martedì 22 giugno 2010

Qualcosa di azzurro - Mercoledì mattina

Mercoledì mattina

Cosa è questo buio? Dove mi trovo? Ho freddo, perchè ho solo questa camicia addosso? Sono scalza, i piedi stanno toccando un pavimento umido, sarà terra, si sbriciola. Mi sto lentamente abituando all’oscurità. Sono in un bosco. Non sono sicura sia notte. Gli alberi sono alti e possenti. Le fronde sono molto fitte e non vedo che queste lunghe braccia tese verso l’alto che sembrano avere le mani aperte lì in alto, apposta per nascondere l’azzurro del cielo. Ho paura. Ho paura di tutto. Ho paura del vento che mi sfiora la pelle. Ho i capelli bagnati e quando una folata si scontra sul mio viso, il brivido dalla testa scende come una lancia sulla schiena e come un fulmine si scarica a terra. La pelle mi si è raggrinzita tutta e piccole goccioline d’umido solcano il viso e le braccia. O forse quelle sul viso sono lacrime? Ho paura di non vedere più l’azzurro del cielo. Sono rinchiusa all’aperto. Che contraddizione. Non so chi mi abbia portato qui.

Inizio a camminare nella foresta. I sassolini pungono la pelle o la solleticano a seconda che l’incavo del piede schiacci un lato appuntito o una dolce rotondità. I rami graffiano. Le foglie alleviano il dolore della camminata, ma nulla riscalda, nè il corpo, nè il cuore. All’improvviso vedo un grande sasso, un masso di circa un metro e mezzo d’altezza e sotto un piccolo fuoco. Mi avvicino. Salgo su e tendo le mani e i piedi verso il fuoco. Che strano. E’ un fuoco che non scalda. Illumina e basta.

Un rumore mi distrae. Qualcosa che sta strisciando ai miei piedi. Un brivido, stavolta di paura, mi percorre la schiena verso l’alto e quando arriva al cervello sprizza il terrore dagli occhi. Se avessi uno specchio davanti vedrei solo due occhi rosso fuoco che urlano ed una bocca ferma in un sorriso ghiacciato di orrore. Istintivamente appoggio una delle mie mani al masso, quasi per tenermi e non scivolare verso il falso fuoco dove sento qualcosa che striscia e la mia mano si appoggia su un morbido e umido pellame. Guardo inorridita e scopro di avere la mano sulla testa di un serpente dalla testa triangolare, ma la lascio lì. Sono immobile. Non devo muovermi. Il respiro rallenta sempre di più. I battiti del cuore frenano. Non sono me stessa quando la mano afferra la testa del serpente e la blocca. Porto quel trofeo davanti ai miei occhi ad una distanza di sicurezza e guardo quelle piccole fessure gialle e nere, cattive di veleno. Non so perchè, ma subito dopo, e lo racconto come se stessi vedendo un altro, davanti a me, che compie questo gesto, porto la testa del serpente sul mio polpaccio e lascio che la sua testa si scagli in avanti per mordere.

Il veleno entra in circolo. Piano. Lo sento mentre scorre nelle vene. E’ come quando bevi qualcosa di molto caldo, che senti una palla di fuoco scenderti piano nella gola, poi la senti nel petto e nel cuore finchè la sensazione di quel bollore si acquieta. Così sento come dell’alcool che inizia a viaggiare nel mio corpo. Dalla gamba verso l’alto, lo sento nella pancia, lo sento nel cuore e piano piano sale ramificandosi sul mio viso e quando arriva al cervello spegne gli occhi. Ecco, quel poco che vedevo ora non lo vedo più. Il buio torna totale, inizio a percepire le sensazioni di umido e freddo intorno a me. Mi viene naturale stendermi per terra, sopra un mucchio di foglie morbide e abbandonarmi, fino a che nel silenzio più profondo sento un trillo forte, che spacca i timpani e rimbomba nella mia testa come fossi all’interno di una campana.

Apro gli occhi. E' la sveglia che suona: sono le sei del mattino. Porca miseria era un sogno... che strano sogno però. Sono troppo tesa. Questo progetto mi sta prendendo troppo. Devo accelerare, non credo di poter resistere ancora a lungo nell’attesa, anche se sono cosciente che più curo i particolari più sono sicura di riuscire. Se non riesco ho perso la mia libertà: mi staranno tutti addosso. Se riesco invece quello che penseranno gli altri non sarà più un mio problema. Ma ora che faccio? Quella telefonata è un tarlo. E’ come un piccolo tarlo che mi chiede di darmi almeno una possibilità di non continuare. Prima che sia troppo tardi.

Prendo il cellulare. Solo stavolta, mi dico. Se non c’è basta, non provo più.

- Pronto, sono Stefano. Come ti chiami?
- Cerco Sonia.
- Come ti chiami?
- Ho detto che cerco Sonia.
- Sonia non so se viene oggi. So che ha avuto un problema a casa. Ma puoi dire a me lo stesso.
- No
- Perchè no? Dimmi almeno come ti chiami
- Stella.
- Posso passarti Melissa, se non ti va di parlare con me.
- No. Richiamerò ...magari ma anche no
- Stella? Non chiudere aspetta...

Click. Ma chi si credono di essere? Solo perchè li ho chiamati pensano di essere padroni della mia vita! Tanto non ci riuscite a farmi cambiare idea, io ho già deciso.

(continua)

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