domenica 29 agosto 2010

Tira un gran vento oggi

Tira un gran vento oggi. Mentre cammino per le strade della città in cui sono sempre vissuto, mi copro un po’ di più col bavero. Dio… sono un clichè cinematografico: impermeabile, panama in testa, pantaloni con la piega e mocassini. Il tutto completato da una sigaretta ormai finita in bocca. Tutto l’abbigliamento è rigorosamente nero, ad eccezione dell’impermeabile, che è marrone chiaro, quasi beige.
Mi fermo davanti alla casa di colui che mi ha chiamato appena dieci minuti fa. Sembrava sconvolto, è riuscito solo ad invitarmi a casa sua. Ma avevo già capito che non era un invito così, tanto per ritrovarsi. Era successo qualcosa; potevo ben intuire cosa.
Salgo fino al terzo piano del palazzo in cui abita: il portone d’ingresso è sempre aperto per me grazie alla simpatica signora del piano terra. Ormai sono quasi di famiglia, per lei. Prima di salire le scale, spengo il mozzicone gettandolo a terra.
Arrivo davanti alla porta del suo appartamento. Busso e dopo qualche secondo la porta si apre. È lui, mi aspettava. Indossa un paio di pantaloni di sicuro non stirati e una camicia a righe, con le maniche tirate su fino al gomito. Ha gli occhi rossi, quasi sicuramente per il pianto.
I soliti convenevoli: “Ciao”, “come va”, “tutto bene”… tutti inutili. So che non va bene, che c’è qualcosa che lo ha profondamente scosso. Mi fa entrare, dopodiché si siede subito al tavolo, dove posso vedere un bicchiere vuoto, con accanto una bottiglia piena per tre quarti. Leggendo l’etichetta scopro che è gin. Guardo l’orologio che ho al polso: 11.37. Andiamo proprio bene.
Mi tolgo l’impermeabile, lo piego e lo appoggio sullo schienale della sedia di fronte a quella su cui si è seduto il mio migliore amico che ora non riesce nemmeno a parlare. Di solito non è molto loquace, ma ora è un silenzio diverso, pieno di rammarico, di tristezza. Un silenzio forzato, se vogliamo.
Appoggio il cappello sul tavolo e inizio a fare le domande di rito. Al “Cosa è successo”, mi guarda e inizia a parlare, come se un fiume di parole troppo a lungo trattenute non avesse più avuto un argine. Quello che sento non mi sconvolge, dato che avevo immaginato che si trattasse di questo. Alla fine l’aveva lasciata.
Dopo nove lunghi mesi di relazione, aveva lasciato la prima e, a detta sua, unica ragazza. Io non sento niente se non una forte tristezza. Maledetta empatia.
Ogni tanto si ferma, incapacitato di trovare altre parole ed è in questi momenti di silenzio che pongo le mie domande, per capire meglio. A detta sua, forse è stato un errore. “Un momento di panico”, dice lui. Io la penso diversamente.
Per sua natura, essendo un tipo schivo, un lupo solitario e che mette prima gli altri e poi sé stesso, non sarebbe mai riuscito a lasciarla, non per come li avevo visti solo qualche giorno prima. Se l’aveva fatto, vuol dire che lo voleva fare, niente scuse.
Continuiamo così, intervallando fiumi di parole a brevi scambi di domande, per un’ ora, un’ ora e mezza. Dopodichè devo andare. Mi dispiace lasciarlo così, ma dopo la nostra chiacchierata sembra stare un po’ meglio. Sto per rimettermi l’impermeabile quando lo vedo che rimugina qualcosa, e gli chiedo che cosa abbia.
-E se fosse veramente l’unica che dovrei avere, Tank?- Era da un secolo che non mi sentivo chiamare col mio soprannome.
Mi metto l’impermeabile e il panama. Tiro fuori dal pacchetto un'altra sigaretta e l’accendo in casa.
Faccio un lungo tiro, prima di rispondere.
-Io ti ho aiutato più che posso. Il resto spetta a te.- Non sembra molto convinto. Esco dall’appartamento senza salutarlo, non ce la farei a vederlo riprendere a piangere, o peggio, a bere.
Uscito dal palazzo mi dirigo verso l’altra parte della strada e scorgo con la coda dell’occhio una ragazza entrare nella stessa porta in cui sono appena uscito. A quanto pare la risposta alla sua domanda non tarderà ad arrivare.
Io tiro su il bavero dell’impermeabile e torno a camminare nel vento.

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