mercoledì 26 maggio 2010

Nudo, foglie verdi e busto - Parte 1

25 marzo, Praga
Il maggiordomo bussò discretamente alla porta dello studio, e poi entrò fermandosi poco oltre la soglia con compita deferenza.
"Mi ha chiamato, Signore?" chiese con la consueta cantilena senza inflessione.
Sasha restò seduto sulla poltrona di pelle rossa collocata proprio nel mezzo del locale, e continuò a guardare fuori dalla finestra: all'esterno la mattinata di primavera incominciava a mostrare qualche colore in più oltre ai soliti bianco-neve e bruno-tronco-d'albero-spoglio. Alla varietà cromatica si erano aggiunti il verdolino della prima erbetta appena spuntata dalle nevi e l'azzurro tenue dei primi cieli non più velati da plumbee nubi cariche di elementi pronti a rovesciarsi di sotto.
"Hai già saputo, James?"
Gli piaceva chiamarlo James: per Sasha lui 'aveva' una faccia da James, non avrebbe dovuto chiamarsi in altro modo con una figura come la sua, alto e impettito come se avesse divorato un palo, ma al contempo armonioso ed elegante in tutte le sue movenze. Così lo chiamava James da quando aveva iniziato il suo servizio in quella casa. E poi il suo nome russo era francamente impronunciabile: molto meglio James.
"Purtroppo, Signore: me ne sono accorto io stesso."
"E chi altri ne è al corrente, oltre a te, James?" ribattè pensieroso Sasha.
"Ancora nessuno, ovviamente, Signore."
"Prepara subito una cassa, e manda le cornici al restauratore. Che nessuno però venga a sapere che sono vuote… Solo tu ed io."
"Sarà fatto, Signore. Mi permetto di farle notare che anche il Signor Restauratore ne verrà inevitabilmente a conoscenza, Signore."
"Hai ragione, James, ma con Abram ci parlo io. Adesso và, e lasciami solo con il mio dolore."
"Come desidera, Signore." Ed il maggiordomo, silenziosamente, uscì chiudendo dietro di sé la pesante porta di noce.

***
30 Aprile, New York
"Phil Jackson, buongiorno. Ho un appuntamento con Mark Moosley, il curatore dell'asta di martedì."
L'uomo, alto quasi due metri, incombeva sulla scrivania della receptionist: e dire che lì nell'atrio degli uffici newyorkesi di Christie's i personaggi importanti non erano una rarità. Ma quest'uomo era particolare: la sua competenza e la sua abilità ne facevano già di per sé un mito, ma vedendolo così di persona una ragazza veniva letteralmente scioccata dalla sua prestanza. Phil non si poteva considerare un uomo bello: era alto e grosso, il viso era eccessivamente lungo rispetto al normale, i suoi lineamenti erano spigolosi, ed i capelli iniziavano ormai a diradarsi sulla nuca; ma la cura con cui sceglieva gli abiti, e il portamento elegante innato gli conferivano quello strano fascino che hanno pochi uomini.
"La prego, si accomodi Dottor Jackson. Vedo che il Dottor Moosley è occupato al telefono, ma arriva immediatamente."
"Grazie, signorina." Rispose Phil, con il suo sorriso accattivante, e si sedette su una delle poltroncine della sala d'attesa, sfogliando una pubblicazione presa dal tavolino.
La ragazza lo guardava di sottecchi, e non potè fare a meno di pensare che quel sorriso così aperto e solare era in aperto contrasto con la figura enorme e austera, fasciata da quell'abito nero-antracite da almeno 2000 dollari. Pensava che forse, per un sorriso come quello, lei avrebbe anche potuto..
Moosley arrivò all'improvviso spazzando via i sogni di cristallo della receptionist:
"Phil! Come va, ragazzo!"
"Ciao, Mark! Sono in ritardo?"
"Ma figurati, lo sai che a New York chi è in orario è uno sfigato! Vieni, andiamo nel mio ufficio che c'è una novità"
"Uhm, una novità? Carina, spero!"
"Non credo che si tratti proprio di quello che pensi: stavolta dovrò far vedere il lotto in anteprima anche ad un altro consulente. Ordini direttamente dal gradino più alto…"
"Ah! Beh, nessun problema."
"Vieni, che l'aspettiamo di là."
E Mark si incamminò verso il suo ufficio con vista su Ground Zero.
***

6 Aprile, Zurigo
La sala riunioni era nell'area più appartata, riservata ed esclusiva della grande banca d'affari elvetica.
Il tavolo ovale, di fine settecento, era realizzato in noce e palissandro, ed il piano era finemente intarsiato con legni pregiati, fino a farne un prezioso disegno geometrico.
Si diceva che fosse un oggetto storico, appartenuto addirittura al fondatore della banca svizzera che li ospitava, ma le malelingue insinuavano invece che si trattasse di bottino di guerra, un bene sequestrato ad un ex-cliente i cui affari erano andati a malaparata, e forse anche grazie a certe attenzioni particolari proprio della stessa banca d'affari.
Alexander Tusek, con il suo legale ed il suo consulente, era seduto di fronte a tre uomini europei e ad un asiatico: dopo le presentazioni, il capo delegazione, un tedesco rubizzo ed evidentemente sovrappeso, aveva lasciato intendere che un governo lontano-orientale aveva intenzione di acquistare alcuni quadri, dipinti unici e abbastanza famosi, al solo fine di creare uno spazio museale in una importante metropoli asiatica. E sarebbe dovuto essere un museo con opere talmente importanti da rappresentare da sole una valida motivazione per incrementare le visite turistiche nella città.
"Signor Tusek, il nostro Cliente sa perfettamente che lei custodisce nella sua collezione alcuni importantissimi quadri, opere di autori eccezionali: Goja, Bosch, Monet, Renoir, VanGogh e soprattutto… Picasso. Le persone che rappresento sarebbero onorate di poter trattare con Lei l'acquisto di alcune tra queste opere. E siccome le leggo in viso il profondo dispiacere che proverebbe nel separarsi dai suoi oggetti, le assicuro che il nostro Cliente ci ha dato ampio mandato per... rinfrancarla adeguatamente di tali perdite." Il rubizzo tedesco rise tra sé della felice battuta: "Il nostro Cliente non ha problemi di denaro, ha solo profondo desiderio di arte."
Il collezionista sospirò; era nel mondo degli affari da tanti, troppi anni, ma ogni volta che sentiva questa forma di fraseggio immediatamente gli saliva in gola un conato di vomito, ed era pervaso da un desiderio immediato di essere altrove, a mille chilometri di distanza. Nei primi tempi, quando era ancora considerato l'astro nascente nell'imprenditoria del suo paese, era spesso costretto a soffocare tali sensazioni, e faceva il classico buon viso a un cattivo gioco. Ma ora era Alexander Tusek, quello che le statistiche ufficiose della CIA indicavano come uno dei 50 uomini più ricchi e potenti del mondo.
Accarezzò il tavolo settecentesco, ammirando la precisione e la conservazione dell'intarsio, riflettendo un attimo, poi si girò verso il suo consulente e disse:
"Signor Keller, la lascio qui con l'avvocato Jones: veda esattamente cosa vogliono da me questi signori, ipotizzi lei quello che potrebbe essere una transazione accettabile per me, e poi si accordi con Jones, che stenderà il contratto: dopo io deciderò. Mi fido della Sua sensibilità, Keller: io non me la sento di trattare direttamente ed in prima persona la cessione delle mie più belle passioni."
Detto questo si alzò in piedi, imitato immediatamente da tutti gli altri presenti nella sala.
Rimasero qualche secondo tutti in piedi e immobili guardandosi, in un silenzio che si sarebbe potuto tagliare con una lama; poi, senza dire una parola, Alexander Tusek si voltò ed uscì dalla sala, accompagnato da una hostess con la divisa della banca d'affari.
"Mi chiami l'auto, per favore." furono le uniche parole che disse, prima di entrare nel grande ascensore privato.
(segue)

1 commento: