali da sole coprivano le lacrime ed il moccio si legava ad esse. Ma non se ne importava e se lo asciugava di tanto in tanto portandosi il braccio sul naso e facendolo scivolare finchè la sua mano non si bagnava anch’essa dei suoi umori.
Si sedette su un muretto e cominciò a guardarsi le gambe che trotterellavano a penzoloni in su e giù. Si mordicchiava le labbra, mentre il sole le scaldava un po’ il cuore freddo. Il calore pian piano asciugò le lacrime ed il dolore. Dentro faceva male. Dio! se faceva male. Pensava di non aver mai sofferto così tanto, ma mai aveva sofferto per un sogno infranto. Dunque era quello che si provava. Forse era quello che sua madre provava. Forse Gabri aveva altri sogni ed una figlia come lei sicuramente non era quello che poteva definirsi un sogno. Forse era tutta colpa sua... ed ora non stava facendo altro che aggravare quella situazione, aggiungendo dolore al dolore. Eppure, una parte di lei non voleva pensarci e distoglieva i ricordi per concentrarsi sul suo presente.
Non sapeva da quanto tempo fosse ferma, quando decise di scendere dal muretto. Quando scese giù le girò un po’ la testa. Si rese conto che la mattina per la fretta non aveva nemmeno fatto colazione. Contò i soldi in tasca e si diresse verso la stazione del Metrò. Studiò con calma la piantina, comprò un biglietto e si portò sulla banchina d’attesa. Dopo un po’ il Metrò arrivò, ma l’istinto fu ancora una volta più forte di lei: non riuscì a salire, nonostante la gente la spintonasse per passare. Rimase ferma. Vide le porte chiudersi, i vagoni scorrerle davanti, mente una leggera brezza le scompigliava i capelli raccolti. Si girò e salì per le scale mobili.
Appena salita in superficie cercò un telefono pubblico dal quale chiamare.
Fu un’impresa e girò più di venti minuti prima di trovarne uno funzionante.
Digitò i numeri uno dopo l’altro.
Dopo una decina di squilli che le sembrarono un’eternità, una voce familiare rispose dall’altra parte:
- Pronto?
Alice non riusciva a parlare. Aveva ripreso a piangere mentre quei “pronto?” volavano nell’aria. Tentava di smorzare i singhiozzi deglutendo a forza, ma non ci riusciva. Le lacrime continuavano ad offuscarle il viso. Alla fine inspirò tutta l’aria che poté nei polmoni, trattenne il respiro per qualche secondo e tra i “pronto?” che urlavano dalla cornetta si intrufolò sottovoce dicendo:
- Sono Alice. Mi vieni a prendere?
E chissà chi ha chiamato... Certo se fosse stata una interurbana a Milano, quanti gettoni gli beccava? Mah, roba dell'altro millennio....
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